BMCR 2024.06.18

“Je näher ihm, desto vortrefflicher”: eine Studie zur Übersetzungssprache und -konzeption von Johann Heinrich Voß anhand seiner frühen Werke

, "Je näher ihm, desto vortrefflicher": eine Studie zur Übersetzungssprache und -konzeption von Johann Heinrich Voß anhand seiner frühen Werke. Transformationen der Antike, 42. Berlin: De Gruyter, 2022. Pp. x, 324. ISBN 9783110473469.

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Questo libro si inquadra nell’attività ormai ventennale di un gruppo di ricerca berlinese sulla teoria e prassi delle traduzioni dai testi greci e latini, nell’ambito di un più generale progetto dal titolo ‘Transformationen der Antike’. Il concetto di trasformazione, che si distingue da quello di transfer culturale teorizzato già negli anni Ottanta da Michael Espagne e Michael Werner, si è mostrato utile, negli ultimi trent’anni, per comprendere il rapporto dialettico che la modernità ha con l’antichità. Con trasformazione si definisce ogni processo di appropriazione di un prodotto culturale antico in grado di modificare la cultura che se ne appropria. Inversamente, anche l’oggetto antico viene modificato dal modo in cui ci si avvicina ad esso. L’idea di trasformazione ci restituisce perciò un rapporto dinamico, fluido, con l’antichità, in cui il cambiamento coinvolge sia il punto di arrivo che quello di approdo, e che ha come esito una scoperta e riscoperta costante degli oggetti culturali antichi, che non sono mai da considerarsi come entità fisse e immutabili. Anche la traduzione dai ‘classici’, dunque, proprio come gli edifici architettonici, le città e altri oggetti della cultura materiale, non può che essere studiata secondo i suoi processi di trasformazione. Nell’ambito specifico della storia della traduzione, per trasformazione si intende la molteplicità di differenze e variazioni che si possono stabilire tra il testo di partenza e quello di arrivo e che sono produttive, ad esempio, nella lingua, nella fantasia, nella creatività letteraria, ma anche nelle convinzioni e nelle idee che circolano nella cultura d’arrivo. La trasformazione riguarda però anche il testo di partenza che si trasforma, si adatta agli interventi e talora agli attacchi del traduttore, ed è perciò, attraverso la traduzione, ri-scoperto sempre di nuovo nei suoi aspetti linguistici, ritmici, sonori, ma anche contenutistici.

Le traduzioni omeriche di Johann Heinrich Voß (1751-1826) costituiscono un ambito importante di applicazione del concetto di trasformazione. Il gruppo berlinese, che ha come animatori, oltre a Erica Fantino, Katja Lubitz, Thomas Poiss e Josefine Kitzbichler, ha prodotto molti contributi sia in generale sulle teorie e sulle prassi della traduzione dai testi greci e latini, sia, in particolare, sulla lingua traduttiva e sulla metrica di Voß[1]: questo libro ne riassume i maggiori risultati. Traducendo Omero con lo scopo principale di riprodurne il suono e la musicalità, e così di avvicinarsi il più possibile all’originale, Voß trasgredisce le regole della lingua tedesca e perciò la sua traduzione dell’Iliade e dell’Odissea del 1793 venne in un primo momento recepita con sconcerto. Ma in seguito, com’è noto, la sua maniera antichizzante di tradurre venne accolta e si impose, al punto da influenzare sostanzialmente la lingua tedesca e da trasmettere alla cultura tedesca un’immagine ideale di Omero, elevato a modello educativo e normativo, dal punto di vista letterario ma anche etico. Le traduzioni omeriche di Voß, in altre parole, sono state capaci di provocare una serie di ‘catene di trasformazione’, cambiando radicalmente la cultura tedesca della traduzione e distogliendola dal modello classicistico e razionalistico francese imperante nel Settecento. Voß intese la sua attività di traduttore omerico come il compito a cui dedicare tutta la sua esistenza; tale attività va inquadrata nelle discussioni dell’epoca sugli effetti, emotivi ma anche politici, della lettura degli autori antichi. Sulle traduzioni omeriche di Voß si è perciò a ragione scritto autorevolmente: Enrica Fantino riconosce i suoi debiti nei confronti di molti, a partire dalla dissertazione del 1949 di Alfred Kelletat (Voss und die Nachbildung antiker Metren in der deutschen Dichtung) e dai lavori, tutti fondamentali, di Günter Häntzschel, il cui libro del 1977, Johann Heinrich Voß. Seine Homer-Übersetzung als sprachschöpferische Leistung resta imprescindibile. Ma lo scopo di questo volume è andare oltre lo studio di Voß traduttore di Omero.

Lo scopo innovativo di Enrica Fantino è infatti dimostrare che le trasformazioni culturali provocate delle traduzioni omeriche di Voß valgono già per le altre sue traduzioni giovanili dalla lirica greca e latina. Per perseguire questo obiettivo, l’autrice ha usato un’ampiezza impressionante di letture. Pertanto, questo libro costituisce anche una fonte primaria di informazione bibliografica su ciò che è stato pensato e scritto sulla traduzione dai ‘classici’ antichi tra XVIII e XIX secolo, sia nella letteratura primaria sia in quella secondaria (le pagine 299-320 sono di bibliografia). La mole di lavoro che precede questo libro, originariamente una tesi di dottorato che ha impiegato otto anni per venire alla luce, appare perciò stupefacente: l’autrice ha letto tutti i testi che, in quel momento decisivo per lo sviluppo dell’estetica e della filosofia tedesche, nonché per la formazione dell’Altertumswissenschaft, si sono occupati, anche incidentalmente, di prassi e di teoria della traduzione.

Il libro si presenta diviso in due parti: la prima (pp. 11-74) si occupa dell’importanza della traduzione omerica di Voß nell’ambito delle poetiche contemporanee e delle riflessioni sui metodi del tradurre. La seconda (pp. 75-256), analizza le traduzioni giovanili di Voß, in particolare le traduzioni dalla lirica latina di Orazio e di Pindaro. Segue un utile, conclusivo compendio (pp. 257-264). ‘Giovanili’ sono qui definite le traduzioni redatte da Voß prima della sua influente traduzione dell’Odissea del 1781. L’autrice disegna un’amplissima cornice generale, in cui ricostruisce l’ambiente poetico, intellettuale ed accademico di Göttingen, dove Voß fu studente dal 1772 al 1775. Lì il giovane immatricolato come studiosus theologiae, secondo la prassi del tempo, frequentò le lezioni di Christian Gottlob Heyne (1767-1835), dal quale fu instradato ad una rigida disciplina filologica. Voß, tuttavia, non comprese il maestro, che considerava, del tutto ingiustamente, l’esponente di una nuda ‘traduzione delle parole priva di contenuti’ (v. p. 43). A Göttingen, Voß aderì al circolo poetico dello Hain, influenzato in maniera determinante dalla poetica di Friederich August Klopstock (1724-1803): un circolo di giovani entusiasti, animati da spiriti nazionalistici anti-francesi e anti-cattolici. Nell’ambito di questo circolo, Voß elaborò una sua specifica utopia neoumanistica.

Orazio è l’autore antico di cui Voß si serve, nell’ambito dello Hain, per applicare la poetica della lingua come espressione di passioni e manifestazione del ‘sublime’, poetica diffusa innanzitutto da Johann Jakob Bodmer (1698-1793) e Johann Jakob Breitinger (1701-1776). Le traduzioni di Voß da Orazio aspirano perciò a rendere la qualità passionale e sublime dell’autore latino, differenziandosi così dal freddo razionalismo di ispirazione francese di Johann Christoph Gottsched (1700-1776). Orazio, d’altronde, fu il poeta antico più tradotto e imitato nel XVIII secolo: traducendo Orazio, Voß gareggiò consapevolmente con i maggiori poeti e intellettuali dell’epoca. Rispetto a loro, Voß si prefigge quella che Wolfgang Schadewaldt chiamava Vollständigkeit, ossia un rispetto totale dell’originale, da cui non veniva sottratto, aggiunto o modificato nessun elemento linguistico o metrico. Da qui l’adozione dei metri antichi nelle traduzioni, sulla scia di Klopstock e di Karl Wilhelm Ramler (1725-1798), di contro ad altri tentativi di traduzione che trasponevano i versi antichi in ritmi moderni oppure traducevano in prosa. Voß ambisce invece a riprodurre l’effetto sonoro della lirica antica, adottandone la composizione delle parole e il ritmo, ricorrendo ad arcaismi e a neologismi che, specie per Pindaro, sintetizzano più lunghe porzioni del testo antico (Klopstock le chiamava Machtwörter). Voß forza, pertanto, la lingua d’arrivo per modellarla su quella di partenza, nella convinzione che la traduzione abbia come scopo precipuo la riproduzione degli effetti emotivi dell’originale. In sintesi, traducendo Orazio il giovane Voß elabora quei criteri metrici e linguistici che informeranno la sua traduzione omerica nel 1793.

Il fine precipuo di raggiungere il sublime e di commuovere perseguono anche le traduzioni da Pindaro, poeta simbolo della Geniezeit, la cui imitazione contribuì sostanzialmente alla nascita di una nuova poesia tedesca negli ultimi trenta anni del Settecento. Nelle traduzioni da Pindaro risulta più influente l’insegnamento filologico di Heyne, che fu il primo editore e traduttore in latino del poeta lirico. Ma le difficoltà della metrica pindarica (l’epocale edizione di August Boeckh, che stabilisce la colometria pindarica, appare solo tra il 1811 e il 1821[2]) sono certamente uno dei motivi per i quali Voß non tradusse più Pindaro. Tra le traduzioni dal poeta lirico corale si distingue come caso unico quella della prima Pitica (pubblicata nel 1777), che modifica in maniera più netta l’originale, attingendo a parole del tedesco arcaico e creando anche neologismi. Qui si sente maggiormente l’influenza di Klopstock e anche della poetica dello Hain, che si richiamava ai modelli linguistici dei Minnesänger medievali. La ricerca nella lingua tedesca antica, che Voß studiò nel suo periodo di Göttingen, lavorando a un dizionario etimologico, era infatti parte degli ideali nazionalistici del gruppo e del rifiuto dell’influenza, sul tedesco, del classicismo francese.

La conclusione a cui Enrica Fantino giunge è che sin dai suoi esperimenti giovanili Voß adottò le idee sullo scopo e sui modi della traduzione che poi realizzò nelle celebri traduzioni omeriche, ossia: la costruzione di una società borghese utopica, che si migliora continuamente attraverso la lettura degli antichi; l’adozione dei metri antichi e in generale di una traduzione ‘mimetica’ dell’espressività antica; lavoro di lima sulla lingua e formazione di una lingua poetica da trasmettere alla poesia contemporanea. Nel delinearsi di questa specifica poetica della traduzione, i lavori giovanili di traduzione da Orazio hanno un’importanza decisiva, sinora disconosciuta nella storia degli studi. In seguito, nelle traduzioni omeriche, ma anche nella tarda edizione delle poesie di Orazio (1806), Voß non fece nient’altro che acuire e rafforzare il suo orientamento mimetico verso la lingua di partenza, rispettando la massima ‘Je näher ihm [cioè all’autore antico], desto vortrefflicher’. Tale poetica entra però in collisione con la visione storicizzante non solo della nascente Altertumswissenschaft ma anche delle teorie della traduzione d’inizio Ottocento (Schleiermacher, Schlegel, Humboldt). E tuttavia l’Omero di Voß si impone come canonico e attraversa indenne tutto il XIX secolo e parte del XX, diventando, per generazioni, la traduzione tedesca di Omero per antonomasia.

Per giungere a queste che sono le sue conclusioni generali, l’autrice svolge un lavoro minuzioso di micro-analisi del carme I, 31 di Orazio, della quarta Olimpica  e della prima Pitica di Pindaro. Si tratta della parte più innovativa del libro, forse soffocata dal bisogno di contestualizzare e di fornire ampi quadri di riferimento. Molto utile l’appendice (pp. 266- 298), in cui si raccolgono sinotticamente i testi e le traduzioni di Voß analizzati.

In sintesi, il lavoro di Enrica Fantino si occupa della genesi della concezione di Voß della traduzione e dell’uso che, in quanto traduttore, fa della lingua tedesca. Un argomento difficile anche perché Voß stesso si esprime molto raramente sul metodo seguito nel tradurre, e dunque bisogna ricostruire induttivamente le sue convinzioni, i suoi modelli, i suoi obiettivi. All’autrice riesce bene di tendere un filo rosso che lega la produzione giovanile di Voß come traduttore lirico alle traduzioni omeriche degli anni Ottanta. Le sue microanalisi sono molto utili per entrare nel laboratorio di Voß, per mostrare il legame tra prassi e teorie, per collocare comparativamente l’attività di Voß nel suo tempo. Un libro come questo non si può che lodare: forse avrebbe giovato uno stile meno vicino a quello della dissertazione accademica, con lunghe note a piè di pagina e citazioni troppo estese. Un merito non secondario del libro, come di ogni buon libro, è aprire prospettive su nuove ricerche: sul rapporto con Heyne, ad esempio; sull’effettiva ricezione della ‘musicalità’ della lingua traduttiva di Voß; sulla sua concezione del ‘sublime’, che forse non dipende solo da Bodmer, Breitinger e Lange ma anticipa la concezione romantica del sublime con la sua valorizzazione dell’immaginazione creativa[3]. Questo ci darebbe un’immagine meno severa e anche meno settecentesca del classicismo di Voß.

 

Notes

[1] Baillot, Anne/Kitzbichler, Josefine/Fantino, Enrica (Hgg.), VoßÜbersetzungssprache: Voraussetzungen, Kontexte, Folgen, Berlin 2015.

[2] A proposito dell’importanza degli studi pindarici di August Boeckh sono seminali i lavori di Thomas Poiss che l’autrice cita in bibliografia.

[3] Sulla storia della ricezione del concetto di ‘sublime’ vd. ora la sintesi di Massimo Fusillo, in Sul sublime, a cura di S. Halliwell, trad. it. di L. Lulli, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, 2021.