BMCR 2023.09.28

Le moment unipolaire: Rome et la Méditerranée hellénistique (188-146 a.C.)

, Le moment unipolaire: Rome et la Méditerranée hellénistique (188-146 a.C.). Suppléments francophones de la Revue Phoenix, 2. Quebec: Presses de l’Université Laval, 2023. Pp. 498. ISBN 9782763743325.

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Il volume di Pierre-Luc Brisson affronta un tema e un’epoca fra le più indagate della storia romana di età repubblicana. La prima metà del secondo secolo a.C. (188-146 a.C.) vide l’emergere e la stabilizzazione del dominio romano in Oriente; questo fenomeno non ha cessato di costituire un incalzante motivo di riflessione e di ricerca sia per chi, come Polibio, fu testimone degli eventi sia per gli studiosi che si sono interrogati sulle cause di una serie di avvenimenti che mutarono per sempre lo scenario mediterraneo. A partire dal XIX secolo, inoltre, è visibile l’importanza assunta dalle vicende passate per quanti le studiavano: l’antichità diventava quasi il modello in cui ritrovare timori e inquietudini per un presente ove il ruolo di Roma sembrava essere via via rivestito dai grandi Stati coloniali che miravano alla supremazia. Nelle opere degli studiosi del mondo antico si può notare, di converso, anche un effetto quasi di rimbalzo ove il giudizio – positivo o negativo – nei confronti del presente si riflette in un’analoga valutazione delle azioni romane nel II secolo a.C. Tali relazioni di contiguità e coinvolgimento con il mondo antico – è importante notarlo – non si limitano a una fase ormai passata della ricerca.

La ricerca di Brisson ha origine da una certa insoddisfazione nei confronti dei risultati proposti da studi precedenti e dal desiderio di introdurre strumenti nuovi nell’analisi del “sistema ellenistico” della prima metà del II secolo a.C. Attraverso l’impiego metodico di tipologie e dispositivi propri dello studio delle relazioni internazionali – argomenta Brisson – è possibile superare risultati consolidati e proporre nuove e più adeguate letture del periodo. L’uso di tale strumentazione non costituisce una reale novità nelle indagini sul secondo secolo a.C., né Brisson ha una tale pretesa. L’originalità dell’approccio si sostanzierebbe nell’impiego costante e sistematico di specifiche categorie per accostarsi a uno tra i periodi più significativi e dibattuti della storia romana in età repubblicana, vale a dire le condizioni politiche e militari del mondo mediterraneo nel primo cinquantennio del II secolo a.C. Sotto questo aspetto la concettualizzazione di unipolarità e di «moment unipolaire» romano si presterebbe assai bene per descrivere i quattro decenni che vanno, appunto, dal 188 a.C. al 146 a.C., anni nei quali si afferma l’egemonia di Roma sul mondo ellenistico[1].

Multipolarità e bipolarità precedono il momento unipolare che si sarebbe imposto in questi anni e in questa realtà geografica: è appunto tale sequenza trasformativa propria della teoria delle relazioni internazionali che viene recepita da Brisson e adottata come guida principale per l’interpretazione. La teoria dell’unipolarità contribuisce a chiarire le dinamiche che avrebbero influenzato la politica estera del Senato e mostrerebbe quanto una simile configurazione, invece di costituire la base di una ripresa pacifica, avrebbe accentuato l’aggressività del principale attore unipolare negli anni che intercorrono tra la pace di Apamea e la distruzione di Cartagine e Corinto. Lo studio di Brisson si arresta con la resa a provincia dell’Africa e della Macedonia da parte di Roma; la costituzione della prima provincia nell’Oriente greco segnerebbe il passaggio dall’unipolarità a una “impérialisation” del sistema ellenistico (2), dall’egemonia al controllo diretto[2].

Il volume è così ripartito: a una breve prefazione di Andrew Erskine seguono tre parti, ognuna delle quali a sua volta è composta di due capitoli; dopo i sei capitoli e la conclusione si trova la bibliografia, la postfazione di A.M. Eckstein What is an empire?, otto Annexes, l’Index Geographicus, l’Index Nominum (manca l’indice delle fonti), tre liste e il sommario.

Nel primo capitolo il lettore può confrontarsi con una buona introduzione alle specifiche teorie adottate da Brisson come strumento interpretativo e alla discussione della loro applicabilità allo scacchiere mediterraneo del secondo secolo a.C. Se è palese l’ausilio che uno storico può ricevere dall’impiego della polemologia, temo che in alcuni casi la differenza abissale tra la quantità di documentazione e di dati quantitativi utilizzabili dai colleghi contemporaneisti e quella disponibile per gli storici antichi possa costituire un serio limite alle indagini parallele. È noto, solo per rilevare un unico esempio, che all’epoca il principale organo deliberativo in materia di politica estera a Roma era costituito dal Senato e così, naturalmente, Brisson considera le decisioni relative a queste materie frutto degli orientamenti del senato o, in alternativa sinonimica, dei Patres. L’assemblea, però, è qui spesso rappresentata come un blocco compatto, mentre sappiamo che divergenze e interessi diversi – se non concorrenti – esistevano all’interno del Senato ed erano espressi con chiarezza nelle sedute[3]. Nel periodo indagato da Brisson si verificò un incidente piuttosto significativo che evidenziò, secondo la narrazione liviana, una nuova e inaccettabile tendenza nella maggioranza dei senatori. Questa nova sapientia fu biasimata con forza – ma senza successo – da un gruppo di senatori contrari alla politica spregiudicata nei confronti del sovrano macedone Perseo. Al di là dell’approfondimento che questo episodio avrebbe meritato nell’economia del volume[4], è necessario riconoscere all’interno del senato la presenza di divisioni su decisioni fondamentali. Considerazioni analoghe si possono avanzare in relazione ad altre iniziative senatorie e bisogna ammettere che la scarsità di fonti disponibili, impedendo di conoscere la composizione del senato e gli interessi specifici di cui ogni gruppo era portatore, sottrae dati necessari per comprendere varie decisioni di politica estera nel II secolo a.C.

Il secondo capitolo presenta lo scenario mediterraneo introducendo le condizioni delle varie potenze. Brisson discute in primo luogo i risultati cui sono pervenuti quanti hanno trattato aspetti rilevanti della polemologia nel III e II secolo, si dedica poi all’analisi specifica della dimensione della guerra nelle società coinvolte e considera il ruolo della diplomazia e quello dei rituali ritenuti indispensabili dai Romani per dichiarare una guerra[5]. Nell’esaminare in seguito le tesi di W.V. Harris sull’imperialismo offensivo dei Romani, Brisson integra la discussione con risultati di ricerche recenti condotte su soldati traumatizzati dalle esperienze vissute durante la guerra. Le conclusioni parziali cui perviene sono ampiamente accettabili, ma più frutto – crederei – dell’applicazione del buon senso e della difficoltà nell’accogliere le tesi avanzate da Harris sulla pretesa diversità strutturale dei  Romani, che esito di un rinnovato scrutinio delle fonti.

Nel terzo capitolo, il primo della seconda parte, si assiste alla svolta dal sistema multipolare a una configurazione bipolare a seguito del ridimensionamento delle monarchie lagide e antigonide; unica seria contendente di Roma resta la monarchia seleucide di Antioco III. In questo capitolo comincia una descrizione minuta dei fatti politici e militari delle potenze antagoniste e il lettore può constatare quanto l’impalcatura degli eventi si basi in gran parte sull’Histoire politique du monde hellénistique di Édouard Will. Brisson segnala con attenzione ogni riferimento a quest’opera, ma la narrazione, risalente in ultima analisi alla conoscenza e attenta valutazione delle fonti da parte di Will, mostra quanto la documentazione antica pertinente agli aspetti considerati da Brisson non sia molto aumentata rispetto a quella nota a Will negli anni in cui redigeva l’Histoire politique[6]. Il radicale ridimensionamento subito dalla Siria con la pace di Apamea segnò infine il passaggio alla unipolarità del sistema e alla (160) «consécration de la position de Rome comme seule grande puissance

Nel quarto capitolo Brisson si sofferma sulle «forces profondes» che avrebbero garantito il successo di Roma e assicurato la stabilità quarantennale del momento unipolare[7]; Brisson riprende qui il dialogo con gli studiosi contemporanei di relazioni internazionali, per esaminare in termini appropriati al mondo romano le componenti di tali «forces profondes». Il compito è indispensabile, ma credo che alcuni tra i fattori osservati provengano da una grande approssimazione quantitativa da parte degli antichisti che li hanno elaborati; così è, ritengo, per molti dati pertinenti, per esempio, alla demografia (173-181). Per quanto concerne il breve paragrafo dedicato all’economia (182-186), un’altra forza profonda, mi sembra che sarebbe stato più adeguato impiegare nel titolo le categorie di bottino e tributo, poiché questo viene discusso, non l’economia romana nel cinquantennio 200-150 a.C. Forse la crescente potenza dei pirati e il crescente fenomeno della pirateria avrebbero meritato più che un accenno (170). In questo periodo si rafforzò, infatti, la presenza dei pirati, le loro flottiglie minacciavano le coste anatoliche, razziavano, sequestravano e rapivano abitanti per ricavare bottino dal riscatto o dalla vendita come schiavi dei prigionieri. Un tale fenomeno è da collegare anche alla nuova unipolarità romana, alla riduzione di contingenti militari e di flotte prescritta nelle condizioni di pace imposte dai Romani ai regni ellenistici, regni che in precedenza si erano impegnati nella repressione della pirateria. Per contro, la posizione dei Romani fu davvero molto ambigua e la loro responsabilità nel tollerare il fenomeno e nello sfruttarlo a proprio vantaggio è ripresa con amaro disincanto in un passo di Strabone (14.5.2).

Nel quinto capitolo Brisson tratta il periodo dal 188 al 164 a.C. e discute con grande cura i fatti di Siria, i rapporti di Roma con la Macedonia sino alla terza guerra macedonica e il posizionamento delle altre potenze prima e durante il conflitto. La fine dell’unipolarità (164-146 a.C.) costituisce l’oggetto del sesto e ultimo capitolo; il rigetto di interpretazioni come quella di Erich Gruen, legate a una presunta apatia dei Romani nel decennio successivo alla fine della monarchia macedone, è del tutto condivisibile; si può ritenere, piuttosto, che in quell’epoca – come in altre successive – si verificò da parte dei Romani una sottovalutazione del pericolo e un’incapacità di percepire l’effettiva portata di rivolte e di guerre che avrebbero potuto essere domate agli inizi con ben minore dispendio di uomini e di mezzi. Il momento unipolare termina nel 146 a.C. e inizia «l’impérialisation lente du système international méditerranéen». Nella conclusione Brisson riprende le teorie delle relazioni internazionali e sintetizza i risultati che la loro applicazione consentirebbe di raggiungere.

Come si sarà notato, si tratta di un libro ricco, ma di non facile lettura. In primo luogo, per quanto concerne la piattaforma teorica antica e contemporanea, molti lavori di studiosi sono talora discussi e sfumati in una forma che non sempre chiarisce quale sia l’opinione dell’autore, specie nelle discussioni di quanti hanno manifestato opinioni assai diverse in merito alla disposizione e agli obiettivi dei Romani nella prima metà del secondo secolo a.C. Sarebbe stato utile anche allargare il ricorso alle fonti[8]: è naturale che Polibio e Livio siano gli autori più considerati, ma l’utilizzo di altri, come per esempio Cicerone, avrebbe contribuito alla ricerca. Sono consapevole, poi, che una tale indagine non poteva esaminare ogni fenomeno e ogni avvenimento, ma credo sarebbe stato opportuno ricordare il celebre episodio dell’ambasceria a Roma di Carneade, Critolao e Diogene, i tre filosofi inviati da Atene nel 155 a.C.[9].

L’adozione di strumenti esegetici e teorie sviluppate da altre discipline rappresenta sempre una soluzione innovativa e potenzialmente produttrice di risultati, ma tali dispositivi costituiscono una sorta di funzione che può agire intervenendo su contenuti specifici. La documentazione antica pertinente al soggetto del volume, relativamente limitata, temo possa consentire solo un margine ridotto di impiego.

 

Notes

[1] Vd. la definizione di Erskine nella Préface (xv): «It (scil. unipolarity) requires one state to have an unrivalled level of power but to fall short of total domination».

[2] Vale la pena ricordare che il concetto di imperialismo e il vocabolo stesso sono attestati per la prima volta nel 1684. Il teologo riformato Thomas Beverley ((ca. 1621-1702) nell’esegesi dell’Apocalisse si riferisce con il vocabolo Imperialism proprio alle azioni di Roma nei confronti dei «Supreme Princes and States» che «The Roman Imperialism dismounted, and made tributary, stamping upon them with its Legs of Iron.» vd. T. Beverley Scripture-line of Time drawn in brief from the Lapsed Creation, to the Restitution of all Things, London 1684, vi. 68.

[3] I miei rilievi tengono conto della precisazione (30-31) a proposito dell’impiego di termini quali «Carthage», «Rome», «Sénat romain».

[4] Liv., 42.47.9. L’episodio è brevemente trattato (236) e l’unico riferimento bibliografico, risalente al 1964, è stato oggetto di forti discussioni. Si veda, almeno, G. Zecchini, Polybios zwischen metus hostilis und nova sapientia, «Tyche» 10 (1995),  219-232; K.-E. Petzold, Die Freiheit der Griechen und die Politik der nova sapientia, «Historia» 48.1 (1999), 61-93 e, soprattutto, J. Briscoe, A Commentary on Livy , books 41-45, Oxford 2012, 313-318; tale commento è segnalato nella Bibliographie ma non è utilizzato per questo episodio.

[5] A 101 bisogna correggere la citazione liviana, che non si riferisce grammaticalmente alla guerra e non reca iustum piumque. Il testo è iuste pieque e si riferisce alle azioni del nuntius populi Romani. Liv., 1.32.6: ego sum publicus nuntius populi Romani; iuste pieque legatus venio verbisque meis fides sit.

[6] Vd., però, ora Die Staatsverträge des Altertums Bd. 4: Die Verträge der griechisch-römischen Welt von ca. 200 v. Chr. bis zum Beginn der Kaiserzeit, bearbeitet von R. Malcolm Errington, München 2020. A 149 da correggere in foedus iniquum il refuso foedus inequum.

[7] Tra i refusi presenti in questo capitolo bisogna correggere «Séleucide du Tigre» in «Séleucie du Tigre», «l’Épirote Cinéas» (193 e 463) in «le thessalien Cinéas». La fonte della notizia degli Ἀνακλητήρια (189), qui non menzionata, è Pol., 18.55.3.

[8] A questo proposito non è immediatamente evidente la selezione operata nel presentare gli Annexes. In ogni caso all’Annexe 4 mancano due importanti riferimenti a C.P. Jones, Diodoros Pasparos and the Nikephoria of Pergamon, «Chiron» 4 (1974), 183-205 e Diodoros Pasparos Revisited, «Chiron» 30 (2000), 1-14.

[9] Le numerose fonti in G. Garbarino, Roma e la filosofia greca dalle origini alla fine del II secolo a.C., Torino 1973, 80-86 e 362-370. Vd. ora J.-L. Ferrary, Les philosophes grecs à Rome (155-88 av. J.-C.), in A. M. Ioppolo, D. Sedeley (eds.), Pyrrhonists, Patricians, Platonizers. Hellenistic Philosophy in the Period 155-86 B. C. Tenth Symposium Hellenisticum, Naples, 2007, pp. 17-46; J.G.F. Powell, The Embassy of the Three Philosophers to Rome in 155 BC, in C. Kremmydas, K. Tempest (eds.), Hellenistic Oratory: Continuity and Change, Oxford 2013, 218-247. Nell’Index Nominum <Sp. Lucretius> (470) deve essere riportato sotto <L> (gentilizio Lucretius), non <S>.