BMCR 2023.08.32

Dee di maggio: introduzione e commento a Ovidio, Fasti 5, 1-378

, Dee di maggio: introduzione e commento a Ovidio, Fasti 5, 1-378. Millennium, 12. Alessandria: Edizioni dell’Orso, 2022. Pp. vi, 394. ISBN 9788836132096.

Il volume di Luca Basso rielabora la tesi di dottorato da lui discussa nel 2020 presso l’Università degli Studi di Torino e si profila quale commento sistematico alla prima parte del quinto libro dei Fasti ovidiani, notoriamente dedicato alla trattazione delle ricorrenze di maggio. Le pagine del libro sono perciò scandite da una sintetica Premessa (i), da una giustificatamente ampia Introduzione (1-78), seguita da una Nota al testo e sigla (79-80), nonché dal testo critico con apparato selettivo di Fast. 5.1-378 (81-92), dalla relativa Traduzione prosastica (93-101), dal rispettivo e corposissimo Commento (103-356), ancora dalla Bibliografia (357-375), dall’Indice delle parole e delle cose notevoli (377-382), dall’Indice dei passi citati (383-390) e, infine, dall’Indice complessivo dei contenuti trattati (391). L’Introduzione è, a sua volta, segmentata in tre paragrafi, ordinatamente intitolati: 1. Le incertezze del maestro: strategie di un proemio (1-20); 2. Intorno a maggio: esperimenti letterari (20-40); 3. Flora: ritratto di una dea (40-78). Piace poi constatare – a riprova di un dominio accurato dei repertori bibliografici – la suddivisione coerente della Bibliografia, esattamente, in Edizioni e commenti dei Fasti (357-358), Altri commenti (358-362), Lessici e opere di consultazione (362-363), Saggi e studi (363-375).

Sorprende che, quanto meno nella Premessa, Basso non espliciti direttamente le ragioni di un commento parziale a Fast. 5, precisando di propria mano gli scopi perseguiti a monte della sua ricerca, ma anche gli elementi di tangibile novità che essa propone. È pur vero che – come, del resto, leggiamo nella quarta di copertina – la pericope di versi sottoposta ad esame è tale da consentire una interpretazione organica dei primi grandi quadri narrativi di Fast. 5, ove spiccano alcune figure femminili di rilievo (le Muse, Maiestas, Maia, la nutrice di Giove, le Iadi, Flora), le cui vicende e il cui comportamento vengono scanditi attraverso la struttura fluida del calendario in distici e permettono, altresì, di cogliere entro quali termini Ovidio stesso percepisse la Roma di Augusto e le componenti culturali e civili dell’Vrbs. Se poi si eccettua la dissertazione dottorale, rimasta inedita, di Ian N. Brookes (I.N. Brookes, A Literary Commentary on the Fifth Book of Ovid’s Fasti, Diss. Newcastle Univ. 1992), consistita nel commento letterario all’intero quinto libro, è di per sé evidente come il volume di Basso colmi una lacuna manifesta negli studi ovidiani mediante una esegesi che, per quanto limitata ai primi 378 versi, si caratterizza per l’analisi continua degli aspetti letterari, filologici e storico-antiquari della sezione in oggetto. La collana Millennium, a cui il volume appartiene, non è, poi, estranea a iniziative analoghe di commenti ragguardevoli a singoli libri di opere di autori latini esaminati in tomi reciproci, ma distintamente (ad es., il commento a Stat. Theb. 7 redatto da Stefano Briguglio e pubblicato separatamente in due differenti volumi, apparsi, presso la medesima serie, rispettivamente nel 2017 e nel 2020).

Nel primo paragrafo dell’Introduzione Basso rielabora i materiali da lui già presentati in “Le incertezze del maestro. Strategie di un proemio in Ovidio, Fasti 5.1-9”, in M. De Nonno, E. Romano (edd.), Atti del V Seminario nazionale per dottorandi e dottori di ricerca in studi latini (Roma, 6 dicembre 2019), «Biblioteca di ClassicoContemporaneo» 12, 2021, 1-13. L’Autore si concentra, altresì, immediatamente sui temi cruciali che concernono il quinto libro, a partire dalla sofisticata intelaiatura di rispondenze interne sulle quali è costruito il proemio, la cui ambiguità formale è subito riscontrabile nella domanda incipitaria rivolta direttamente ai lettori, fino a isolare questioni più eterogenee come quelle correlate all’onomastica dei mesi; alla completezza del poema; all’autonomia del poeta augusteo nel trattamento della conoscenza per mezzo di nuove dinamiche interpretative del materiale antiquario di cui egli dispone; alle caratteristiche e alle potenzialità attivate dai singoli discorsi delle Muse, intesi come segno inconfondibile dello sperimentalismo ovidiano; al culto di Flora e all’inizio ritardato dell’esposizione sui Floralia, sui cui riti possiamo oggi attingere informazioni attendibili ed esaustive nel breve, ma denso, capitolo di Albert Foulon (“Flora et les Floralia chez Ovide”, in D. Briquel, C. Février, and C. Guittard [edd.], Varietates fortunae. Religion et mythologie à Rome. Hommage à Jacqueline Champeaux, Paris 2010, 45-54) e, soprattutto, nella recente monografia di Lorenzo Fabbri (Mater Florum. Flora e il suo culto a Roma, Firenze 2019).

La sequenza di versi selezionati – su cui si basano sia la traduzione che il commento – riproduce il testo dell’edizione Teubneriana (P. Ovidius Naso. Fastorum libri sex. Recenserunt E.H. Alton, D.E.W. Wormell, E. Courtney. Editio stereotypa editionis quartae, München-Leipzig 2005), corredata da apparato critico negativo, quest’ultimo fondato sulla medesima edizione e su quella de Les Belles Lettres (Ovide. Les Fastes. Tome II : Livres IV-VI. Texte établi, traduit et commenté par Robert Schilling, Paris 1993). Dei quattro punti (v. 44: firma contro culta; v. 74: †tangor† contro tangor; v. 158: uirum contro †uirum†; vv. 207-208: mantenimento dell’intero distico) in cui Basso si discosta dal dettato Teubneriano, viene dato sistematico e intelligente riscontro all’interno del commento. Risalta, ad es., la scelta di accogliere firma al v. 44 (restat, et ex illo tempore firma manet), soprattutto in forza dell’efficace spiegazione fornita dall’Autore: la lezione firma metterebbe d’accordo due dei codices primarii, ossia G ed M (il primo risalente all’XI secolo, il secondo al XV), ed essa si opporrebbe pertanto «all’azione destabilizzante nei confronti del potere olimpico», rivelandosi dunque «coerente con il carattere complessivamente statico della dea, sottolineato anche dalla collocazione enfatica di restat a inizio v. con enjambement» (139-140), mentre la lezione alternativa culta – che pure è attestata da un codex primarius quale il Vaticanus Latinus 3262 (o Ursinianus) del secolo XI – «appare leggermente banalizzante, e si potrebbe spiegare con la sistemazione di un errore di aplografia (firma manet)» (140).

La traduzione dà riscontro al testo latino con una prosa che privilegia i canoni della chiarezza e della scorrevolezza stilistica rinunciando ad effetti retorici ricercati e distanti dalle modalità enunciative dei versi tradotti. Graficamente, può creare forse un po’ di confusione – specialmente nel lettore meno allenato – la sua ripartizione in pericopi e il fatto che essa sia successiva nell’impaginazione, piuttosto che affiancarvisi, alla sequenza di distici di cui si compone il libro, ma questo non elude la felicità di alcune soluzioni interpretative. In Fast. 5.245 (uox erat in cursu: uoltum dubitantis habebam), per es., le parole uoltum dubitantis habebam che siglano in clausola, icasticamente, il singolo esametro dopo cesura pentemimera, possono essere tradotte, più letteralmente e con maggiore adesione alle movenze della dizione latina, in «avevo il volto di chi esita», ma Basso rende invece l’espressione con «io mostravo esitazione sul volto». La traduzione di Basso, certamente più libera, rafforzerebbe, a mio avviso, il senso complessivo di un comportamento sintattico unitario insito nell’enunciato latino, giacché essa enfatizza maggiormente – esplicitando il pronome personale già segnalato dalla desinenza del verbo – il punto di vista di Flora, la quale si mostra in un primo momento esitante di fronte alle richieste di Giunone, giunta alla sua porta per chiederle aiuto, giacché ella intende, con il supporto della ninfa, restare gravida (di Marte) senza amplesso con il sommo Giove, reo, a propria volta, di aver concepito Minerva senza una madre. La qualità della metafrasi diventa ancora più palese se la si raffronta con la traduzione della frase antecedente, ovvero uox erat in cursu, formula che troviamo identica in Am. 1.8.109 e Her. 5.121 e che Basso traduce «Mentre così parlava», intendendo con uox la sintesi delle parole di aiuto di Giunone, esplicitate più sopra nel racconto. Differentemente dall’operazione di un traduttore senz’altro autorevole come Luca Canali, che traduceva l’espressione, contrariamente all’uso ovidiano, riferendola invece alla stessa ninfa, con «Ero sul punto di parlare» (vedi Ovidio. I Fasti. Introduzione e traduzione di Luca Canali. Note di Marco Fucecchi, Milano 1998, 391), la resa di Basso recupera abilmente un’opposizione che il testo – secondo una maniera non ignota al realismo narrativo del Sulmonese – potrebbe, forse, suggerire: alla uox di Giunone si contrapporrebbe, quindi, il uoltus di Flora, il quale tradisce l’incertezza della ninfa, fedele ai moniti di Giove, ed esprime, quindi, il suo dissidio iniziale quale risvolto esteriore dell’inquietudine che la pervade.

La specificità più vistosa del libro è certamente il commento, che – come già la traduzione italiana – è ripartito in quattro unità argomentative, ciascuna corrispondente a un nucleo tematico di versi: Le Muse (5.1-110); Le calende di maggio (5.111-158); Le Iadi (5.159-182); Flora (5.183-378). L’esegesi, come già rilevato, ha carattere composito e muove da considerazioni di natura disparata, come quelle prettamente erudite che Basso riserva, per es., all’identità di Boreas – ossia del vento del nord, l’Aquilo dei Latini, che aveva rapito Orizia, figlia del re ateniese Eretteo, dando così l’esempio a Zefiro, il quale bramava a sua volta d’amore per Flora – e ai fontes che ne confermano la presenza «in poesia, sia nella versione naturalistica […] sia in quella personificata» (245); o, ancora, quelle di carattere stilistico, che consentono di allargare la prospettiva alla tessitura metrica dei versi, pure richiamata dai commenti al testo critico, la discussione sul quale assume un andamento ampio e ragionato, connotato da osservazioni argute e sottili. L’approccio di Basso all’indagine sui distici è, insomma, allo stesso tempo di largo respiro e strettamente analitico, tale, per es., da ricondurre soggetti non univoci come lo sviluppo narrativo di una Gigantomachia in Fast. 5.35-42 – che vive in Ovidio, insieme a Met. 1.151-162, come caso isolato – a una certa «tendenza alla dilatazione iperbolica», che funge da «controcanto alla grandezza di Maiestas», di cui «i Giganti stessi sono una versione perversa» (133), senza però evitare di considerare i fenomeni di sincretismo che confondono e variano, secondo un uso ellenistico, la trattazione e le menzioni sparse del mito relativo nella tradizione poetica latina. Va poi dato rilievo alla padronanza che Basso dimostra rispetto alla ricchezza consistente dei materiali di cui si avvale per la stesura del commento, che conferma non solo una rigorosa supervisione della propria disamina, ma anche la capacità di muoversi con agio tanto in argomentazioni di teoria letteraria e di critica intertestuale e intratestuale – con manifesta competenza sul corpus ovidiano – quanto in occasioni di studio di sviluppo schiettamente filologico e lessicografico.

Il lavoro di Basso non ci interroga, né fornisce spiegazioni, su questioni d’insieme, come quelle, per es., poste sottilmente da Carole E. Newlands (Playing with Time: Ovid and the Fasti, Ithaca-London 1995, 11 ss.) sulla dicotomia tra politica e letteratura, che collassa facilmente dinanzi alla predilezione che il Sulmonese manifesta con acume per le ricorrenze del calendario latino quale strumento di propaganda ideologica, tutt’altro che neutrale, attraverso cui i Romani avevano di fatto costruito il proprio senso di identità nazionale. Alle velleità della monografia, esso antepone, cioè, l’assetto di una scrittura compatta e coerentemente protesa al profilo di un’esegesi esclusivamente focalizzata su Fast. 5.1-378 e sui motivi di maggior riflessione posti dal libro intero se inteso come parte di un’opera dai significati complessivi. È questo, io credo, il valore indiscusso del volume, che si fa leggere comodamente anche da un lettore non di madrelingua italiana e che, nel dispiegare accuratamente lo zelo con cui Ovidio continua a fornire cause per testimonianze svanite (vedi A. Barchiesi, Il poeta e il principe. Ovidio e il discorso augusteo, Roma-Bari 1994, 96-99), raccoglie informazioni e apre spazi ermeneutici non ancora percorsi con vocazione innovativa. Di un volume caratterizzato da tale fisionomia sicuramente beneficerà lo studioso esperto dei Fasti, ma anche chiunque intenda accostarsi all’opera ovidiana per un primo (e severo) apprendistato.