BMCR 2022.02.33

The new late antiquity. A gallery of intellectual portraits

, , The new late antiquity. A gallery of intellectual portraits. Bibliothek der klassischen Altertumswissenschaften, 162. Heidelberg: Universitätsverlag Winter, 2021. Pp. 760. ISBN 9783825347215. €78,00.

[Autori e titoli sono elencati alla fine della recensione.]

«The productive response to a miscommunication» (p. 1): queste le parole – non prive di una certa souplesse – con cui i curatori Clifford Ando e Marco Formisano introducono The New Late Antiquity, volume che raccoglie i profili critici di trentadue protagonisti di centocinquant’anni di studi sulla Tarda Antichità, in parte presentati in occasione dell’omonimo convegno organizzato presso l’Universiteit Gent nel febbraio 2015. Grazie al contributo di alcuni fra i più noti studiosi delle ultime tre generazioni – emblematico il caso di Lellia Cracco Ruggini (1931-2021), al contempo protagonista di un capitolo e coautrice di un altro – il volume si prefigge dunque un duplice obiettivo: da un lato ricostruire i ritratti degli studiosi che, nell’ultimo cinquantennio, hanno maggiormente rivoluzionato le prospettive degli studi sul Tardoantico, contribuendo a fondarne l’attuale paradigma, dall’altro ripercorrere (alcune del) le tradizioni intellettuali che, già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, hanno reso possibile il superamento della narrativa del declino e la difficile perimetrazione epistemologica di quest’epoca di transizione. Il risultato è un mosaico ricchissimo, plurilingue e policentrico, che – pur a prezzo di una certa difformità redazionale – ben fotografa il dinamismo che ha caratterizzato la ricerca tardoantichistica degli ultimi decenni, e che si riflette oggi nell’«extraordinary maturation» (p. 4) di un campo di studio intrinsecamente interdisciplinare. Ed è in fondo la stessa organizzazione del volume, in cui i saggi si succedono secondo l’ordine alfabetico degli autori, che se da un lato «resist[s] the construction of any simple narrative» (p. 3), dall’altro autorizza una molteplicità di itinerari di lettura (cronologici geografici disciplinari), che si tenterà qui almeno in parte di ricostruire.

Anche a causa dell’assenza di un profilo dedicato a Jacob Burckhardt, nell’ambito dell’«older paradigm» (p. 2) degli studi sul Tardoantico il posto centrale è occupato dalla figura – e dalla scuola – di Theodor Mommsen. Scegliendo a ragione di non soffermarsi sul «quasi classico tema»[1] (così Arnaldo Momigliano) della mancata stesura del quarto volume della Römische Geschichte, né sull’indagine ‘bowersockiana’[2] del rapporto con l’ingombrante eredità di Gibbon, il saggio di Arnaldo Marcone evidenzia come il contributo di Mommsen allo studio della Tarda antichità non vada ricercato nei giudizi «alquanto semplicistici» (p. 336) sui singoli protagonisti della storia imperiale delle Vorlesungen, quanto nell’attività di editore critico (emblematico il caso delle Variae di Cassiodoro) e di organizzatore di imprese collettive, fra cui l’ambiziosissima prosopografia progettata con Adolf von Harnack e destinata a trovare realizzazione soltanto nel secondo dopoguerra, con la ripartizione del lavoro fra l’équipe britannica guidata da Arnold H. M. Jones e quella francese di Henri-Irénée Marrou. È dunque il Mommsen degli ultimi anni, «stanco e tutto impolverato dal percorso per le strade della filologia»[3], ad aver propiziato la prima vera stagione di ricerche sulla Tarda Antichità, quantomeno in ambito storiografico: e non è un caso che alla sua scuola appartenesse Hermann Dessau, che nel 1889 pubblicò lo studio fondativo dell’ancora inesauribile filone di ricerche sull’Historia Augusta, il testo che forse più di ogni altro – anche grazie ai periodici Colloquia – ha coagulato gli interessi dei protagonisti di questo volume (fra gli altri Alan Cameron, André Chastagnol, Lellia Cracco Ruggini, Andreas Alföldi, François Paschoud, Ronald Syme).

Altro allievo di Mommsen – anche se non giunse mai a occuparne la cattedra berlinese – fu Otto Seeck: senza tacerne «die Lücken und Defizite» (p. 454), Stefan Rebenich ricostruisce genesi, prospettive e ricezione della Geschichte des Untergangs der antiken Welt (1895-1920), mettendo bene in luce l’influenza esercitata dalla teoria organicistica dell’‘eliminazione dei migliori’ sul paradigma spengleriano del tramonto dell’Occidente, a sua volta destinato a influenzare – almeno attraverso la fascinosa metafora della pseudomorfosi – l’interpretazione della genetica culturale tardoantica di Marrou (p. 14). Forse anche nel caso di Seeck, come in quello del maestro, il contributo più duraturo alle ricerche sul Tardoantico andrà allora inquadrato nell’attività di editore e studioso di testi centrali per la conoscenza dei modelli relazionali e della cultura amministrativa dell’età tardoantica, quali la Notitia dignitatum (1876) e gli opera di Simmaco (1883), a tacere del volume sull’epistolario di Libanio (1906). Scolaro di Ludo Moritz Hartmann, e dunque allievo indiretto di Mommsen, fu anche Ernst Stein: dopo averne ricostruito la tormentata biografia, Hartmut Leppin indaga le prospettive storiografiche aperte dal primo volume della Geschichte des spätrömisches Reiches (1928), pubblicato prima della conversione dell’autore al cattolicesimo e del suo esilio per motivi razziali dalla Germania nazista: l’opera dello storico galiziano, improntata a un «Gestus der Nüchternheit» (p. 304) nei fatti antitetico rispetto alle ambizioni letterarie di Seeck, dà corpo a una rilettura dei fenomeni socio-politici del Tardoantico in cui – al netto di ogni semplicistica sovrapposizione – riecheggia il trauma della fine dell’impero austro-ungarico.

È proprio nell’alveo della celebre scuola di storia dell’arte della Vienna Jugendstil che affondano le radici della prima compiuta rivalutazione dell’autonomia estetica dell’arte tardoantica. L’indagine del contesto culturale in cui si sviluppò la fulminante carriera di Alois Riegl – morto appena quarantasettenne nel 1905 – consente a Jaś Elsner di mettere a fuoco il «deep ancestral link of Austro-Hungary with Rome» (p. 169) che soggiace alla stessa scelta del titolo della sua Spätrömische Kunstindustrie (1901), e la natura implicitamente ‘winckelmanniana’ della sua enfasi teleologica sull’evoluzione interna e progressiva della cultura figurativa di Roma. Radicalmente alternativo, come noto, il modello interpretativo di Josef Strzygowski. È Christina Maranci a ricostruire la «complex and extensive intellectual legacy» (p. 332) del controverso autore di Orient oder Rom (1901), non senza evidenziare il ruolo decisivo del mito ariano e del nazionalismo pangermanistico sulla sua interpretazione mistico-cartografica della storia dell’arte universale, in cui all’incorrotta unità culturale dell’Asia e del Nord si contrapponeva un Mediterraneo tarlato dalla decadenza; più in ombra, nell’analisi della studiosa, resta il rapporto di Strzygowski con discipline quali l’etnologia, l’antropologia e la psicologia sociale, che in quegli anni esercitavano una forte influenza sulla Kunstwissenschaft tedesca, (problematica) antesignana dell’odierna World art history.[4]

Se è vero che furono Marrou, Momigliano e Santo Mazzarino a insegnare alla generazione post-bellica che «there was light after the third century»[5], il vero e proprio Virgilio della New Late Antiquity è però Peter Brown, cui Andrea Giardina consacra uno dei capitoli più corposi del volume. La ricostruzione della biografia intellettuale dello studioso irlandese, basata innanzitutto sulle sue stesse testimonianze autobiografiche (significativa in particolare la memoria dell’incontro – quasi un tolle lege agostiniano – con la Storia economica e sociale di Michail I. Rostovzev), è il pretesto per una ricognizione delle principali caratteristiche del Tardoantico browniano, già compiutamente tratteggiate entro la fine degli anni Settanta. Come suggerisce la citazione scelta per titolo – «Tutto il vigore è negli occhi» – il saggio si muove innanzitutto sul piano della visualità, sia quando mette in luce il ruolo dell’apparato iconografico e delle didascalie di The World of Late Antiquity (1971) nella costruzione della diffusa retorica sulla contemporaneità del Tardoantico, sia quando analizza «la trama di colori, luci e ombre, trasparenze e opacità» (p. 214) della prosa ‘post-impressionistica’ di Brown, sia quando rievoca il fondamentale concetto di stile sviluppato in The Making of Late Antiquity (1978). Dal saggio di Giardina emerge così la «geniale ed entusiasmante curiosità» (p. 235) di uno fra i più influenti storici viventi, l’unico ad annoverare una propria allieva – Sabine MacCormack (1941-2012) – fra i protagonisti del presente volume.

Dal côté più strettamente letterario del volume emerge come sia stata l’indagine del proprium stilistico della letteratura tardolatina ad occupare il centro degli interessi di due studiosi molto diversi fra loro come Jacques Fontaine e Reinhart Herzog. Tenendosi a debita distanza da ogni tentazione apologetica, Aaron Pelttari ingaggia un’equilibrata revisione dell’armamentario critico del grande latinista francese: così, l’uso in chiave ‘metastorica’ di categorie estetiche come Barocco e Alessandrino è confrontato con la più produttiva contestualizzazione del jeweled style di Michael Roberts, mentre la stessa dicotomia fra letteratura pagana e cristiana (di cui, peraltro, lo stesso Fontaine ben avvertiva i limiti) appare oggi fondata su un «framework of religious identity that is too simplistic» (p. 379). Ciò non impedisce naturalmente di riconoscere gli enormi meriti delle ricerche di Fontaine, in particolare quelle, davvero seminali, sulla cultura della Spagna merovingica, «a meeting-place and melting-pot of cultures and peoples» (p. 383) che Pelttari suggestivamente paragona al progetto dell’Handbuch der lateinischen Literatur der Antike, cui Fontaine collaborò per oltre un decennio. Coideatore dell’Handbuch fu, come noto, proprio Herzog, probabilmente uno degli studiosi di cui è più difficile misurare l’eredità, sia perché le sue ricerche sul Tardoantico si sono concentrate esclusivamente sulla poesia latina cristiana, sia per l’estrema densità concettuale della sua ermeneutica letteraria. Michael Roberts si concentra in particolare sulla seconda e ultima monografia di Herzog, Die Bibelepik der lateinischen Spätantike (1975) – «still invaluable, and intriguing, thirty years after its publication»[6], scriveva nel 2007 Roger P. H. Green – mettendo in luce le caratteristiche centrali dell’interpretazione herzogiana della poesia biblica: ampio spazio è dunque dedicato ai concetti di ‘devozione’ (Andacht) ed ‘edificazione’ (Erbauung), alle imparagonabili sottigliezze del suo scrutinio dell’imitazione virgiliana, nonché all’enfasi sulla natura internamente cristiana della filogenesi delle forme espressive tardolatine, anche a scapito di una certa sottovalutazione dell’influenza del paradigma classico.

Fra i profili di studiosi che si pongono a cavaliere fra la tardoantichistica e altri territori disciplinari (Henry Chadwick, Franz Cumont, Ernst H. Kantorowicz, Edoardo Volterra), è da segnalare il caso di Erich Auerbach: al filologo romanzo James I. Porter dedica uno dei capitoli più complessi del volume, volto a indagare la traiettoria del concetto auerbachiano di ‘figura’ dall’omonimo saggio del 1938 fino agli epilegomena a Mimesis (1953). Il saggio fa abilmente detonare tutti i punti di tensione dell’indagine storico-semantica di Auerbach, tracciando un’immagine di ‘figura’ assai diversa da quella tradizionalmente vulgata: «more […] a vanishing mediator than a master trope» (p. 390), essa corrisponderebbe secondo Porter all’idea coltivata dallo stesso Auerbach sul Tardoantico come spartiacque e momento di transizione. Ma il contributo di Auerbach agli studi sulla letteratura tarda non si limita al concetto di figuralità: esso emerge con ancor più nettezza dallo scavo del sermo humilis e dall’indagine socioletteraria dei gradienti stilistici del latino tardo di Literatursprache und Publikum (1958), libro che avrebbe forse meritato una menzione all’interno del capitolo.

Come si è già intuito, nel loro insieme i saggi del volume compongono anche una mappa dei centri propulsori della ricerca tardoantichistica (Vienna, Parigi, Roma, Oxford, Princeton), che è anche una costellazione delle rispettive tradizioni di studio. A emergere con inconsueta evidenza in questo panorama è il ruolo di Leningrado/San Pietroburgo: in due fra i saggi più originali del volume, Richard Payne e Maria Taroutina ricostruiscono i profili di Nina Pigulevskaya, pioniera degli studi sulla storia sociale della Siria e dell’Iran, e di Nikodim Kondakov, maestro di Rostovzev e André Grabar, i cui studi sull’arte bizantina riflettono una precoce interpretazione del Tardoantico «as a period of progressive pluralism and dynamic cultural exchange» (p. 604); e sarà appena il caso di aggiungere che bibliotecario dell’Accademia russa delle Scienze di Pietroburgo fu, negli anni 1883-1897, Alexander Enmann, celebre per aver postulato l’esistenza di una perduta Kaisergeschichte che avrebbe influenzato in maniera decisiva la tradizione storiografica di IV secolo. Proprio Pietroburgo assume così un ruolo centrale nella genealogia dell’«eastward shift»[7] responsabile della nuova categorizzazione ‘larga’ della Tarda Antichità, categorizzazione che rivela in realtà, ai lettori del volume, molteplici antenati: oltre naturalmente ad Averil Cameron, meritano una menzione almeno il precoce interesse di Volterra per le forme giuridiche orientali e di Noël Duval per i mosaici siriani.

Offrendo per la prima volta una panoramica critica sistematica, anche se giocoforza incompleta, degli ‘eroi’ della riscoperta del Tardoantico, The New Late Antiquity è un volume importante e innovativo nella storia degli studi sull’antichistica otto-novecentesca, e non ci si può che augurare che l’auspicio espresso dai curatori (p. 3: «ideally, this volume will elicit from the field further studies») possa presto trovare realizzazione.

Autori e titoli

Clifford Ando and Marco Formisano, Preface
Philippe Blaudeau, Henri Irénée Marrou (1904-1977): Antiquité tardive et Cité de Dieu
Jan Bremmer, Harnack and Late Antiquity
Luigi Capogrossi Colognesi, Edoardo Volterra
Jean-Michel Carrié, Lellia Cracco Ruggini
Giovanni Cecconi, Edward A. Thompson
Lellia Cracco Ruggini and Rita Lizzi Testa, Alan Cameron
Mark Edwards, Henry Chadwick
Jaś Elsner, Alois Riegl: Art History and the Beginning of Late Antique Studies as a Discipline
Andrea Giardina, “Tutto il vigore è negli occhi.” Peter Brown e la nascita della New Late Antiquity
Hervé Inglebert, Noël Duval et l’archéologie de l’Antiquité tardive
Michael Kulikowski, Andreas Alföldi and Late Antiquity
Noel Lenski, Santo Mazzarino: Revolutions in Society and Economy in Late Antiquity
Hartmut Leppin, Ern(e)st Stein: Christentum, Nationalitätenkonflikt und Reichszerfall
Christina Maranci, Josef Strzygowski (1862-1941)
Arnaldo Marcone, Mommsen e la Tarda Antichità
Richard Payne, Nina Pigulevskaya: Late Antiquity in Leningrad
Aaron Pelttari, Unity and diversity in Jacques Fontaine’s late antiquity
James Porter, Disfigurations: Erich Auerbach’s Theory of Figura
Danny Praet, Franz Cumont: Late Antiquity and the dialectics of progress on Franz Cumont
Stefan Rebenich, Otto Seeck und die Geschichte des Untergangs der antiken Welt
Michael Roberts, Reinhart Herzog and Late Latin Poetry
Siri Sande, Hans Peter L’Orange
Aldo Schiavone, Il Tardoantico di Arnaldo Momigliano
Sebastian Schmidt-Hofner, Ernst Hartwig Kantorowicz (1895-1963)
Sigrid Schottenius Cullhed, The Consolation of Late Antiquity: Pierre Courcelle (1912-1980)
Gareth Sears, Transforming Late Antique Africa: Claude Lepelley
Cristiana Sogno, François Paschoud and Late Antique Historiography
Ignazio Tantillo, André Chastagnol (1920-1996)
Maria Taroutina, From First Rome to Third Rome: Nikodim Kondakov and Late Antique Studies
Chiara O. Tommasi, Averil Cameron
Giusto Traina, Ronald Syme
John Weisweiler, Paideia in the Andes: Sabine MacCormack on the History of Imperial Culture in Late Antiquity

Notes

[1] A. Momigliano, La formazione della moderna storiografia sull’impero romano, in Id., Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1979, p. 155 (ed. or. 1936).

[2] G. W. Bowersock, Gibbon’s Historical Imagination, «The American Scholar» 57 (1988), pp. 33-47; cf. anche A. Giardina – Ch. Jones – M. Mazza – A. Schiavone – G. Zecchini – G. Bowersock, Glen Bowersock e la tradizione classica, «Studi Storici» 49 (2008), pp. 361-390.

[3] F. Donadio (a c. di), P. Y. von Wartenburg – W. Dilthey, Carteggio 1877-1897, Napoli 1983, p. 140.

[4] U. Pfisterer, Origins and Principles of World Art History, in K. Zijlmans – W. van Damme (a c. di), World Art Studies: Exploring Concepts and Approaches, Amsterdam 2008, pp. 69-89.

[5] Così lo stesso P. Brown, The Field of Late Antiquity, in D. Hernández de la Fuente (a c. di), New Perspectives on Late Antiquity, Newcastle upon Tyne 2011, p. 8.

[6] R. P. H. Green, The Evangeliorum libri of Juvencus: Exegesis by Stealth?, in W. Otten – K. Pollmann (a c. di), Poetry and Exegesis in Premodern Latin Christianity, Leiden-Boston 2007, p. 70.

[7] Cf. soltanto G. Fowden, Before and After Muhammad, Princeton-Oxford 2014.