BMCR 2021.10.05

I Volsci: un popolo “liquido” nel Lazio antico

, I Volsci: un popolo "liquido" nel Lazio antico. Prima Italia, 1. Rome: Edizioni Quasar, 2020. Pp. vii, 221. ISBN 9788854910362. €20,00.

Nella storia dell’Italia preromana, non sono pochi i casi nei quali sia molto difficile, se non virtualmente impossibile, collegare un preciso aspetto archeologico con uno dei popoli ricordati nelle narrazioni degli autori antichi. Questo è particolarmente vero per tutte quelle formazioni etnico-politiche coinvolte dalla prima espansione romana nell’Italia centrale tirrenica. È questo il caso, tra gli altri, dei Volsci. Il primo tentativo di dare conto in modo sistematico dell’evidenza materiale e testuale fu un importante convegno del 1992[1], che è rimasto a lungo l’opera di riferimento. Nei trenta anni trascorsi da quell’incontro lo stato delle conoscenze, naturalmente, si è molto arricchito; l’intenzione dell’Autore è quella di presentare in maniera sistematica tutto ciò che conosciamo oggi in materia, per tentare un percorso interpretativo che possa spiegare sia la realtà archeologica che le notizie degli scrittori antichi, due ordini di evidenza spesso in apparente contrasto fra di loro (e, non di rado, anche al loro interno).

Il primo capitolo (Le fonti letterarie) riporta le notizie relative ai Volsci desumibili dalla documentazione storica e antiquaria, disposte in ordine cronologico di autore. Tutti i passi rilevanti sono commentati tenendo conto del loro contesto letterario e narrativo; su questa base, l’A., sviluppando precedenti esperienze[2], propone una lettura interpretativa che tende a motivare la comparsa di determinate informazioni nell’una o nell’altra fonte come rispondente a una logica interna funzionale alla costruzione di una precisa narrazione storica – o di una precisa immagine etnografica – da parte dei singoli scrittori. Se il principio è senz’altro condivisibile, il risultato finale, che vede l’A. accantonare come scarsamente attendibili molte delle fonti su cui si è basata buona parte della ricostruzione storiografica reperibile nella letteratura più recente[3], non potrà mancare di far discutere.

Nel secondo capitolo (Topografia e cultura materiale) sono elencate le notizie di carattere archeologico relative al territorio – inteso nella massima espansione possibile – riferito ai Volsci dalla documentazione storico-antiquaria, insieme alle informazioni specifiche sui singoli insediamenti desumibili dalla letteratura antica. I due tipi di documentazione, come c’è da attendersi, non sono completamente sovrapponibili; esistono siti archeologici, anche rilevanti, dei quali si ignora il toponimo antico, così come esistono centri antichi nominati dagli scrittori che non è possibile localizzare sul terreno con ragionevole sicurezza. L’A. ha scelto di redigere un elenco in ordine alfabetico, privilegiando il toponimo nella forma latina (quando sia noto), e utilizzando la forma moderna solo lì dove sia impossibile connettere un nome antico a un sito archeologico; in esso sono raccolti tutti i luoghi ai quali sia attribuibile, anche in modo non univoco, una connotazione volsca, sia per indicazione degli scrittori antichi, sia per caratteristiche archeologiche e topografiche. Il risultato è piuttosto efficace; la bibliografia è completa e aggiornata. L’unico appunto che si può fare a questo repertorio è che la scelta di far coincidere il limite meridionale del territorio preso in esame con l’attuale confine regionale non ha tenuto conto del fatto che esiste una parte della piana lirena dove questo segue una linea artificiale, non corrispondente allo spartiacque naturale, posto leggermente più a sud. Per questo motivo, per esempio, è rimasto fuori dell’analisi un sito importante quale quello in loc. Lupo, che, pur trovandosi in comune di Mignano Montelungo (CE)[4], ma a meno di 1 km dal confine regionale, rientra nella medesima logica culturale e topografica di quelli del territorio di San Vittore del Lazio.

Con il terzo capitolo (Società, lingua, religione) inizia la parte analitica del volume. La modestissima documentazione epigrafica tradizionalmente identificata come “volsca”, come è noto, è a dir poco problematica. L’A. presenta in modo chiaro tutte le difficoltà interpretative inerenti sia l’iscrizione principale, la Tabula Veliterna[5], sia l’unica testimonianza che, topograficamente e cronologicamente, proviene da un contesto ben definibile come volsco, l’accetta di Satricum.[6] Del tutto condivisibile la posizione dell’A. nel respingere qualunque rapporto delle testimonianze epigrafiche osche di Barrea (frustuli di una o più iscrizioni), e – a maggior ragione – del bollo osco da Villetta Barrea, con la lingua dei Volsci, come proposto alcuni anni fa da Michael Crawford[7]; l’epigrafia osca è un fenomeno molto più tardo, che si sviluppa in un periodo nel quale i Volsci erano già sul punto di dissolversi come realtà etnico-politica.

Nel quarto capitolo (Chi erano i Volsci?) si cominciano a tirare le somme del lavoro. Fra le varie sezioni di questo capitolo, non c’è dubbio che quella che farà più discutere è quella dedicata ai dati archeologici. L’A., partendo dal rifiuto, oggi largamente condiviso, dell’equazione “pots = people”, nega che si possano distinguere indicatori archeologici caratteristici di una facies collegabile al costrutto etnico-politico definito come “Volsci”. Cruciale per la discussione è la questione delle anforette del cosiddetto “tipo Alfedena”, termine tipologico privo di una definizione univoca, a partire dalla sua comparsa nella discussione archeologica relativa alla cultura materiale associabile con i Volsci[8]; la fondamentale sistematizzazione da parte di Francesco Cifarelli[9] ha proposto di limitare la denominazione al solo tipo con anse a nastro finestrate. L’A., tuttavia, ha scelto di continuare a riferire il termine, nella tradizione della prima bibliografia, all’intera classe delle anforette in impasto a corpo ovoide con attacco superiore dell’ansa impostato sull’orlo. Di conseguenza, al tipo vengono accostate anche forme che, pur appartenendo alla medesima famiglia morfologica, hanno caratteristiche distintive proprie, come gli esemplari da Cales[10], che hanno una storia formale che rimanda specificamente all’ambiente della Campania settentrionale.[11] Ora, al di là della distinzione dei tipi specifici, che possono eventualmente servire per individuare le produzioni locali, e anche al di là della presenza o meno delle finestrature sulle anse, il fatto veramente importante, per la comprensione delle facies archeologiche, è che esiste una famiglia morfologica ben definita (anforette con imposta superiore dell’ansa sull’orlo), che è caratterizzata da un’evoluzione comune e parallela in tutti gli ambiti geografici di attestazione, che vanno dal Lazio interno e meridionale, alla Campania settentrionale, alla val di Sangro.[12] Oltre a ciò, le anforette di questo tipo sono solo uno dei numerosi indicatori che identificano, fin dallo scorcio dell’VIII secolo a.C.[13], una facies archeologica della Valle del Liri, che ha molte connessioni con l’ambiente sangritano e della Campania settentrionale. Se partiamo dal presupposto che la fase sub-arcaica di Satricum deve essere attribuita con ragionevole certezza alla presenza di una popolazione etnicamente (auto)identificata(si) come volsca, il fatto che, archeologicamente, questa rappresenti in sostanza l’esito di una faciestipica della Valle del Liri da almeno due secoli, potrebbe non essere così irrilevante per capire la storia materiale dei Volsci.[14] Se la facies lirena, considerata la sua estensione, non rappresenta certamente, in modo univoco e automatico, il costrutto politico-identitario che assunse il nome di “Volsci”, è però indubbio che le genti che, a un certo punto, furono definite in tal modo, avevano una cultura materiale inconfondibilmente appartenente a tale facies.

Il quinto e ultimo capitolo (Spazi e tempi dei Volsci) rappresenta il contributo analitico più originale del volume, e prelude al discorso riassuntivo delle Conclusioni. L’A., facendo uso di una conoscenza raffinata e approfondita della discussione antropologica su concetti quali “identità” e ethnicity, propone una spiegazione che cerca di dare conto delle numerose contraddizioni nell’identificazione dei Volsci nelle fonti storiche; contraddizioni che, a ben vedere, sono solo apparenti se si pensa, come propone l’A., che ciò che si poteva definire con il termine “Volsci” era qualcosa che poteva variare nel tempo, e assumere prospettive diverse a seconda delle circostanze e dei punti di vista.[15] Questa è una visione molto innovativa, e metodologicamente stimolante, che è certamente destinata ad aprire prospettive storiche di grande interesse nello studio del mosaico etnico dell’Italia preromana, concludendo efficacemente un volume scritto in modo chiaro e gradevole, che – al di là di singoli punti controversi, che possono rimanere aperti a dibattito –  merita senz’altro di assumere un ruolo fondamentale nello sviluppo della ricerca sulla storia culturale e politica del Lazio meridionale, e del mondo sabellico in senso più ampio.

Notes

[1] S. Quilici Gigli (a cura di), I Volsci. Undicesimo incontro di studio del Comitato per l’Archeologia Laziale (Roma, 4-6 febbraio 1992), Roma 1992.

[2] M. Di Fazio, I Volsci: prospettiva storica, in M. Aberson et al. (édd.), Entre archéologie et histoire: dialogues sur divers peuples de l’Italie préromaine, Bern 2014, pp. 245-257.

[3] Cfr. per esempio F. M. Cifarelli, S. Gatti, I Volsci: una nuova prospettiva, in Orizzonti 7, 2006, sopr. pp. 24-26, e M. Gnade, The Volscians and Hernicians, in G. D. Farney, G. Bradley (eds.), The Peoples of Ancient Italy, Boston – Berlin 2018, sopr. pp. 461-463.

[4] G. Gasperetti, Archeologia e lavori pubblici: l’esperienza del Treno ad Alta Velocità nell’Alto Casertano, in F. Sirano (a cura di), In itinere. Ricerche di archeologia in Campania, Santa Maria Capua Vetere 2007, pp. 251-253.

[5] Forse andrebbe un po’ sfumata l’affermazione (p. 123, nota 26) che presso il santuario di Lucus Feroniae vi sabebbero iscrizioni in “latino, etrusco e sabino”. Il presunto “sabino”, infatti, sarebbe attestato da un’unica parola (genericamente “sabellica”) letta, con qualche dubbio, in un’iscrizione latina di interpretazione non univoca (cfr. EDR 079096).

[6] Di questo documento, dopo l’edizione del volume, è stata proposta un’ulteriore lettura, non meno problematica delle precedenti (Rivista di Epigrafia Italica, in Studi Etruschi 82, 2019 [2020], pp. 362-363).

[7] M. Crawford, The epigraphy of the Volsci, in Le epigrafi della Valle di Comino. Atti del quarto convegno epigrafico cominese (Atina 2007), Cassino 2008, pp. 87-101. L’A., certamente per una svista, connette la cultura materiale dell’area dell’attuale lago di Barrea alla “conca aquilana” (p. 125); naturalmente, questo andrà inteso piuttosto come “valle sangritana”. Il fatto che l’alta val di Sangro, in età romana, rientrasse nel territorio municipale di Atina è probabilmente esito di una situazione determinata dalla pressione sannitica al di là della Forca d’Acero, più che non di spinte in senso inverso. La nascita del costrutto etnico-politico sannita non dovette mancare di avere effetti rilevanti sul Lazio meridionale; questo processo storico attende ancora di essere indagato.

[8] Cfr. M. Cristofani, I Volsci nel Lazio. I modelli di occupazione del territorio, in I Volsci, cit., sopr. pp. 17-18.

[9] F. M. Cifarelli, Su due tipi ceramici di età orientalizzante dalla valle del Liri, in Terra dei Volsci. Annali, 2, 1999, pp. 52-56.

[10] Cfr. F. Gilotta, C. Passaro, La necropoli del Migliaro a Cales. Materiali di età arcaica, Pisa-Roma 2013, p. 33 tipi 2B e 2B1.

[11] Gli editori della necropoli calena (Gilotta, Passaro, op. cit., p. 178), non a caso, non usano il controverso termine “tipo Alfedena”, distinguendo fra tipi (specififici di un ambiente ristretto) e famiglia morfologica, diffusa in un’area molto più ampia.

[12] Per una messa a punto sulla storia del tipo, che evidenzia l’evoluzione morfologica parallela fra area laziale e val di Sangro, cfr. soprattutto: E. Benelli, F. M. Cifarelli, Materiali e tipi ceramici arcaici tra Abruzzo, Campania settentrionale e Lazio meridionale interno: tradizioni locali e circolazione di modelli, in Gli Etruschi e la Campania settentrionale. Atti del XXVI Convegno di Studi Etruschi ed Italici (Caserta, ecc. 2007), Pisa-Roma 2011, pp. 105-113. Per un aggiornamento della documentazione laziale: B. Adembri, F. Gilotta, M. Angle, Una nuova tomba dell’Orientalizzante recente a Tivoli nel quadro dei rapporti tra valle dell’Aniene e contigue comunità italiche, in Prospettiva 163-164, 2016, p. 67.

[13] Cfr. F. M. Cifarelli, Sulle fibule di bronzo del tipo “a foglia traforata”: cronologia e diffusione, in Studi Etruschi 62, 1996 [1998], pp. 3-26; Id., Su due tipi, cit., pp. 51-52 (scodelle biansate).

[14] Questo è il presupposto utilizzato negli studi citati a nota 3; cfr. anche M. Gnade, I Volsci, prospettiva archeologica, in Entre archéologie, cit., pp. 259-277.

[15] In forza di tale approccio critico, la necessità di ricercare una “origine” dei Volsci dovrebbe essere un fatto superato; non si può nascondere che la sua riapparizione, sia pure per inciso (presupponendo, per giunta, una provenienza esterna allo spazio laziale), sorprende non poco. Se in centri come Satricum la fase volsca rappresentò un indubbio momento di rottura con il passato, contraddistinto dall’arrivo di genti nuove, non si vede cosa faccia pensare che queste ultime debbano essere arrivate da tanto lontano.