BMCR 2020.12.17

What did the sarcophagus of Symmachus look like? Late antique pagan sarcophagi

, What did the sarcophagus of Symmachus look like? Late antique pagan sarcophagi. Aarhus: Aarhus University Press, 2019. Pp. 98. ISBN 9788771847437. €25,00 (pb).

Un tema ampio e complesso, quello della fine della produzione dei sarcofagi con temi pagani, viene affrontato tramite un approccio originale in questo agile volumetto di poco più di 80 pagine di testo, corredato di numerose fotografie di buona o eccellente qualità, la metà delle quali a colori. La domanda congetturale che fa da sfondo all’intera trattazione, e che viene in effetti variamente riproposta, è quale potrebbe essere l’aspetto del sarcofago di Quinto Aurelio Simmaco, praefectus urbi e membro dell’aristocrazia pagana, morto nell’anno 402. Da questa provocazione, sulla quale lo stesso Hannestad ammette che verosimilmente non si potrà mai fare chiarezza, scaturisce un discorso improntato sì alla sintesi, ma articolato in sette capitoli preceduti da un’introduzione (pp. 7-10). Questa inquadra storicamente il periodo considerato e il problema del crollo della Hauptproduktion pagana dopo Costantino, sostenuto tradizionalmente nella letteratura specialistica sui sarcofagi romani: la persistenza di una élite senatoria tenacemente legata alla religione tradizionale rende legittimo domandarsi, da parte dell’Autore, se la produzione dei sarcofagi con temi pagani non sia in realtà proseguita a lungo al fine di soddisfare tale committenza.

Per rispondere a questa domanda vengono sviluppati, nei capitoli della prima parte del volume, alcuni temi utili a contestualizzare la cultura artistica del IV secolo e dei decenni immediatamente successivi; tali capitoli sono alquanto estesi in rapporto alla lunghezza generale del libro, corrispondendo a circa la metà del testo, e trattano i vari temi con il supporto di pochi esempi scelti dall’Autore in base alla loro pregnanza relativamente a quei temi. “The revival of mythological sculpture” (pp. 11-14) punta l’attenzione sulla decorazione scultorea delle lussuose residenze tardoantiche; “The question of pagan sarcophagi in Late Antiquity” (pp. 15-17) riprende il problema anticipato nell’introduzione (e per questo avrebbe potuto essere il capitolo iniziale), scegliendo come primo rappresentante di un auspicabile corpus dei sarcofagi pagani tardoantichi la cassa strigilata, ora nei Musei Capitolini, con la coppia dei defunti nei due pannelli alle estremità della fronte, i cui ritratti sono privi di rifinitura: la cronologia tradizionale nell’avanzata età costantiniana viene abbassata all’ultimo trentennio del IV secolo per motivi formali, concentrandosi sulle acconciature e sugli schematismi nella resa anatomica.

Nel capitolo seguente di questa parte propedeutica, “The city of Rome” (pp. 18-20), si osserva come la continuità della presenza di statue nelle aree pubbliche dell’Urbe, in particolare i santuari pagani ancora frequentati nella tarda antichità, dimostri la grande dinamicità delle classi elevate della società rimaste legate al paganesimo. In questa stessa ottica finanche più incisivo è il capitolo seguente, “Luxury crafts” (pp. 21-33), a cui è infatti dedicato uno spazio particolarmente ampio: qui vengono illustrati alcuni oggetti molto noti, quali la patera argentea di Parabiago e una serie di dittici eburnei, tra cui quello di Monza con un poeta e una Musa. L’immagine del poeta, mutuata da quella dei filosofi greci, viene accostata da Hannestad ad una testa in marmo da Antiochia del tipo Ares Borghese, per condurre il discorso, con un ardito passaggio, verso il problema dell’approvvigionamento dei marmi a Roma nella tarda antichità tramite lo scalo di Ostia.

L’esteso preambolo iniziale  si conclude con la presentazione di un singolo sarcofago con Muse nel capitolo “The Getty sarcophagus in the context of Late Antique mythological sculpture” (pp. 34-42), in realtà un’anticipazione della sezione analitica proposta di seguito. Insieme alla grande cassa frammentaria con il chorós musaico, datata tradizionalmente ad età gallienica,[1] il capitolo è dedicato a quattro statuette in marmo di Muse dalla Pisidia,[2] datate alla fine del IV secolo: la serrata analisi formale delle sculture porta ad avvicinare il sarcofago alle Muse microasiatiche e, infine, a taluni dettagli della statuetta di Cristo docente nel Museo Nazionale Romano, collocando anche il sarcofago ora al Getty Museum nel IV secolo inoltrato. Come si può osservare anche per il capitolo precedente, una tale lettura, seppur decisamente innovativa, elude tuttavia i problemi determinati sia dalla diversa natura delle opere accostate, sia dalla loro diversa collocazione geografica e, quindi, di attribuzione officinale, fattori dai quali può in effetti dipendere l’adozione di particolari linguaggi espressivi.

Il corpo centrale dello studio è costituito dalla parte “Mythological marble sculpture of Late Antiquity – an overview”(pp. 43-78), suddivisa in paragrafi corrispondenti ciascuno ad una classe di sarcofagi nella quale l’Autore abbia rintracciato esemplari che possano, a suo modo di vedere, essere riferiti alla tarda antichità, quindi ad un periodo recenziore rispetto a quanto comunemente accettato finora: troviamo così i Muse sarcophagi (pp. 44-55), i Dionysian/Season sarcophagi (pp. 56-65), i Sarcophagi with Nereids and sea centaurs (pp. 65-67), i Sarcophagi with mythological themes (pp. 67-77) e, infine, gli Hunting sarcophagi (p. 78). La successione delle classi considerate non segue la seriazione del corpus degli Antike Sarkophagreliefs e non risulta altresì chiaro il motivo dell’accostamento nel volume dei due gruppi di sarcofagi con temi dionisiaci e stagionali.

Tra i Muse sarcophagi l’Autore sceglie come primo case study il sarcofago di tipo asiatico al Museo Nazionale Romano, realizzato in età gallienica secondo l’interpetazione comunemente accettata:[3] ancora una volta alla base di una nuova proposta di datazione alla fine del IV secolo vi sono approfondite considerazioni di carattere stilistico (particolarmente sull’uso del trapano), in seguito alle quali la cassa in esame dovrebbe risultare appena più tarda sia del sarcofago di Giunio Basso (dell’anno 359) sia di quello con Muse al Getty Museum. Viene poi considerato il sarcofago con Muse e Apollo a Porto Torres, per lo più datato ai primi decenni del IV secolo grazie ai ritratti della coppia dei defunti che inquadrano il fregio,[4] qui invece attribuiti al periodo tra la fine del IV e l’inizio del V secolo sulla scorta di confronti con ritratti riferibili a statue di questo periodo. Il contesto di rinvenimento della cassa, l’area della necropoli della colonia romana corrispondente alla basilica di San Gavino, rende tuttavia assai ardua questa proposta: almeno nella seconda metà del IV secolo questa zona diviene un cimitero esclusivamente cristiano,[5] nel quale è sì documentato il reimpiego di sarcofagi più antichi per nuove deposizioni, ma certamente non è attestata nessuna sepoltura pagana coeva. Ancora il discorso formale porta poi l’Autore a spostare fino ad una generica tarda antichità altre due casse con Muse, quelle a Castellammare di Stabia e nel Palazzo Rospigliosi a Roma, di norma collocate nel secondo venticinquennio del III secolo. Giova tuttavia sottolineare come sia ormai possibile ricostruire la sequenza dei Musensarkophage grazie a capisaldi fissati in virtù di caratteri tanto iconografici quanto stilistici,[6] per cui lo spostamento di alcuni esemplari dovrà necessariamente tener conto anche delle variazioni che conseguentemente si determinano nell’evoluzione dell’intera classe.

Il discorso si sviluppa in maniera analoga per i due gruppi, qui accorpati, dei Dionysian/Season sarcophagi: il sarcofago strigilato con temi dionisiaci ora a Berlino ma ritrovato a Roma è attribuito ad età tardoantica e non più severiana,[7] le due casse con geni stagionali e clipeo a Dumbarton Oaks e a San Pietroburgo[8] vengono datate rispettivamente al periodo di Valente (evidentemente con un originale collegamento con la pars Orientis), e all’inizio del V secolo. A portare verso queste nuove e stimolanti interpretazioni è ancora il linguaggio formale, che viene puntualmente confrontato con quello di altre categorie di scultura, quali ritratti di statue e piccola plastica, di provenienza sia urbana sia orientale. Gli esempi richiamati per i due temi, dionisiaci e stagionali, sono separati dallo studio del sarcofago cristiano di Marco Claudiano al Museo Nazionale Romano:[9] non risulta evidente la motivazione di tale inserimento, dal momento che il pezzo viene discusso a proposito del ritratto del defunto, in base al quale l’Autore ne data l’esecuzione attorno all’anno 400 invece che al primo trentennio del IV secolo come finora riportato in letteratura.

Il successivo paragrafo sui Sarcophagi with Nereids and sea centaurs tratta in realtà anche un esempio con le tre Grazie. Qui è tuttavia il sarcofago chiamato a rappresentare la classe dei temi marini, ora al Museo Nazionale Romano, ad essere particolarmente interessante:[10] il fregio continuo è centralizzato sull’asse mediano ma senza l’introduzione di alcun motivo quale fulcro, elemento che verrà aggiunto solo nell’avanzata età antonina. In base all’evoluzione dell’impaginato decorativo della classe, l’esemplare è infatti datato di norma alla piena età antonina, ma tale datazione viene ora tout courtabbassata alla tarda antichità per l’uso del trapano e per gli aspetti formali dei corpi femminili.

Concludono il capitolo dedicato sapecificamente ai sarcofagi i due paragrafi sugli esemplari con temi mitologici e cinegetici. Per i Mythologische Sarkophage grande attenzione è assegnata alla maniera di rendere i panneggi e al rapporto così stabilito con altre categorie scultoree (piccola e grande plastica), ma perfino con i dittici in avorio.

Le conclusioni del libro sono sviluppate nell’ultimo capitolo, “Chronology – the end of production” (pp. 79-87), con una sintesi iniziale sulla produzione che perdurerà ancora a lungo a Ravenna quale provincia metropolitana: il sarcofago Pignatta viene confrontato con il pannello marmoreo decorato a rilievo dall’episodio di Ercole e la cerva, per giungere alle analogie con l’argenteria paleobizantina recante immagini mitologiche o del re Davide. È proprio la tenace persistenza dei temi pagani, attestata dal repertorio decorativo a cui attingono i committenti dell’aristocrazia tardoantica, che convince Hannestad del sussistere di una produzione dei sarcofagi con temi tradizionali perdurante ben oltre l’età costantiniana.

Certo la novità di questo studio è l’aver temerariamente collegato fra loro, spesso su un piano squisitamente formale, evidenze di categorie assai diverse, prodotte in ambiti officinali anche molto distanti, nei quali si adottano schemi e linguaggi che possono tuttavia dipendere sia da tradizioni peculiari, sia dai materiali lavorati, senza contare le specifiche capacità tecniche delle singole maestranze. In effetti l’Autore lamenta precisamente la mancanza di interazione tra gli studiosi che si occupano di queste distinte evidenze: nel suo volume prova dunque ad impostare un discorso di profonda revisione delle cronologie tradizionali dei sarcofagi utilizzando un metodo innovativo, ovvero il confronto serrato tra testimonianze artistiche di classi disparate, sostenuto da una lunghissima esperienza personale nello studio della ritrattistica e della scultura decorativa romana. Tale metodo non mancherà di suscitare discussioni, insieme ad una certa preoccupazione nei ricercatori per l’enorme complessità che può così assumere la vastissima materia da trattare.

Se però la decorazione figurata a tema mitologico delle ricche domus e ville tardoantiche resterà confinata nella cornice ormai tràdita di una semplice ostentazione della cultura classica quale emblema dell’alto livello sociale dei committenti, allora  l’abituale lettura  del progressivo ed irreversibile abbandono dei sarcofagi con immagini pagane nei primi decenni del IV secolo potrà ancora trovare conferma e giustificazione nei cambiamenti che intervengono nella mentalità della società di quest’epoca, secondo l’interpretazione di Hugo Brandenburg:[11] in un periodo in cui la concezione della morte è ormai profondamente mutata, e non solo nella parte della società divenuta già cristiana, la simbologia di tali immagini non è evidentemente più idonea a trasmettere i messaggi correlati con la morte come sin qui avvenuto. Quinto Aurelio Simmaco potrebbe, in quest’ottica, aver scientemente mancato di considerare l’opzione di essere sepolto in un sarcofago, come molti suoi pari della sua epoca.

Notes

[1] Guntram Koch, The J. Paul Getty Museum. Roman Funerary Sculpture. Catalogue of the Collections, Malibu, 1988, n. 18.

[2] Stine Birk, “Carving Sarcophagi: Roman Sculptural Workshops and their Organization”, in Ateliers and Artisans in Roman Art and Archaeology, a cura di Troels Myrup Kristensen, Birte Poulsen, Stine Birk, Portsmouth, 2012, pp. 27-31.

[3] Max Wegner, Die Musensarkophage, Die Antiken Sarkophagreliefs, V, 3, Berlin, 1966, n. 128.

[4] Alessandro Teatini, Repertorio dei sarcofagi decorati della Sardegna romana, Bibliotheca Archaeologica 48, Roma, 2011, n. 26.

[5] Vincenzo Fiocchi Nicolai, Lucrezia Spera, “Sviluppi monumentali e insediativi dei santuari dei martiri in Sardegna”, in Isole e terraferma nel primo cristianesimo. Identità locale ed interscambi culturali, religiosi e produttivi, Atti dell’XI Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana, a cura di Rossana Martorelli, Antonio Piras, Pier Giorgio Spanu, Cagliari – Sant’Antioco, 23-27 settembre 2014, Cagliari, 2015, pp. 84-85.

[6] Lucia Paduano Faedo, “I sarcofagi romani con muse”, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II, 12. 2, Berlin, 1981, pp. 65-155.

[7] Friedrich Matz, Die dionysischen Sarkophage, Die Antiken Sarkophagreliefs, IV, 4, Berlin, 1975, n. 286.

[8] Peter Kranz, Jahreszeiten-Sarkophage. Entwicklung und Ikonographie des Motivs der vier Jahreszeiten auf kaiserzeitlichen Sarkophagen und Sarkophagdeckeln, Die Antiken Sarkophagreliefs, V, 4, Berlin, 1984, nn. 34, 38.

[9] Friedrich Wilhelm Deichmann, Giuseppe Bovini, Hugo Brandenburg, Repertorium der christlich-antiken Sarkophage, I. Rom und Ostia, Wiesbaden, 1967, n. 771.

[10] Andreas Rumpf, Die Meerwesen auf den antiken Sarkophagreliefs, Die Antiken Sarkophagreliefs, V, 1, Berlin, 1939, n. 144.

[11] Hugo Brandenburg, “Das Ende der antiken Sarkophagkunst in Rom. Pagane und christliche Sarkophage im 4. Jahrhundert”, in Akten des Symposiums «Frühchristliche Sarkophage», Marburg, 30 giugno – 4 luglio 1999, a cura di Guntram Koch, Sarkophag-Studien, 2, Mainz am Rhein, 2002, pp. 19-39; Hugo Brandenburg, “Lo studio dei sarcofagi tardoantichi: aspetti metodologici ed ermeneutici. I sarcofagi come testimonianze del passaggio dalla Roma pagana alla Roma cristiana”, Bollettino. Monumenti, Musei e Gallerie Pontificie XXV, 2006, pp. 343-374.