BMCR 2020.10.54

Die Rhetorik des Aristoteles und ihr Verhältnis zum historischen Kontext

, Die Rhetorik des Aristoteles und ihr Verhältnis zum historischen Kontext. Historia. Einzelschriften, Band 261. Stuttgart: Franz Steiner Verlag, 2020. Pp. 244. ISBN 9783515125642. €52,00.

Inhaltsverzeichnis

Scopo dell’Autore è indagare in quale senso e in quale misura la Retorica di Aristotele possa essere considerata una fonte storica. Vengono preliminarmente messe in luce alcune caratteristiche dell’opera. Benché la teoria dell’argomentazione, nucleo fondamentale della Retorica, richiami nella forma e nei contenuti la prassi retorica (ateniese) più di quanto non si sia creduto in passato, tuttavia la Retorica, a causa del considerevole livello di astrazione che caratterizza la trattazione, non è primariamente interessata ai ‘fatti storici’. Ciononostante, rispetto alla Politica, intrisa di ‘filosofemi’, la Retorica riflette in misura maggiore “die Lebenswelt”, che si manifesta in sostanza nei valori collettivi (endoxa) a cui Aristotele fa costante riferimento. E la natura stessa delle nostre fonti, oltre al legame che storicamente Aristotele aveva con Atene, indica come le fonti letterarie, soprattutto oratorie, ed epigrafiche attiche siano il necessario termine di confronto per individuare il contesto storico di riferimento della Retorica aristotelica. Sulla base di queste premesse si delinea il metodo seguito dall’Autore, che consiste nel rilevare ‘discrepanze’ e ‘convergenze’ fra orazioni attiche e Retorica aristotelica riguardo ad alcune tematiche centrali: la teoria dei generi del discorso; l’autorappresentazione dell’oratore; il trattamento dei mezzi di prova (in particolare nel discorso giudiziario); il ruolo giocato dalle emozioni che l’oratore deve saper suscitare nel suo uditorio.

Per comprendere quanto di ‘storico’ sia stato possibile attingere ad Aristotele conviene saltare immediatamente al riassunto dei risultati conseguiti, con cui il libro si chiude. Benché nella trattazione dei tre generi del discorso Aristotele prescinda sostanzialmente da riferimenti a valori ed eventi politici propri di una specifica polis, secondo l’Autore resta confermato che il contesto storico nel quale la Retorica si colloca è quello ateniese. Con due particolarità: da un lato, l’oratore è tendenzialmente visto come un singolo che si rivolge a un uditorio senza tener conto di eventuali corpi intermedi di appartenenza; dall’altro, nell’approccio di Aristotele alla materia è riconoscibile un atteggiamento elitario che rinvia più che all’ideologia democratica ateniese alla comunità ideale delineata da Aristotele nei libri finali della Politica. A proposito del rapporto con la “Lebenswelt” ateniese, oggetto nel corso di tutto il libro di un confronto serrato (di cui non sarà qui possibile rendere conto se non in minima parte), l’Autore giunge a una conclusione rilevante: non sembra esservi stato né un interesse né un influsso reciproco fra la Retorica aristotelica e la stagione tardiva dell’oratoria attica: infatti le citazioni dagli oratori sono rare nella Retorica e non si notano echi significativi dello scritto aristotelico nelle orazioni attiche (p. 173). Al punto che, secondo l’Autore, nella Retorica sono più frequenti allusioni, dirette o indirette, a temi presumibilmente risalenti alla teoria e alla prassi sofistica di V secolo (ed è questo un aspetto che avrebbe forse meritato un’attenzione più specifica) che all’oratoria di IV secolo (ad es. p. 68, su cui tornerò più avanti, e p. 97 n. 71).

Queste conclusioni meritano, a mio parere, alcune considerazioni. In definitiva sembra di capire che la densa analisi comparativa dell’Autore si concluda con un risultato negativo: se escludiamo i pur importanti rilievi critici con cui si apre la Retorica, l’inventario delle ‘discrepanze’ e delle ‘convergenze’ mostra che Aristotele non nutre un vero interesse per la ‘realtà storica’ rispecchiata dall’oratoria attica a lui contemporanea. Questa valutazione è d’altronde coerente con lo scopo che l’Autore attribuisce ad Aristotele: non comporre un manuale di retorica ad uso pratico, ma rafforzare la dignità della retorica nel quadro delle discipline intellettuali. Viene però il sospetto che la “Lebenswelt” che gli oratori attici dovrebbero restituirci nella sua realtà storica, non sia altro che una sorta di ‘Solon’s show’ (per parafrasare il titolo di un celebre film americano di qualche anno fa). Intendo dire che gli endoxa a cui si rifanno gli oratori attici, a ben guardare, risultano non meno artificiosi di quelli illustrati in opere teoriche come le Retoriche di Aristotele o di Anassimene. Per di più l’Autore è perfettamente consapevole che il corpus degli oratori attici non può essere considerato un ‘blocco monolitico’ da confrontare globalmente con il testo aristotelico. Tuttavia relega questa constatazione, a mio parere fondamentale, in una nota al termine dell’Introduzione (p. 16 n. 33), e non sembra più tenerne conto nel resto del lavoro: la comparazione si risolve infatti sempre nella citazione di singoli passi degli oratori, che l’Autore considera senz’altro rappresentativi della “attische Gerichtspraxis” (p. 90), ovvero della “praktische” (p. 91) o “zeitgenössische Rhetorik” (p. 103). Infine vi sono ‘discrepanze’ che l’Autore registra accuratamente, ma di cui ci si aspetterebbe una spiegazione. Mi riferisco in particolare al dato, più volte sottolineato dall’Autore (ad esempio p. 91 n. 27), del sostanziale disinteresse di Aristotele per gli argomenti che fanno leva o sulla valorizzazione, o, al contrario, sulla lesione di interessi pubblici. Ora, è evidente che Aristotele non poteva ignorare questo elemento fondamentale. Resterebbe quindi da spiegare perché nella Retorica il protagonista è il singolo individuo (v. p. 105), quando in realtà nella Politica il diritto privato ha un ruolo del tutto marginale.

Prescindendo dai rilievi sopra svolti, ritengo che il genere giudiziario, anche a causa del carattere agonale che gli è connaturato, costituisca il miglior banco di prova per verificare l’attendibilità del metodo utilizzato dall’Autore allo scopo di mettere in luce le convergenze e le discrepanze della trattazione aristotelica rispetto al quadro che possiamo ricavare dalle orazioni giudiziarie attiche. Prenderò quindi brevemente in considerazione alcuni aspetti dell’analisi che l’Autore dedica al nomos nell’ambito della trattazione delle prove c.d. inartificiali (atechnoi pisteis) nel cap. IV del libro. Premetto un’osservazione che vale per tutto il libro. Poco meno di un terzo delle pagine (precisamente 55) è occupato dalla bibliografia: ciò testimonia senz’ombra di dubbio la serietà del lavoro compiuto dall’Autore e costituisce un patrimonio di riferimento di grande utilità per chi vorrà continuare a occuparsi del tema. Resta però il fatto che i continui rinvii alla bibliografia contenuti nelle note non solo rendono decisamente faticosa la lettura, ma a volte lasciano incerti su quale sia l’opinione personale dell’Autore su un determinato argomento. E ciò, sia quando cita adesivamente gli autori, sia soprattutto quando le loro opinioni, che l’Autore stessa dichiara opposte o comunque diverse dalle sue, non vengono rese esplicite (v. per esempio p. 95 n. 55). Infine corre l’obbligo di constatare lacune, non per ‘fare le pulci’ all’Autore, che sarebbe effettivamente ridicolo e offensivo visto l’impegno da lei profuso, ma perché si tratta di contributi rilevanti per la formazione dell’opinione del lettore sull’interpretazione di un determinato passo.[1]

Venendo ora al nomos, un primo motivo di interesse sta nel confronto con la trattazione del medesimo tema nella Rhet. ad Alex. attribuita ad Anassimene (p. 68). L’Autore nota che Anassimene, contrariamente ad Aristotele, non menziona leggi e contratti fra le prove inartificiali. Ciò sarebbe dovuto, secondo l’Autore, al fatto che egli è maggiormente influenzato dalla sofistica di V secolo, secondo cui quei due tipi di documenti scritti a efficacia normativa non erano ancora così carichi di peso ideologico, quindi non erano così messi in evidenza, come avverrà nel IV secolo. Tuttavia, aggiunge l’Autore, dal punto di vista della rilevanza pratica che ricoprono nel discorso, non vi è grande differenza. Questa spiegazione della discrepanza fra le trattazioni dei due autori, eccezionalmente non suffragata da citazioni bibliografiche, non appare adeguatamente motivata; a mio parere la separazione della dikaiologia dalla materia dei mezzi di prova in Anassimene è indizio di un sistema di pensiero assai diverso da quello aristotelico. Tralascio alcune convergenze debitamente segnalate dall’Autore, e vengo a un elemento di discrepanza che mi pare rivelatore del metodo adottato dall’Autore per interpretare il pensiero aristotelico. Dopo aver constatato a ragione che sia la prassi retorica ateniese sia Aristotele abbracciano posizioni giuspositivistiche, cioè riconoscono che l’attività di tutti gli organi istituzionali deve sottostare al dominio della legge, l’Autore scorge una rilevante discrepanza nel fatto che, per gli Ateniesi, il dominio della legge si traduce in realtà nel dominio sulla legge da parte del tribunale popolare, mentre nella politeia ideale aristotelica (in realtà non evocata nella Retorica) sono uomini politici eticamente qualificati a decidere nell’interesse comune in caso di lacune della legge (p. 70-71). Sempre secondo l’Autore, nella Retorica quest’idea si manifesta nell’esigenza, fortemente sottolineata all’inizio dell’opera (1354a31-33), che le leggi lascino il minimo spazio possibile alla facoltà decisionale dei giudici. Come già brevemente preannunciato nelle ultime righe dell’Introduzione (p. 16 n. 34), l’Autore si avvale qui dell’apporto di altri testi aristotelici, in questo caso della Politica, per dare un fondamento testuale all’interpretazione di un passo della Retorica. Benché l’Autore sia solita rinviare nel corso del libro a suoi precedenti sostanziosi contributi in materia, sarebbe forse stato utile dedicare un paio di pagine ai rapporti fra le due opere nella prospettiva del confronto testuale con l’oratoria attica. In ogni caso ritengo che la contrapposizione, qui delineata dall’Autore, vada quanto meno attenuata. Dem. 21.224, che l’Autore cita come testo di riferimento (p. 70 n. 23) a conferma del dominio del tribunale, si limita a constatare che, per essere applicate, le leggi richiedono l’intervento dei competenti organi pubblici, in primo luogo i giudici; ma, come chiarisce la parte finale del paragrafo, ciò avviene in un rapporto di mutua dipendenza. Così pure, nel passo della Politica (1287b15-18) citato a p. 71 n. 26, fra le archai abilitate a krinein (cioè a prendere decisioni), Aristotele cita proprio i giudici: dunque non mi sembra che, per quanto riguarda l’applicazione delle leggi, Aristotele voglia contrapporre i politici illuminati ai giudici ateniesi. L’esigenza che la legge lasci il minor spazio di manovra possibile ai giudici va vista, quindi, come una critica, da un lato, ai legislatori, in nome di quella nomothetike techne di cui Aristotele lamenta la carenza al termine dell’EN, e, dall’altro, agli autori dei trattati di retorica che insegnano a suscitare nei giudici passioni da cui dovrebbero invece essere immuni.

La parte finale della trattazione relativa al nomos è dedicata al rapporto fra equità e legge. Dopo aver dato un quadro breve ma chiaro delle varie posizioni sostenute in dottrina a proposito di questo tema assai controverso, fra le qualità che caratterizzano la persona epieikes l’Autore si sofferma su quanto Aristotele afferma in Rhet. 1374b19-22 (p.76-77). Secondo l’Autore qui Aristotele sostiene che il giudice unico (“Einzelrichter”) sia più sensibile ad argomenti basati sull’equità rispetto ai tribunali popolari, il che fa sì che sia preferito in particolare dai membri dell’élite. Il diaitetes nominato da Aristotele viene dall’Autore nuovamente identificato con il magistrato delineato nella Politica, il quale è sì tenuto ad osservare la legge, ma, all’occorrenza, è in grado di decidere in base al proprio giudizio personale orientato da principi etici. Si distinque perciò dall’arbitro attivo nell’Atene del IV secolo nella sua duplice veste: (a) di arbitro privato, dato che questi non esercita una carica pubblica e, nella maggior parte dei casi, è chiamato a dirimere controversie interne alla famiglia; (b) di arbitro pubblico, dato che questi non gode di una simile libertà di giudizio e, per di più, non è scelto dalle parti. Ma il diaitetes a cui pensa Aristotele nel passo citato è certamente un arbitro privato, non un magistrato; e non è detto che qui, dato il carattere estremamente generico del contesto, il riferimento sia necessariamente ad Atene.

Mi sono soffermato su questi tratti dell’esegesi dell’Autore per mostrare che non solo le testimonianze degli oratori non possono essere prese come termine di confronto senza tener conto del contesto dell’orazione in cui appaiono, ma che anche le posizioni di Aristotele sono spesso più difficili da mettere a fuoco di quanto non appaia a prima vista. Concludo affermando che gli elementi di critica che ho ritenuto di mettere in luce non diminuiscono in nulla la ricchezza e l’utilità di questo libro.

Notes

[1] Mi riferisco ad es. a p. 130-131, dove, a proposito di Rhet. 1361a12 ss., non sono citati E. Stolfi, Introduzione allo studio dei diritti greci, Torino 2006, p. 118-9, 226-7, e S. Pietrini, Deducto usu fructu, Milano 2008, p. 162 ss.