BMCR 2020.08.29

Orazio, Epistole I: introduzione, traduzione e commento

, Orazio, Epistole I: introduzione, traduzione e commento. Syllabus, 2. Pisa: Edizioni della Normale, 2019. 625 p.. ISBN 9788876426322. €30,00 (pb).

Il commento di Andrea Cucchiarelli a Hor. Ep. 1 è il secondo volume della serie di testi e commenti Syllabus, pubblicata dalla Scuola Normale Superiore di Pisa e inaugurata nel 2017 dal commento di Sergio Casali a Eneide 2 (BMCR 2018.03.59).

Cucchiarelli aveva già dato alle stampe nel 2015 una traduzione di Ep. 1,[1] che però non era accompagnata da un commento esaustivo; l’ultimo commento filologico a Ep. 1 è quello di Mayer del 1994 (BMCR 1995.02.37), cosicché si sentiva da alcuni anni il bisogno di un aggiornamento. In questo modo, Cucchiarelli ora ci offre questo monumentale e utilissimo commento, uno dei più notevoli progressi nei (molto fioriti) studi oraziani degli ultimi decenni.

L’introduzione si apre col cap. Il libro delle Epistole (pp. 5-10), in cui esse vengono inquadrate all’interno della produzione poetica oraziana; di seguito abbiamo il cap. Forma comunicativa, argomenti e cerchia dei destinatari (pp. 10-23). Poi c’è il cap. Orazio e la filosofia (tra accademia ed ecletticismo) (pp. 23-81), fondamentale per la comprensione delle Epistole, e perciò abbastanza lungo, in cui non solo si affronta, p.es., il problema dell’(apparente) epicureismo del poeta e quello dell’influenza che su di lui ebbe l’Accademia, molto trattati dagli studiosi, ma anche, in maniera molto innovativa, si disquisisce sui punti di contatto tra le Epistole oraziane e le Lettere platoniche (chiarendo opportunamente, in via preliminare, il problema circa la raccolta epistolare del filosofo cui Orazio ebbe accesso). Segue il cap. Ritorno al sermo, con variazione (lingua, stile, forma epistolare) (pp. 81-91); e, per ultimo, c’è il breve cap. Testo e tradizione manoscritta (pp. 92-4), in cui si riportano le differenze tra il testo adottato da Cucchiarelli e quello di Borzsák (dal quale, peraltro, il testo di Cucchiarelli differisce talvolta anche nell’interpunzione e nell’ortografia).

Il Conspectus siglorum (p. 95) è seguito dal testo latino corredato da un molto succinto apparato critico (“il testo qui stampato presuppone nell’impostazione generale e nell’allestimento dell’apparato—che mira a una sintetica essenzialità—l’edizione delle Epistole curata da Fedeli” (p. 94)), e accompagnato da una traduzione scritta (come anche tutta l’opera) in un nitido italiano, chiaro anche per coloro che non sono madrelingua (pp. 96-169).

Com’è naturale, il commento occupa la maggior parte del lavoro (pp. 171-543). Successivamente abbiamo la bibliografia (pp. 545-68), seguita da “Indicazioni bibliografiche” (pp. 570-4), un utile smistamento della bibliografia specifica relativa a ogni singolo componimento, come Cucchiarelli aveva già fatto nel suo commento alle Bucoliche di Virgilio (BMCR 2013.05.09; lì però dopo la nota introduttiva a ogni carme). Il volume si chiude con quattro indici che lo rendono molto fruibile: indice delle cose notevoli (pp. 575-90), indice dei nomi propri (pp. 591-3), indice delle parole latine (pp. 595-9), e indice dei luoghi citati (pp. 601-25).

I cappelli introduttivi sia a ogni singolo componimento che alle diverse sezioni narrative forniscono il lettore di un’efficace sintesi, che gli consente di seguire agevolmente lo sviluppo, a volte intricato, delle epistole.

Le note di commento offrono tutti gli elementi necessari per l’approfondita comprensione del testo, e sono per di più molto ricche, una vera miniera di informazioni. Infatti, Cucchiarelli tiene conto di ogni aspetto: archeologia (cf. le note ai diversi luoghi menzionati, come il puteal Libonis (19.8)), esegesi (cf. ad 2.1-2 (vd. sotto)), geografia, intertestualità (cf. ad 7.40, dove viene opportunamente citato il modello omerico), lessicografia (degna di nota in questo senso è anche l’agevolazione nei rimandi agli strumenti, per cui, oltre al tradizionale “s.v.,” viene riportato il numero della pagina), metrica (cf. le molte fini descrizioni del ritmo dei versi), morfologia, problemi testuali (cf. ad 6.67, dove vengono ricordati diversi tentativi di emendamento al tradito istis), prosopografia (cf. in genere i chiarimenti sui destinatari di ogni singola epistola e sui personaggi che in esse appaiono), ricezione del testo (cf. ad 6.45, dove viene citata un’interpretazione plutarchea del testo oraziano), stilistica, storia, vita quotidiana. Come poteva già trapelare sin dall’introduzione, particolarmente salienti e abbondanti sono le note su aspetti filosofici.

Elenco qui di seguito tre note che possono fornire un minimo ma anche chiaro esempio di quanto siano analitiche e offrano interpretazioni innovative e stimolanti le note di commento:

2.1-2 Troiani belli scriptorem, Maxime Lolli | dum tu declamas Romae, Praeneste relegi. La maggioranza degli studiosi leggono declamas transitivo in parallelo con relegi; l’oggetto di entrambi i verbi sarebbe l’anticipato Troiani belli scriptorem (cf. p.es. Colamarino-Bo “mentre tu a Roma declami, o Lollio Massimo, il cantore della guerra troiana, io a Preneste l’ho riletto”). Cucchiarelli, però, avanza argomenti molto solidi a favore dell’uso del verbo declamo intransitivo e assoluto: ai tempi di Orazio declamo è quasi sempre utilizzato in maniera assoluta col significato di “esercitarsi nella declamazione,” “tenere una declamazione” (l’impiego transitivo si registra da Seneca il Vecchio in poi). Inoltre, il verbo usuale a indicare la recitazione ad alta voce è recito; declamo, invece, si incentra sull’improvvisazione. La traduzione rispecchia molto bene quanto argomentato: “il poeta della guerra troiana, Lollio Massimo, mentre tu declami a Roma, io a Preneste l’ho riletto” (aggiungerei anche un rimando a A. La Penna, ANSP 18 (1949), 21, che traduce “mentre tu declami a Roma, Lollio Massimo, io mi son riletto a Preneste il poeta che scrisse la guerra di Troia”).

6.5-8 quid censes munera terrae, | quid maris extremos Arabas ditantis et Indos | ludicra, quid plausus et amici dona Quiritis … Questa è l’elegante interpunzione di Cucchiarelli, che, per di più, interpreta ludicra, come “giochini,” “gingilli” (per un senso confrontabile di ludicrum, al singolare, cf. Catull. 61.24): “che pensi dei doni della terra, che cosa dei gingilli del mare, che arricchisce i lontanissimi Arabi e gli Indi, che cosa del plauso e dei doni dell’amico Quirite …” Per contro, altri scrivono: quid censes munera terrae, | quid maris extremos Arabas ditantis et Indos, | ludicra, quid plausus et amici dona Quiritis … (cf. p.es. Fairclough, Fedeli). In questo modo, però, come osserva lo stesso Cucchiarelli, non solo si sovverte la sintassi e l’anafora, ma anche “l’aspetto estetico dello ‘spettacolo pubblico’ riesce meno a proposito, giacché Orazio si riferisce a ‘doni’ che interessano personalmente l’individuo.”

20.24 praecanum. L’interpretazione più diffusa dell’aggettivo, già presente in Porfirione, è quella temporale, “canuto anzitempo” (gr. προπόλιος; cf. Fairclough, Villeneuve, Colamarino-Bo), ma come sostiene Cucchiarelli “da un ritratto ci si aspetta un’efficacia descrittiva che lasci concretamente immaginare l’aspetto dell’individuo: non interessa tanto sapere se la canizie è precoce o meno, quanto ‘visualizzare’ la testa del poeta, e non si può dire che a quarantaquattro anni (26-7) i capelli bianchi siano spuntati ‘anzitempo’”. Diviene allora evidente che sia molto più ragionevole e consona a una descrizione del poeta l’interpretazione di Cucchirelli, “canuto sul davanti.”

Per quanto riguarda il testo, Cucchiarelli ha un atteggiamento molto misurato: egli non vi promuove nessuna congettura propria (nel commento ne avanza con molta cautela qualcuna: 1.78 turdis al posto dei traditi frustis e crustis; egli anche sembra voler espungere 5.29), e poche altrui (anche nel commento ne menziona alcune altre); soltanto egli mette le crucesin un luogo, dove, a quanto pare, non erano mai state nelle edizioni del testo oraziano.[2] Il testo diverge da quello di Borzsák in sette punti:

1.56 laeuo suspensi loculos tabulamque lacerto: come già nell’edizione di Guyet (tra gli ultimi edd., cf. Klingner e Shackleton Bailey), il verso viene espunto. La scelta è condivisibile: con ogni probabilità si tratta di un’interpolazione (il verso uguale a Sat. 1.6.74), in quanto risulta difficile riferirlo sia a iuuenes che senes del v. 55 (neanche convince Markland, De graecorum quinta declinatione imparisyllabica …, Londini 1761, 53, che alla fine del v. 55 vuole correggere in senesque et e prendere suspensi sostantivato).

2.31 cessatum ducere curam: l’emistichio è obelizzato, un intervento presumibilmente unico tra gli edd. Cucchiarelli pare aver ragione. Infatti, egli fondatamente argomenta in un’ampia nota che l’interpretazione meno improbabile “condurre l’angoscia a smettere” presuppone un difficile costrutto sintattico (supino finale retto da duco), e dà un senso sconveniente al passo rispetto al modello omerico. Non meno difficili da accettare sono le varianti cessantem (cessantum nei recenziori) in luogo di cessatum, e somnum invece di curam, che, come indica Cucchiarelli, significherebbero, con cessatum, “prendere il sonno interrotto,” oppure, con cessantem “prendere il sonno che si interrompe,” “prendere il sonno che tarda ad arrivare” (cf. Klingner cessatum ducere somnum e Shackleton Bailey cessantem ducere somnum).

5.17: è recepita nel testo la lezione inertem (cf. anche Klingner e Shackleton Bailey) anziché inermem di Aaδ2π2LF. Cucchiarelli osserva in maniera breve ed efficace: inermem “comporterebbe l’immagine forse un poco grottesca di un uomo disarmato nel mezzo del campo di battaglia (il vino, piuttosto, contrasta pigrizia e codardia)” (cf. anche ad 5.18). A dire il vero, però, se si legge l’app. critico della sua edizione, è verosimile che Borzsák abbia in mente inertem, e che inermem nel testo sia piuttosto un errore di stampa (cf. anche R.G.M. Nisbet, Gnomon 58.7 (1986) 613).

12.29: non solo diversamente da Borzsák, ma anche da Klingner e Shackleton Bailey, Cucchiarelli propende per la variante defundit di Aa2λV invece di defudit di a1CRπlF. Dal punto di vista della trasmissione manoscritta la scelta è molto difficile, ma, come Cucchiarelli sostiene, da quello del senso no: il perfetto indicherebbe il successo nel raccolto in un momento specifico; il presente, un’azione duratura “con una fissità quasi di immagine iconografica.”

16.3: Cucchiarelli opta (con Bentley; tra gli ultimi edd., cf. Klingner e Shackleton Bailey) per la lettura pomisne an pratisdi C1 (at pratis C2) in luogo di pomisne et pratis di AaRπLF. Anche la motivazione di questa preferenza è molto valida, vale a dire che pomisne an pratis è più icastico, perché crea un’efficace ripetizione (inoltre, è conveniente distinguere prata da poma, due attività diverse).

16.15: Cucchiarelli interpunge e scrive (con Bentley; cf. anche Klingner) et, iam si credis, amoenae, al posto di etiam (si credis) amoenae (cf. anche Shackleton Bailey).

17.31: è stampata la correzione di Cruquius chlanidem (cf. anche Klingner e Shackleton Bailey) invece del tradito chlamydem.

Anche se la serie Syllabus è principalmente rivolta a studenti universitari, il commento di Andrea Cucchiarelli è un lavoro da cui trarranno notevole profitto non solo gli specialisti di Orazio, ma anche tutti gli studiosi di poesia latina, e in cui quelli che scrivono letteratura scientifica di questo tipo, troveranno un cospicuo modello. Ora attendiamo altri volumi di quest’eccellente collana.

[1] Cucchiarelli, A. (2015) Orazio. L’esperienza delle cose (Epistole, Libro I) (Venezia).

[2] Come è ormai uso quasi assodato tra gli edd., molte correzioni (soprattutto di eruditi precedenti al sec. XX) sono riferite tramite il solo cognome di chi le ha proposte; le indicazioni bibliografiche complete (come anche altre congetture non prese in esame nel commento) sono facilmente reperibili nel “Repertory of Conjectures on Horace” dell’Università di Oslo.