BMCR 2016.05.49

Archaeologies of Text: Archaeology, Technology, and Ethics, Joukowsky Institute Publication 6

, , Archaeologies of Text: Archaeology, Technology, and Ethics, Joukowsky Institute Publication 6. Oxford; Philadelphia: Oxbow Books, 2014. xviii, 250. ISBN 9781782977667. £30.00 (pb).

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Il presente volume raccoglie 13 contributi ad un simposio tenutosi al principio di Dicembre 2010 presso la Brown University. Come chiaramente spiegato dagli editori, l’iniziativa mira ad esplorare «different perspectives on the interplay of archaeological and textual material from the ancient world» chiedendo a specialisti di varie discipline di discutere «current theoretical and practical problems that have grown out of their work on early inscriptions and archaeology» (p. xvii). Il risultato è una raccolta di articoli che affrontano possibili prospettive di indagine di documenti epigrafici in quanto oggetti archeologici e che si sviluppano secondo, ma non esclusivamente, tre linee di analisi : quella del contesto archeologico, delle applicazioni delle nuove tecnologie, e la questione etica in relazione alla provenienza dei documenti stessi.

Dopo l’introduzione al volume dei due editori (§1. “Introduction: No Discipline is an Island”, pp. 1-13), Matthew W. Stolper (§2. “Case in Point: The Persepolis Fortification Archive”, pp. 14-30) affronta tutte e tre le prospettive enunciate nel sottotitolo del volume in relazione all’archivio della fortificazione di Persepoli. Si tratta probabilmente del più vasto archivio di testi economici dell’antichità per concentrazione spaziale, temporale e contenutistica. L’archivio, proveniente da due ambienti del torrione di una delle porte della cinta muraria di Persepoli, contiene quasi ventimila documenti. la maggior parte dei quali («10,000- 15,000», p. 17) in elamita. Tutti riguardano l’uscita di beni commestibili nell’arco di 16 anni (509-493 a.C.). In forma chiara ed esaustiva Stolper espone la storia del rinvenimento, la ricchezza di informazioni fornite dai testi, le vicissitudini che portarono l’intero archivio a Chicago e come questo si sia trovato in epoca recente al centro dei contrasti politici tra Stati Uniti e Iran. Partendo proprio dalla questione dello studio e “custodia” del materiale Stolper espone come siano importanti due aspetti, quello tecnologico e quello della “disseminazione” della conoscenza, che sono in stretta relazione. Le moderne tecnologie informatiche forniscono uno strumento eccezionale per quanto riguarda l’acquisizione, la catalogazione e gestione dei dati e, infine, la condivisione ed esposizione dei risultati.

I successivi sei articoli sono dedicati a materiale epigrafico nel suo contesto archeologico e paesaggistico. Nicholas P. Carter (§3. “Space, Time, and Texts: A Landscape Approach to the Classic Maya Hieroglyphic Record”, pp. 31-58) analizza in dettaglio il contesto spaziale delle iscrizioni monumentali maya mostrando come l’ analisi del rapporto tra paesaggio ed epigrafi possa offrire interessanti risultati. Dopo una chiara introduzione Carter descrive tre casi studio. Il primo riguarda il sito di Copan e la distribuzione delle stele iscritte allineate in assetto con il sole “trascrivendo” nel paesaggio la geografia mitica. Il secondo studio riguarda il panorama geografico e mitico di monumenti in cui sono menzionati due toponimi ( uxte’tuun e chiik nahb) e la relazione con la città di Calakmul. Il terzo caso presenta un’analisi molto interessante e che può essere proficuamente impiegata in altre aree di indagine. Carter si occupa, infatti, del “paesaggio linguistico” ( linguistic landscape), individuando la distribuzione spaziale e geografica di varianti grafiche e fonetiche. Queste sono indizi di mutamenti sincronici e diacronici non legati prettamente a diverse forme dialettali, ma da interpretare, piuttosto, a seconda dei casi come espressioni di stili o scelte socio-politiche che possono arrivare fino a vere riforme. Questi mutamenti, infatti, non riguardano la lingua parlata, ma vanno considerati come espressioni delle scelte delle élites, promotrici e principali fruitrici di queste epigrafi e monumenti.

Simile è l’approccio proposto da Scott Bucking (§4. “Now You See it, Now You Don’t: The Dynamics of Archaeological and Epigraphic Landscapes from Coptic Egypt”, pp. 59-79) che analizza la distribuzione dei graffiti copti in strutture templari dell’antico Egitto. La riutilizzazione degli edifici dell’Egitto faraonico nei periodi successivi è poco documentata per varie ragioni. Alla distruzione causata dagli agenti naturali e dall’azione dell’uomo, si aggiunge il disinteresse e l’incuria degli archeologi nel preservare e documentare quelle fasi tarde considerate poco importanti. L’analisi del contenuto, del contesto e del posizionamento dei graffiti proposta da Bucking è tesa a comprendere il riutilizzo e la funzione di quegli ambienti per le comunità monastiche copte. Bucking si concentra su due casi specifici: il tempio di Hatshepsut a Beni Hasan e quello di Seti I ad Abydos. L’analisi è destinata a determinare il paesaggio “archeologico” e “culturale” ( archaeological / cultural landscape) in cui sono inseriti i graffiti e da cui essi sono inscindibili. Bucking mostra come i graffiti posti in relazione con rimaneggiamenti della struttura esistente (creazione di nicchie per lampade; chiusure di ambienti; sistemi per lo stoccaggio; etc.) offrono indizi interessanti sulla natura e le attività delle comunità monastiche del tempo scarsamente documentabili da fonti “più esplicite”. Un termine che ricorre di frequente in molti degli articoli della prima parte del volume è “paesaggio” ( landscape) nelle sue diverse accezioni (linguistico, archeologico, culturale) in relazione ai rapporti che intercorrono tra l’epigrafe e la sua collocazione, spaziale, geografica, scenica, etc.

Timothy P. Harrison analizza il contesto archeologico di rinvenimento dei documenti epigrafici dal sito di Tell Tayinat (§5. “Articulating Neo-Assyrian Imperialism at Tell Tayinat”, pp. 80-96). Dopo la presentazione della storia degli scavi e del sito (da identificare con Kunulu, capitale dello stato neo-ittita e poi provincia assira di Patina/Unqi), Harrison si concentra sul contesto archeologico dell’edificio XVI, verosimilmente un tempio. Nella cella sono state rinvenute diverse tavolette e oggetti cultuali abbandonati in loco durante la distruzione dell’edificio. Tra le tavolette vi è una copia del cosiddetto “trattato di vassallaggio” di Esarhaddon. Il luogo e il modo di rinvenimento così come la forma stessa del documento indicano chiaramente che questo oggetto era esposto nel tempio. L’edificio II è posto perpendicolarmente all’edificio XVI e delimita assieme a quest’ultimo una terrazza rialzata su cui si aprono gli ingressi di entrambi gli edifici. Secondo Harrison le due strutture potrebbero essere templi dedicati rispettivamente a Nabû e a Tašmētu le cui celebrazioni annuali ( akītu) si sarebbero svolte sull’antistante terrazza. È questa una conclusione che, alla luce delle fonti, risulta troppo azzardata, non potendosi affermare con sicurezza che l’edificio XVI sia da mettere in relazione con Nabû.

Matthew T. Rutz (§6. “The Archaeology of Mesopotamian Extispicy: Modeling Divination in the Old BabylonianPeriod”, pp. 97- 120) discute un tipo di documentazione a lui ben noto, i documenti legati alla pratica dell’extispicina, nel loro contesto archeologico. Allo stesso modo Adam Smith (§7. “The Ernest K. Smith Collection of Shang Divination Inscriptions at Columbia University and the Evidence for Scribal Training at Anyang”, pp. 121-141) si occupa dei più antichi documenti epigrafici in scrittura cinese, ovvero le notazioni apposte sulle ossa bovine e sui carapaci di tartarughe le cui spaccature, una volta esposti al fuoco, venivano interpretate come presagi. Smith si concentra su un lotto di oggetti conservati presso la Columbia University analizzandone il contesto di provenienza e diversi aspetti funzionali desunti dallo studio epigrafico dei materiali. Come per i documenti studiati da Rutz, anche quelli di Smith sono di natura mantica e proprio da una comparazione con le pratiche mesopotamiche e le considerazioni desunte dall’analisi archeologica ed epigrafica Smith arriva alla conclusione che parte delle iscrizioni sono state aggiunte in fasi posteriori a scopo propedeutico.

I due successivi contributi sono dedicati all’uso delle tecnologie informatiche. Eleanor Robson (§8. “Tracing Networks of Cuneiform Scholarship with Oracc, GKAB, and Google Earth”, pp. 142-163) avanza una serie di considerazioni sulla “ cuneiform scholarship ” a partire dall’analisi di differenti corpora di documenti per mezzo di banche dati e altri strumenti informatici. Lisa Anderson e Heidi Wendt (§9. “Ancient Relationships, Modern Intellectual Horizons: The Practical Challenges and Possibilities of Encoding Greek and Latin Inscriptions”, pp. 164-175) espongono il progetto di digitalizzazione del materiale epigrafico conservato nelle collezioni americane (USEP) e del linguaggio di mark-up (XML) utilizzato per la loro indicizzazione. Molte di queste iscrizioni provengono da contesti archeologici ignoti o non documentati, come nel caso delle numerose epigrafi della necropoli di Porta Salaria a Roma, ma la catalogazione informatica permette di inferire alcune informazioni sull’originale contesto o rete di relazioni tra le diverse epigrafi.

Il contributo di Christopher A. Rollston (§10. “Forging History: From Antiquity to the Modern Period”, pp. 176-197) ci traghetta verso un’altra sezione del volume, quella dedicata ad aspetti di gestione, quindi epistemologici, legali ed etici, di documenti di incerta origine. Rollston espone alcuni casi il cui filo conduttore è la genuinità dei documenti stessi, trattandosi sempre di falsi — esposizione interessante che offre numerosi spunti di riflessione su come valutiamo e ci rapportiamo all’oggetto della nostra ricerca. Gli esempi discussi spaziano dal Vicino Oriente alla classicità e, cronologicamente, dall’antichità ai nostri giorni. Rollston discute con arguzia i diversi casi presentando di volta in volta la “storia” dell’oggetto o del suo rinvenimento, le posizioni assunte dagli studiosi, le ragioni (paleografiche, filologiche, storiografiche) che hanno portato a giudicare o ipotizzare la non originalità dell’iscrizione e, cosa piuttosto insolita, le motivazioni del falsario.

Gli ultimi tre contributi sono dedicati agli aspetti etici, legali, politico-accademici della gestione di documenti epigrafici. Neil J. Brodie e Morag M. Kersel si occupano estensivamente del caso delle coppe aramaiche nella collezione Schøyen (§11. “WikiLeaks, Texts, and Archaeology: The Case of the Schøyen Incantation Bowls”, pp. 198-213). Il caso, che pur riguardando oggetti poco noti al grande pubblico è salito alla ribalta delle cronache, è analizzato puntigliosamente grazie a un’analisi investigativa che prende in considerazione tutti i documenti disponibili. È interessante notare che la discussione si centra sugli aspetti legali di un caso che riguarda documenti di dubbia provenienza e che, ironicamente, prende spunto a sua volta da un documento di dubbia provenienza, “fuori contesto” e irregolare ai termini di legge. Si tratta infatti di una relazione resa pubblica da WikiLeaks originariamente fatta alla Camera dei Lords nel 2009 da parte di una commissione della UCL, che aveva in custodia questi oggetti per studio.

Lo stimolante articolo di Patty Gerstenblith (§12. “Do Restrictions on Publication of Undocumented Texts Promote Legitimacy? ”, pp. 214-226) passa in rassegna le diverse politiche adottate dalle associazioni accademiche e istituti di ricerca e dalle loro pubblicazioni, principalmente le riviste, in merito all’edizione di materiali di dubbia provenienza. Gerstenblith analizza le diverse contromisure adottate e la loro reale efficacia, in particolare nell’ arginare il mercato illegale di opere trafugate che attenzione da parte di studiosi accreditati potrebbe favorire.

L’ultimo contributo, di John F. Cherry (§13. “Publishing Undocumented Texts: Editorial Perspectives”, pp. 227-244) riprende lo stesso tema dell’articolo precedente ma dal punto di vista di uno degli attori chiamati in causa, ovvero gli editori di riviste scientifiche. Cherry ha contattato i direttori delle principali riviste del settore domandando quale fosse la politica editoriale adottata nei confronti di tali documenti. Il tono dell’intervento è meno prammatico e più realistico degli altri contributi, ma l’analisi di Cherry è inficiata, a mio parere, dal fatto che, come egli stesso dichiara , diversi direttori, e in particolare quelli delle più importanti riviste europee, non gli hanno risposto. Cherry ha dunque ampliato la sua analisi a riviste che poco hanno a che fare col settore in questione. Cherry, inoltre, concentra la discussione sulle scelte operate dall’ American Schools of Oriental Research, al centro del contributo anche di Gerstenblith, facendo emergere un quadro che deriva più dall’impaccio che da una reale ed efficace risposta istituzionale al problema.

In conclusione, le indicazioni e i propositi espressi dagli organizzatori del convegno ed editori del volume che ne raccoglie gli atti sono stati in massima parte esauditi. Gli autori sono tutti anglosassoni e la bibliografia riporta principalmente opere di autori inglesi o nord-americani, cosa piuttosto abituale in questi casi. La natura dei contributi, sia per quanto riguarda l’oggetto di indagine che per la prospettiva adottata, comporta che l’opera nel suo insieme manchi di omogeneità, cosa che, tuttavia, nel volume in questione non costituisce una pecca. Al contrario, la ricchezza di considerazioni e spunti che le diverse prospettive e casi studio offrono è amplissima e stimolante.