BMCR 2012.01.22

Archaic Greek Epigram and Dedication: Representation and Reperformance

, Archaic Greek Epigram and Dedication: Representation and Reperformance. Cambridge; New York: Cambridge University Press, 2010. xxii, 321. ISBN 9780521896306. $99.00.

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The dedicatory epigram is like a miniature music box which is still until one turns the handle; then the tune may be played ad infinitum into the future. The epigram gathers the giver’s history of gratitude to the god into a record of his formalised thank-offering which then plays on in the readers’ minds for as long as the epigram is legible.

Da questa felice similitudine di William D. Furley, in Archaic and Classical Greek Epigram, 2010, p.155, il lettore potrà partire per orientarsi nell’ampia indagine di Joseph Day.

Il volume si pone a valle di un lungo percorso di ricerca intrapreso dall’autore negli anni ’80 sulla recezione della poesia epigrafica in antico: uno studio improntato ad una lettura dell’iscrizione in stretta connessione con il suo supporto, particolarmente attento ai contesti di produzione ed alle forme di trasmissione del messaggio epigrafico. La pubblicazione è concomitante a quella di un’altra opera dedicata all’epigramma di età arcaico-classica, risultato di un convegno di studi tenutosi in Germania nell’aprile del 2005, Archaic and Classical Greek Epigram, BMCR 2011.08.02, della quale condivide pienamente l’approccio teso ad una rivisitazione dei testi alla luce delle loro molteplici dimensioni: letteraria, materiale, performativa, storica e sociale.1

Al centro della speculazione sono in primo luogo gli epigrammi e, secondariamente, le altre dediche votive di età arcaica, dal VII al V secolo a. C.2 Adottando la prospettiva del lettore-spettatore, Day rintraccia nelle iscrizioni associate o associabili a monumenti e doni votivi una presentazione concisa dell’atto e del rituale di dedica, caratterizzata da una manciata di elementi di base (core syntax). Tale presentazione è suscettibile d’essere ripresa, riprodotta e riattivata ogni volta che l’oggetto è visto e l’iscrizione è letta in relazione ad esso. Secondo l’autore, è precisamente in quest’ottica di representation, reperformance e reenactement che vanno inquadrate sia la concezione del messaggio che la realizzazione della trama e del layout testuale. Sulla scia di una corrente di studi di antropologia della lettura ormai sempre più vasta, che trova una delle sue voci più eloquenti nell’indagine di Jesper Svenbro,3 Day sostiene che la posizione, il layout, come pure la costruzione semantica e sintattica dell’epigrafe votiva d’età arcaica, siano essenzialmente concepiti per una lettura performativa, ovvero in vista di una riproduzione ad alta voce reiterabile nel tempo a scopo sia memoriale (perpetuazione della fama) che rituale (perpetuazione del patto tra dedicante e divinità, fissazione e rievocazione del rito).

Solidamente strutturata, la riflessione si articola in sei capitoli: i primi due hanno carattere introduttivo e metodologico (pp. 1-80), i restanti quattro costituiscono ciascuno un approfondimento declinato in quattro o cinque paragrafi su uno dei quattro elementi della sintassi-base delle iscrizioni votive: la presentazione dell’oggetto votivo, la presentazione del dio, la presentazione del dedicante, la presentazione dell’atto di dedica. Il filo argomentativo ruota dunque intorno ai nuclei semantici e sintattici del testo epigrafico e si dipana in una rete di continui, e talora un po’ ridondanti, richiami e rinvii all’idea centrale della monografia.

Del dono viene messa a fuoco la natura e la funzione di agalma, parola che più di ogni altra (cf. aparchê, dekatê) ricorre nelle iscrizioni arcaiche in versi per definire l’offerta. Dotato di un solido retroterra poetico e spesso accompagnato da deittici, questo termine si riferisce non alla forma, ma alla qualità dell’oggetto e lo colloca in un particolare rapporto di causa-effetto con il suo fruitore-spettatore. Agalma è infatti il bell’oggetto, è tutto ciò che genera piacere e stupore alla vista per il suo splendore e la sua buona fattura. L’ agalma -dono funge da medium nella relazione tra divinità e dedicante, così come il termine agalma fa da ponte tra supporto e scrittura all’interno dell’insieme complesso di segni che è l’oggetto votivo.

Per dipingere la divinità l’epigramma arcaico si serve di una veste poetica, ovvero di epiteti appartenenti alla tradizione epica, innica e lirica. Day insiste su questa ‘traditional referentiality’ capace da un lato di evocare nella mente del lettore-ascoltatore linee tematiche associabili ad una particolare figura divina, dall’altro, di invocare la divinità e di renderla presente in tutta la sua benevolenza all’atto di lettura. L’autore non nega che gli epiteti legati all’idea poetica di una divinità dovessero avere maggiore presa su lettori provvisti di un’educazione poetica; diventa pertanto lecito chiedersi in che misura tale cultura potesse essere diffusa in età arcaica ed il quesito non è di facile soluzione. A tale proposito, l’idea già espressa dall’autore nel 1994,4 che queste formule di denominazione divina potessero avere non solo un sapore poetico, ma richiamare anche un linguaggio rituale ed essere così riconosciute da chi partecipava alle pubbliche cerimonie, ha un suo innegabile fascino e meriterebbe d’essere ulteriormente sviluppata.

Nell’iscrizione il dedicante entra in gioco in una composizione bilanciata di devozione (piety) ed esibizione dello status sociale (display). Fermamente negata la posizione di William Rouse, Greek Votive Offerings, Cambridge, 1902, per cui si assisterebbe ad un declino progressivo della devozione la cui contropartita sarebbe un trionfo dell’orgoglio sociale che metterebbe al centro del testo il solo dedicante. Con la sua duplice funzione di mnêma e di agalma, la dedica è un luogo dove sacro, pubblico e privato si fondono, senza negarsi, in ritratti d’uomini e donne presentati come membri di una famiglia e di una comunità nel loro rapporto con il divino. Nell’intento di illustrare questa tesi, Day si sofferma su due categorie di dedicanti: le donne e gli atleti. Le prime viste come ‘risorsa’ familiare da esibire nel pubblico e come agenti nei riti sacri, i secondi come vanto per la famiglia e per l’intera città. Il successo personale dell’atleta sarebbe condensato nel verso epigrafico con un richiamo esplicito ai rituali della vittoria, in particolare all’ aggelia, la proclamazione ufficiale da parte dell’araldo durante l’incoronazione alla quale l’epigramma pronunciato ad alta voce farebbe eco.

Una volta constatato come tutte le parti del dono concorrano tramite mezzi verbali e visivi a destare piacere tanto nel lettore-spettatore quanto nella divinità, l’atto di dedica è fotografato nella sua specifica natura di charis : un’interazione tra umano e divino che si rinnova ad ogni lettura e che porta i segni della reciprocità, della bellezza, della benevolenza, del ringraziamento ed insieme il ricordo perenne dell’occasione rituale dell’offerta.

Un piccolo passo indietro meritano i quesiti sottesi dal ragionamento intorno a cui fa perno tutta la riflessione di Day: queste iscrizioni erano leggibili? Erano lette? Erano effettivamente comprese? Tre livelli che l’autore cerca di esplorare adducendo argomenti più o meno persuasivi a sostegno di un punto di vista decisamente ottimistico. L’argomentazione più convincente credo risieda nelle due tabelle alle pp. 76-84. Il campione su cui Day ha lavorato sono 78 inscrizioni, quasi tutte metriche, in cui compare il termine agalma. Questa rappresentazione schematica fornisce dati concreti sulle scelte e sui metodi di mise en place, mise en page e mise en forme epigrafici i quali, per il fatto stesso di esistere, sottintendono un invito alla lettura. Da questo ridotto ma significativo insieme si deduce che la posizione dell’iscrizione nel monumento, come pure la disposizione generale del testo nel campo epigrafico e la divisione delle linee, fossero spesso intese a facilitare ed a guidare la lettura e la comprensione del messaggio e/o a metterne in evidenza la natura metrica (tramite una corrispondenza tra linea e verso o un cambio di linea per marcare unità prosodiche). Individuare costanti nel layout dell’iscrizione e nella sua presentazione in rapporto alla lettura ed alla comprensione del testo ed estendere questa indagine ad un campione sempre più vasto di documenti ritengo sia l’unica via per comprendere meglio se e come le iscrizioni venivano lette in antico. Un tale approccio consentirebbe di uscire da una valutazione del fenomeno falsata da una logica deduttiva troppo cauta o troppo avventata oppure, ancora, eccessivamente contaminata dalla prospettiva moderna o attenta ad evitarla ad ogni costo. Dall’indagine di Day, e da una serie di ricerche già pubblicate o di prossima pubblicazione, 5 si fa strada un invito a quanti sono implicati in progetti di redazione di corpora epigrafici a rispondere regolarmente, se possibile, ad una serie di interrogativi: dove si trova l’iscrizione nell’oggetto e come si presenta ad un eventuale lettore? La scrittura è un semplice atto di comunicazione estemporaneo ed occasionale oppure il testo è stato inciso per esser visto, letto e compreso? Sono stati adottati metodi per stimolare e guidare la lettura nei suoi nuclei concettuali di base oppure il testo scorre indistinguibile ed indistinto? Nel caso di un’iscrizione in versi, esiste un intento di valorizzazione del testo poetico e delle sue unità prosodiche? Interrogarsi sul livello di alfabetizzazione del lettore antico credo sia secondario, e comunque conseguente, ad una massiccia raccolta di dati desunti dall’evidenza epigrafica.

Nel libro pieno sviluppo è inoltre dato all’idea che l’epigramma votivo altro non sia che la forma breve della preghiera atta all’evocazione di un dio ed alla rievocazione del rito nello spazio multimediale nell’iconotesto su pietra. L’epigramma votivo è dunque presentato, a ragione, come miniatura del rito e sintesi del canto, così come in altri contesti l’epigrafe metrica è stata descritta come forma breve del dolore, dell’elogio, dell’ ekphrasis. Visto sotto questa luce l’epigramma trova tutto il suo spazio nel panorama sfumato dei generi poetici.

Ricca, pertinente e curata la bibliografia, nella quale non si riscontrano mancanze evidenti. Mi permetto solamente di segnalare, per allargare lo sguardo nella stessa direzione proposta da Day, il lavoro di Phoebé Giannisi, Récits des voies. Chant et cheminement en Grèce archaïque, Grenoble 2006, incentrato sul tema del canto come oîmos ovvero come tracciato, percorso, filo narrativo all’interno dello spazio archittettonico della via sacra. L’apparato fotografico, sebbene un po’ soffocato dagli spazi ridotti dell’edizione cartacea, è di buona qualità.

In estrema analisi, il volume riprende e completa una serie di riflessioni già in parte sviluppate nei precedenti scritti dell’autore e si afferma, con voce sonora e convincente, nel dialogo interdisciplinare intorno all’oggetto di studio. Esso rappresenta, infine, un grande stimolo ad una riedizione dei CEG che sappia coniugare gli aspetti letterari dell’iscrizione in versi con il suo supporto fisico ed il suo contesto archeologico, sfruttando, ci si augura, le potenzialità dell’ambiente digitale verso il quale l’edizione epigrafica si sta lentamente ma progressivamente spostando.

Notes

1. Nel volume a cura di Manuel Baumbach, Andrej Petrovic, Ivana Petrovic, parallelo al libro di Joseph Day è il contributo di William D. Furley, Life in a line: a reading of dedicatory epigrams from the archaic and classical period. Per quanto riguarda la questione della lettura e della contestualizzazione di questi ‘oggetti votivi multimediali’ fatti per essere visti e letti ad alta voce, il secondo capitolo di Day andrebbe confrontato con l’ottimo articolo di Katharina Lorenz, ‘Dialectics at a standstill’: archaic kouroi-cum-epigram as I-Box.

2. Per i primi Day si è principalmente basato sul corpus di Hansen, Carmina Epigraphica Graeca I-II, Berolini et Novi Eboraci, 1983-1989, che l’autore consiglia di tenere a portata di mano durante la lettura, in quanto i testi, se possibile, vengono ogni volta citati riferendosi ai CEG, per le seconde sulla raccolta di Maria Letizia Lazzarini, Le formule delle dediche votive nella Grecia arcaica, Memorie Accademia dei Lincei, Roma, 1976.

3. Cf. Jesper Svenbro, Phrasikleia, anthropologie de la lecture en Grèce ancienne, Paris, 1988.

4. Joseph Day, Interactive Offerings: Early Greek Dedicatory Epigrams and Ritual, HSPh 96, 1994, pp. 37-74. Cf. Furley, cit. nota 1, pp. 154-156.

5. Solo per citarne alcuni, Valentina Garulli, Stones as books. The layout of Hellenistic inscribed poems, in corso di stampa negli Atti del Tenth Groningen Workshop on Hellenistic Poetry. Hellenistic poetry in Context, eds. Annette Harder, Remco Regtuit, Gerry Wakker; Gianfranco Agosti, Eisthesis, divisione dei versi, percezione dei cola negli epigrammi epigrafici di età tardoantica, in Segno e testo, Cassino 2010; id., Saxa loquuntur? Epigrammi epigrafici e diffusione della paideia nell’Oriente tardoantico, AntTard 18, 2010 (in stampa); Christos Tsagalis, Inscribing Sorrow: Fourth Century Attic Funerary Epigrams, Berlin-New York, 2008, p. 90, a proposito del layout di CEG 489.