Gli anni più recenti hanno osservato il fiorire di studi sull’impiego dell’antichità nei film del genere abitualmente definito, anche se non con pieno consenso,1 peplum ed il fenomeno è stato nuovamente analizzato sotto diversi punti di vista da studiosi appartenenti a diverse discipline quali storici, archeologici, sociologi: la storia, il rapporto con il mito, la visione del mondo moderno dell’antichità, la riproposizione di alcuni stereotipi eccetera.2 Carlo Modesti Pauer propone un’interessante analisi del fenomeno, anche se il titolo può creare delle false aspettative: l’autore si occupa della rapporto tra l’immaginario cinematografico ed i negotia romani solo parzialmente, specialmente nella seconda e terza parte del volume, mentre il tema conduttore dello studio è piuttosto come i diversi sistemi politici e sociali hanno influenzato la realizzazione di film di “genere romano” e la visione del mondo romano che ne scaturisce.
Modesti Pauer, nella prima parte, intitolata Il cinema, la storia e il genere “romano”, tratta del “genere romano”—termine impiegato dal Modesti Pauer per delimitare il campo dell’indagine rispetto ad un più esteso peplum—nei film italiani e statunitensi sviluppando due filoni di ricerca: l’analisi, di tipo sociale, dell’influenza / imposizione che l’ambiente politico coevo ha esercitato sui cineasti chiamati ad operare scelte per realizzare il film e il ruolo avuto dall’evoluzione della tecnica cinematografica. L’analisi di tipo sociale viene applicata soprattutto alla filmografia italiana d’epoca fascista e del primo dopoguerra ed a quella statunitense del periodo della Guerra Fredda, e domina tutta la trattazione con l’eccezione dell’ultimo capitolo L’impero colpisce ancora, dedicato alla contemporaneità: in questo caso, l’attenzione viene posta sul ruolo svolto dall’affermarsi di novità tecniche, come la diffusione delle tecniche di computer grafica. La trattazione non segue una struttura sincronica stringente, ma, piuttosto, un andamento paratattico, nel quale i rimandi e le riprese sono continui; inoltre l’autore apre spesso degli incisi, a volte di semplice curiosità come quando ricorda che Gordon Edwards, ai tempi delle riprese, nel 1922 del film Nero, era da poco diventato nonno di Blake Edwards, regista delle commedie La Pantera Rosa (19), altre volte di maggior ampiezza e maggiormente pertinenti le argomentazioni principali, come per la parentesi, durante la discussione di Cabiria e del ruolo di Maciste, dedicata alla figura di Primo Carnera ed al divieto del fascismo di mostrare le immagini della sua sconfitta (16-17).
Un altro tema che, pur percorrendo a brevi cenni tutta la prima parte del volume, ci si sarebbe potuti aspettare trattato con maggior risalto, è il rapporto tra realtà storica e verosimiglianza cinematografica, ed ancor di più tra l’immaginario collettivo che gli spettatori moderni si sono creati dell’antichità e la realizzazione filmica che tenta di raggiungere la verosimiglianza, impiegando consulenti storici di alto livello (ad es. 32 e 37).
Un ampio capitolo viene infine dedicato alle novità che la televisione introduce in questo mondo, imponendo, grazie alla realizzazione di documentari storici, una maggior verosimiglianza storica anche a film per la televisione, fictions, serials, dato che lo spettatore dei due generi è lo stesso e quindi meglio documentato. Modesti Pauer illustra, pur per brevi cenni, come alcune serie televisive o film per la televisione, come Agostino di Ippona (1973) o I, Claudius (1976), abbiano affrontato concretamente il problema, e ricorda anche qualche errore ricostruttivo nel quali comunque sono incorsi i registi. Spiace che in quest’ambito l’autore scelga di non trattare il rapporto tra vero e falso nella rappresentazione, e, soprattutto, di non spiegare perché ritiene che esso sia afferente all’ambito dell’estetica (44).
Maggiore attinenza con il titolo dell’opera si trova nella seconda parte del lavoro, La rappresentazione del lavoro e dei mestieri nel cinema storico-romano, diviso in due capitoli a se stanti: il primo, dedicato al rapporto tra pittura e cinema che,3 almeno sino all’affermarsi del documentario che stravolge il rapporto sin lì codificato, rendendo necessaria una maggiore attenzione alla ricostruzione storica, è debitore per la verosimiglianza a pittori quali Lawrence Alma Tadema4 e Jean-Léon Gérôme.5 Entrambi, e Modesti Pauer illustra alcuni casi, influenzarono e continuano ad influenzare registi e scenografi, anche se ritengo sia stato piuttosto Gérôme, meno accurato dal punto di vista della ricostruzione filologica dei contesti rispetto ad Alma Tadema, se non addirittura corrivo, ad influenzare, con la sua grande fortuna, l’immaginario collettivo, come ben dimostrano le numerose cartoline che riprendono e ripropongono suoi quadri.6 Nel secondo capitolo della seconda parte, Il lavoro e i mestieri: una perlustrazione, vengono finalmente analizzate alcune figure di “lavoratori”: il legionario e, più brevemente, lo schiavo ed il gladiatore. L’analisi del film Scipione l’Africano (1937) è esemplificativa del modus operandi di Modesti Pauer: l’autore ricorda come nell’esaltazione del generale e delle sue truppe si debba intendere l’esaltazione di Mussolini e dei suoi legionari, i Fascisti che lo circondano, senza tener però in alcuna considerazione come il parallelismo Scipione/Mussolini abbia delle origini più lontane, risalendo al 1926, con la spedizione di Libia.7 Inoltre, con un salto cronologico interno all’analisi, Modesti Pauer indica come la figura del legionario, grazie anche all’impiego che ne fece il Nazismo nelle imponenti parate, sia stata impiegata in ruoli e con impianti scenici di stampo nazista (che rimandano, più che alla storia di Roma, a quella nazista).
Per quanto concerne la figura degli schiavi, Modesti Pauer ricorda come la loro rappresentazione, se non addirittura la scelta del loro inserimento nei film, è condizionata, dalle origini della cinematografia ai tempi più recenti, o da letture di tipo cristiano oppure da interpretazioni di tipo marxista. Proprio “l’organizzazione gerarchica di una cultura marziale” e “la rappresentazione di un sistema economico basato sulla manodopera schiavile” caratterizzano, secondo Modesti Pauer, l’immaginario di riferimento per il mondo di celluloide, mentre “il protagonista indiscusso è il potere nelle sue diverse manifestazioni” (71).
Nella terza parte del volume, Le immagini del lavoro nel cinema di genere storico-romano: un percorso fotografico, viene presentata una carrellata di scene, 131, tratte da 32 dei film citati nel corso del libro, a detta dell’autore, il 13% dei circa 500 titoli di film sull’antichità romana: mancano, purtroppo, le indicazioni bibliografiche dei repertori impiegati per la loro identificazione.8
Le 131 scene, riprodotte in bianco e nero per ragioni editoriali, sono organizzate secondo “macro aree” di interesse: scene di mercato con al centro la vendita della carne, ad esempio, ovvero di verdurai, o di lavori agricoli, ecc., e sono affiancate tra loro, ove possibile, per impianto scenico simile, anche se numerose sono le eccezioni. Nelle didascalie, sebbene il commento sia difforme, è sempre riportato il nome del film dal quale è tratta la scena, mentre solo in pochi casi è ricordata la fonte cui si è ispirato il regista per la sua realizzazione oppure la verosimiglianza. Le note critiche al testo concludono il volume.
Sommario:
I. Il cinema, la storia e il genere romano: La storia in un minuto; Alla ricerca dell’equilibrio; Dal primato alla crisi: una storia italiana; Da Hollywood al Tevere. I romani in technicolor, tra fede e storia. Lo sviluppo del film storico-romano e la nascita della tv; Apoteosi e disastri; Sandaloni per tutti: il peplum all’italiana; I romani nel salotto di casa; L’impero colpisce ancora.
II. La rappresentazione del lavoro e dei mestieri nel cinema storico-romano: La pittura alla base del cinema: un panorama iconografico. Il lavoro e i mestieri: una perlustrazione.
III. Le immagini del lavoro nel cinema di genere storico-romano: un percorso fotografico.
Notes
1. Sui diversi limiti cronologici e di contenuti attribuiti al genere, basti osservare le differenze esistenti tra la voce Sword and sandal e Peplum, e per un’analisi maggiore la recensione 2009.07.63.
2. Si veda, a puro titolo d’esempio, il libro recensito in 2009.03.09, organizzato seguendo le trame, quello discusso in 2009.07.63, focalizzato sul mondo greco, e quello di cui si parla in 2010.03.37 ( non vidi) incentrato su quello romano, ed ancora Claude Aziza, Le péplum, un mauvais genre, Paris, Klincksieck, 2009.
3. A riguardo si veda anche Raffaele de Berti, Dallo schermo alla carta: romanzi, fotoromanzi, rotocalchi cinematografici. Il film e i suoi paratesti Milano, Vita e Pensiero, 2000, p.59.
4. La figura di L. Alma Tadema è stata ricostruita da una recente mostra ( Alma Tadema e la nostalgia dell’antico, Stefano De Caro, Eugenia Querci, Carlo Sisi (eds), Catalogo della mostra (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, 18 ottobre 2007 – 31 marzo 2008) Milano, Mondadori Electa s.p.a., 2007).
5. Per comodità del lettore ricordo che attualmente è in svolgimento una mostra a lui dedicata: The Spectacular Art of Jean-Léon Gérôme (June 15–September 12, 2010 Getty Center Los Angeles).
6. Celebre quella tratta dal suo quadro La dernière prière des martyrs chrétiens (1883), che, stampata da un editore attualmente non identificabile, continuava a circolare in varie versioni nel 1917, partendo anche da ambiti non direttamente collegabili al turismo romano.
7. A. Giardina-A.Vauchez, Il mito di Roma da Carlo Magno a Mussolini, Bari-Roma, Laterza, 2000, p.249.
8. Si confronti ad esempio Jon Solomon, The Ancient World in the Cinema, New Haven, Yale University Press, 2001.