Gli studi di ricezione dell’antico—ed in particolare quelli relativi al cinema—hanno avuto negli ultimi anni, come è noto, un grandissimo successo. Il volume di Junkelmann si inserisce con originalità e in modo fruibile da un ampio pubblico in un florido filone, che ha accompagnato per così dire dal lato accademico la “rinascita” del genere del film storico di antichità. Proprio questa rinascita—e il desiderio di trovarne le ragioni—costituisce la causa scatenante della riflessione di Junkelmann, come appare chiaro dal primo capitolo, Wiedergeburt eines totgeglaubten Genres.
Il film di ambientazione antica, dopo un quarantennio di quasi scomparsa, in seguito agli insuccessi di Cleopatra e de La caduta dell’Impero romano è infatti tornato con il XXI secolo a nuova vita. Primo esempio di tale rinascita è naturalmente Gladiator di R. Scott, film che costituisce in sostanza l’oggetto dell’analisi dell’autore: gli altri riferimenti sono tutti concepiti in relazione ad una migliore contestualizzazione e comprensione di questo lungometraggio, analizzato in alcune parti sequenza per sequenza.
L’autore si dedica così esclusivamente alla ricezione dell’antica Roma, seguendo in questo senso le impostazioni di ricerca più recenti, che superando la più generale formula “ricezione dell’antico” si sono impegnate a ricostruire le specifiche caratteristiche, nell’immaginario popolare, del mondo greco e del mondo romano.1 Questo aspetto è messo in luce dall’autore piuttosto brevemente nel corso del secondo capitolo, Das Bild der Geschichte in einer postliteraten Welt, ove sottolinea come non si possa parlare di un genere “film storico”, dal momento che il film di ambientazione antica—e quello di ambientazione romana in particolare—mostra, rispetto agli altri, caratteri del tutto specifici. Su questo punto la riflessione può essere ancora condotta oltre: è possibile infatti identificare sostanzialmente in tutti i film “romani”, che si riferiscano all’età monarchica, repubblicana, tardo imperiale, alcune costanti, che andrebbero studiate approfonditamente per arrivare alla vera e propria definizione di un genere.
L’immagine di Roma, nella sua oscillazione tra un polo “positivo” ed un polo “negativo”, è analizzata dall’autore nei capitoli settimo, “Wir fürchten keine Konkurrenz”—Vom Aufstieg und Niedergang des schwierigsten Filmgenres, una vera e propria completa storia del film storico romano, e quindicesimo, Rom als Traum und Rom als Alptraum. La ricostruzione proposta dall’autore è accurata e convincente, anche se restano aperte alcune domande. Manca ad esempio qualsiasi riferimento a produzioni cinematografiche di ambientazione tardo imperiale, che pure sarebbero di grandissima rilevanza nel definire se la tematizzazione di questa epoca è letta nella luce dell’indipendenza dei popoli dall’Impero universale e sopraffattore o invece in quella del collasso della civiltà.2 Basti pensare all’elevato numero di produzioni ruotanti intorno alla figura di Attila (primo tra tutti il film omonimo di P. Francisci del 1954).
L’analisi del significato simbolico di Roma permette di spiegare almeno in parte il declino del successo del genere negli anni ’60-2000: l’A. mette in luce come con Spartacus e Cleopatra si sia verificata una sorta di inversioni di ruoli, che ha portato da un immagine di Roma “polo del male” ad una identificazione Roma-America, che al pubblico americano non poteva piacere. La spiegazione sembra troppo netta: tentativi di rappresentazione di questo genere già erano stati fatti in passato, ma non erano andati a buon fine (si pensi al travagliato rapporto di collaborazione tra Gore Vidal e William Wyler nel Ben Hur del 1959). Il cambiamento politico interno americano va dunque messo in stretta relazione con il cambiamento nella produzione cinematografica, e nella sua accoglienza presso il pubblico, nonché, forse più banalmente, con un cambiamento di mode e di gusti.
Lo stesso tipo di analisi andrebbe condotto anche per il primo decennio del XXI secolo, completamente trascurato verosimilmente per ragioni di tempo dall’autore, che si limita a menzionare il nuovo Quo vadis? polacco del 2001. Eppure sarebbe necessario analizzare e comprendere perché il film romano dopo Gladiator sia in sostanza di nuovo finito nel dimenticatoio (un unico annunciato Memoirs of Hadrian, tratto dal romanzo della Yourcenar, con A. Banderas nel ruolo principale, è sparito nel nulla), di contro all’enorme successo, post 11 settembre, del film greco, che ha portato sugli schermi blockbuster come Troy, Alexander, 300,3 e di quello tardo imperiale, pur se con assai inferiore successo di pubblico ( The Priestess, Agorà). Allo stesso modo l’ultimo decennio ha visto, in contrasto con il cinema, il grande successo di Roma in televisione, con le due serie della Rome targata HBO e con i film per la tv Imperium : anche questo sarebbe un tema da investigare approfonditamente.
Al di là di questo aspetto, l’autore tocca due altri punti della ricezione dell’antico. Il primo, il più originale e il più interessante, è il tentativo di definire non solo gli sforzi intellettuali di autori, registi e consulenti storici (cui è dedicato il quarto capitolo, Die Leiden des historischen Beraters, accompagnato da un’interessante lettera di K. Coleman, che tale funzione ha svolto per Gladiator), ma anche le aspettative del pubblico e le sue reazioni, in particolare in rapporto al tema della verosimiglianza e dell’accuratezza della ricostruzione, anche attraverso sondaggi e inchieste.
Risiede proprio nel discorso pubblico—verosimiglianza—consulenza storica il punto più discutibile della posizione dell’autore, che rischia talora di scadere nell’antiquaria solipsistica. Se Junkelmann nel secondo ( Das Bild der Geschichte in einer postliteraten Welt) e terzo ( Past Imperfect) capitolo scrive che si possono tollerare alcune libertà nel film, una volta ammesso che anche l’opera dello storico non è ricostruire la verità, egli passa poi a sostenere che non bisogna esagerare in questo senso, e che non si può accettare qualsiasi falsificazione. È vero che tali immagini “falsate” restano poi nella cultura popolare per lungo periodo e che i film successivi devono rispettarle come topiche, ma il punto vero da discutere sarebbe se tutto questo ha poi grande importanza. Il pubblico sa benissimo che ciò che sta vedendo è un film, sa benissimo che esso non ha aspirazioni alla precisione storica, ed è spesso bombardato dalla critica, che a più riprese sottolinea tutti gli “errori” di queste pellicole. In sostanza, mi sembra eccessivo riconoscere a questi film una responsabilità nella diffusione di una disinformazione storica, così come mi sembra del tutto utopica l’aspirazione ad un maggiore coinvolgimento dei consulenti—come la Coleman stessa evidenzia nella menzionata lettera. L’auspicio che l’immagine di Roma diffuso nel XXI secolo non sia figlia di quella del XIX e XX ma una nuova, nata dalla popolarizzazione della scienza archeologica (pp. 293-294) finisce così per essere una sorta di invito ad abbandonare il film per il documentario. Più importante per gli studi di ricezione è invece definire cosa suscita nel pubblico determinate reazioni, come mostra ad esempio un esemplare recente studio di M. Lindner.4
Sembrerebbe inoltre necessario, ancora una volta, distinguere tra film e film, tra sottogenere e sottogenere, scopi e scopi: realismo, identificazione con il protagonismo, satira, comunicazione di un messaggio morale e / o religioso seguono naturalmente strade molto diverse e sarebbe del tutto assurdo pensare che Life of Brian, Ben Hur o Cleopatra abbiano lo stesso approccio al dato storico-archeologico e la stessa aspirazione alla verosimiglianza.
In sostanza l’autore mostra su questo aspetto una certa rigidità, che lo porta anche a prese di posizione preconcette nei confronti degli spettatori: si sostiene così che scene topiche e irrealistiche come le corse delle bighe (p. 37) vengano riproposte continuamente (ed all’elenco sarebbe da aggiungere quella della Teodora di R. Freda, tralasciata come tutti i film tardo antichi) solo perché gli spettatori se le aspettano e sarebbero delusi dalla loro assenza. Oppure critiche di inverosimiglianza che dimenticano completamente che stiamo parlando di cinema, come quando contesta il finale di The Fall of the Roman Empire perché nessun nuovo Imperatore avrebbe lasciato in vita la figlia di Marco Aurelio e suo marito per paura di moti legittimisti (p. 346).
Tre capitoli sono quindi dedicati interamente alla valutazione da un punto di vista antiquario delle incongruenze e degli errori dei film, nelle scene di battaglia (il dodicesimo), nelle scene dell’arena (il tredicesimo), nella rappresentazione di Roma e dei suoi monumenti (il quattordicesimo). Questi capitoli appaiono i meno interessanti del volume, nel loro essere in sostanza un elenco di elementi inappropriati, solo a tratti illuminato da alcune comparazioni con la pittura o altre arti figurative.
In questo costante confronto con le altre figurative, ed in particolare con la pittura Ottocentesca è l’altra grande ricchezza del libro. Il tema dell’influsso della pittura storica neoclassica e romantica sull’immaginario collettivo dell’antico, ancora nel XX secolo e nella sua trasposizione cinematografica, era infatti finora piuttosto trascurato, ed è affrontato con grande ricchezza di dettaglio nel capitolo sesto, Kino mit unzureichenden Mitteln—Das Erbe des 19. Jahrhunderts. Interessante è in particolare il caso dell’influsso di Siemiradzki sul Quo vadis? di Sienkiewicz, e quindi sulla sua versione cinematografica polacca del 2001, che apre il problema, ancora tutto da affrontare, delle “scuole nazionali” al di fuori del cinema americano e di quello italiano. Ancora da approfondire sarebbe anche la reciproca influenza cinema-teatro o più in generale spettacolo, vistosa, per fare solo un esempio, nell’influsso della Teodora di Sarah Bernardt e Victorien Sardou su tutti i film relativi all’Imperatrice bizantina.5 Anche i cosiddetti toga-plays, giustamente ricordati dall’autore, sono ancora troppo poco presi in considerazione negli studi di ricezione dell’antico.6
Il volume è corredato di un ricchissimo apparato iconografico, di grande qualità, tanto nella scelta delle immagini quanto nella loro riproduzione grafica, che è certamente da segnalare come modello da imitare per future pubblicazioni sul tema.
Notes
1. Per la Grecia si vedano ad esempio E. Cavallini (ed.), I Greci al cinema, Bologna 2005; G. Nisbet (ed.), Ancient Greece in Film and Popular Culture, Bristol 2006 e I. Berti—M. Garcia Morcillo (edd.), Hellas on Screen, Stuttgart 2008.
2. Sulla ricezione del V secolo nel teatro si vedano le mie considerazioni in “Il modello di ogni caduta: il V secolo d. C. nelle sue riduzioni teatrali tra XIX e XX secolo”, in M. J. Castillo—M. Garcia Morcillo—S. Knippschild (edd.), Imagines. La Antiguedad en las artes escénicas y visuales, Logronntilde;o 2008, 91-114.
3. D. S. Levene, “Xerxes goes to Hollywood”, in E. Bridges—E. Hall—P. J. Rhodes (edd.), Cultural Responses to the Persian World. Antiquity to the Third Millennium, Oxford 2007, pp. 383-403. Su 300 un’interessante relazione, “Hollywood versus Ahmadinejad: conquering the east in the third-millennial western cinema” è stata tenuta da E. Hall nel convegno “Classical Empires in Contemporary Culture” (Londra, 23 maggio 2008).
4. M. Linder, “Zwischen Anspruch und Wahrscheinlichkeit—Legitimationsstrategien des Antikfilms”, in M. Lindner (ed.), Drehbuch Geschichte. Die antike Welt im Film, Münster 2005, pp. 67-85.
5. S. Ronchey, “Teodora Femme Fatale”, in S. Ronchey (ed.), La decadenza. Un seminario, Palermo 2003, pp. 19-43.
6.D. Mayer, Playing out the Empire: Ben-Hur and Other Toga-Plays and Films, 1883-1908. A Critical Anthology, Oxford 1994.