BMCR 2002.10.13

Scritti in onore di Italo Gallo

, , Scritti in onore di Italo Gallo. Pubblicazioni dell'Università degli studi di Salerno. Sezione Atti, convegni, miscellanee ; 59. Napoli: Edizioni scientifiche italiane, 2002. 591 pages ; 24 cm.. ISBN 8849501714. EUR 37.00.

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Il volume presenta, con un notevole ritardo rispetto ai tempi previsti,1 i contributi che vari studiosi hanno offerto ad Italo Gallo, noto cultore di Plutarco e del teatro ellenistico minore, papirologo ed esperto di storia locale, che fino al 1996, come si legge nella breve schizzo di L. Torraca (‘Italo Gallo ovvero il carisma della cultura’, 5-6), dopo circa venticinque anni di insegnamento nei Licei, è stato ordinario di Letteratura greca nell’Ateneo salernitano e Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Antichità della medesima Università, cui non poco lustro ha dato con l’organizzazione di convegni e seminari internazionali di alto valore scientifico.

La raccolta, nella sua variegata e ricca composizione, offre ben 45 contributi, che vanno dalla lirica greca arcaica alla tragedia, dalla commedia antica agli scrittori di età ellenistica, da Erodoto e Platone a Dione Crisostomo e Plutarco, dagli scrittori tardo-antichi alla letteratura bizantina; meno presente è la letteratura latina cui sono consacrati alcuni articoli su Virgilio, Cicerone, Stazio e Marziale. Non tutti i lavori, comunque, offrono un reale contributo allo studio del mondo antico; alcuni, poi, sono infarciti di mende e sviste tipografiche (nel solo articolo di L. Baldi ho potuto contare una quindicina di refusi). Un’attenzione maggiore anche nell’uniformazione delle citazioni e della bibliografia da parte del curatore avrebbe di sicuro reso l’opera più omogenea.2

Non potendo dare conto dei singoli contributi in maniera completa ed esaustiva, nello spazio di una recensione, mi soffermerò su quelli che hanno destato maggiore interesse e nell’ambito delle diverse tipologie raccolte. Nel primo saggio, che apre il volume, Rosa Maria Aguilar (‘La amistad según Plutarco: los Moralia‘, 7-26) studia i passi dei Moralia in cui è trattato il tema dell’amicizia (in particolare il De adulatore et amico, il De fraterno amore, il De amicorum multitudine) per ricostruire il presunto contenuto del περὶ φιλίας di Plutarco, un’opera il cui titolo ricorre nel catalogo di Lampria (nr. 83), ma di cui non restano che alcuni sparuti frammenti in Stobeo. Per la studiosa il trattato plutarcheo doveva rappresentare un mosaico, armoniosamente realizzato, ricco di suggerimenti pratici in linea con il contenuto degli altri opuscoli etici e alla luce dell’erudizione di Plutarco, senza che implichi superficialità da parte dell’autore nel tessere il contenuto del trattato, come, invece, vorrebbero alcuni studiosi (J.-C. Fraisse).

A Maria Rubina Cammarota (‘Nota al De fortuna Romanorum di Plutarco’, 147-165) si deve, invece, una rilettura dell’importante opuscolo plutarcheo sulla fortuna dei Romani, nella quale la studiosa difende il titolo περὶ τῆς Ῥωμαίων τύχης ἢ ἀρετῆς, dato da alcuni codici contro περὶ τῆς Ῥωμαίων τύχης, quale si legge nel Catalogo di Lampria (nr. 175) e nella quasi totale restante tradizione e finora accolto dagli editori. La Cammarota, contrariamente allo Ziegler che considera lo scritto giovanile di Plutarco incompiuto perché vi mancherebbe l’annunciata l’arringa in favore della Virtù, suppone che l’opuscoletto plutarcheo non richiedeva lo sviluppo della parte relativa alla virtù e che non vi è alcuna incongruenza tra la premessa fatta dall’autore e la fine dello scritto. In particolare, la studiosa argomenta la sua tesi considerando il fine dell’opuscolo non già quello di stabilire se fu maggiore l’incidenza della fortuna o della virtù sul popolo romano, bensì quello di definire in linee generali la fortuna. Personalmente, pur ritenendo probabile la tesi della Cammarota, continuo a credere che il titolo dello scritto sia De fortuna Romanorum, anzi, proprio i sagaci argomenti portati dalla studiosa a sostegno della compiutezza dell’operetta, escludono, credo, la falsa alternativa De fortuna aut virtute Romanorum.

Com’è noto, le vicende di Elena dopo il rapimento da parte di Paride seguono diverse tradizioni. L’interesse del contributo di Francesco Becchi (‘La versione egiziaca del mito di Elena (Hdt. 2, 113-117 – Hypoth. Eur. Hel. 1-8)’, 47-57) sta proprio nel focalizzare l’attenzione del lettore sulla testimonianza fornita dalla hypothesis all’ Elena di Euripide, trasmessa unicamente dal Laur. Conv. Soppr. 172 e redatta per mano di Giovanni Catrari, in cui dietro le parole οἱ μὲν … πλανωμένην φασὶ αὑτήν si nasconderebbero Omero e i poeti epici e non il solo Omero, come finora si per lo più è ritenuto.

In un lungo ed importante lavoro (‘Referencias a textos órficos en Diodoro’, 67-96) Alberto Bernabé, che ha in preparazione la nuova edizione teubneriana degli Orphicorum fragmenta, studia i passaggi orfici presenti nell’opera storica di Diodoro Siculo, chiarendo, in maniera convincente e particolareggiata, le fonti dello storico. In questo modo, lo studioso contribuisce all’individuazione di due diverse tradizioni orfiche, che evidentemente furono alla base delle Rapsodie, facenti capo rispettivamente alla teogonia citata nel Papiro di Derveni (che il Bernabé indica come prima versione) e ad uno Ἱερὸς λόγος Αἰγύπτιος (la seconda versione), così come è ricostruito dallo studioso.

Ben due contributi, di carattere esclusivamente testuale, frutto del lavoro di due distinte tesi di dottorato, sono dedicati a Dione Crisostomo da parte di due allievi del curatore del volume; due contributi non del tutto originali, ma per la maggior parte rivendicazioni (corroborate da ulteriori osservazioni) di vecchie ipotesi di studiosi ed editori dionei. Nel primo di Laura Baldi (‘Note critiche al testo della XXXVIII orazione di Dione Crisostomo’, 27-37) andrà preliminarmente segnalato3 che sono errate le datazioni del codice Urb. Gr. 124 = U (che risale al sec. X ex. e non all’XI) e del Laur. plut. 81, 2 = E (che rimonta al sec. XIVin. e non genericamente al sec. XIV); inoltre il Marc. Gr. 421 = T non è un testimone primario, ma piuttosto un apografo di U, variamente contaminato, in ogni caso corretto o copiato su un intermediario non pervenuto; la terza classe della tradizione è rappresentata anche dal Toledano 101, 16 (non solo dal Vat. Pal. 117 = P e dal Vat. Gr. 91 = ἠ, il quale, così come il Vindob. Palat. philos. Gr. 12, offre un evidente esempio di tradizione mista.

Ma, venendo alla sostanza del contributo, se è da condividere in linea teorica l’atteggiamento neo-storicistico dell’autrice, che difende di norma il testo tràdito contro alcuni inutili interventismi operati nei secoli scorsi, vari sono i dubbi che colpiscono le scelte testuali della studiosa. Mi limito ad avanzare solo un paio di dubbi. Non credo che la lezione ποιητῶν (38, 4) dei codici U e B (Paris. Gr. 2958) contro εἰσποιητῶν (correzione del Geel su εἰς ποιητῶν del Leid. B.P. Gr. 2c = M) sia da preferire, perché difficilior. L’osservazione che Dione non utilizza mai tale termine nei suoi scritti non è un argomento di per sé sufficiente per escludere una possibilità del genere. Un attento esame delle fonti mostra, invece, che la lezione ποιητός è facilior rispetto a εἰσποιητός. Ancora: non condivido la scelta di stampare a 38, 10 ἀπενοήθησαν della quasi totale tradizione contro ἐπενοήθησαν. Ἀπονοέομαι con l’infinito non è attestato in greco. Ἐπινοέομαι, invece, anche al passivo con significato attivo seguito dall’infinito, è attestato frequentemente nella lingua greca nel senso, adatto al nostro contesto, di ‘escogitare’.

Senza dubbio meglio organizzato è l’intervento di Guglielmo Caiazza (‘Alcune note critico-testuali al Troiano (or. XI) di Dione di Prusa’, 123-138), nel quale, tuttavia, si registrano le medesime confusioni per quanto riguarda la datazione dei codici U ed E, cui si aggiungono quelle che colpiscono il Vat. Gr. 99 = V (datato all’XI e non, com’è stato dimostrato, ai secc. ιχ il Marc. Gr. 422 = Y (di fine XIV-inizio XV sec. e non sec. χ il Vindob. Palat. philos. Gr. 109 (che risale al XV secolo e non al XIV). Manca del tutto sia un inquadramento della tradizione manoscritta così che il lettore non viene informato sulla bontà delle lezioni manoscritte o sull’autorità di un codice rispetto all’altro, o almeno un rinvio alla bibliografia recente.

Mi sembra questo un modo di far ricerca abbastanza curioso, per non dire poco scientifico. Anche nel contributo del Caiazza si possono, inoltre, avanzare proposte testuali decisamente contrarie a quelle difese dall’autore, che non sono assolutamente suffragate dalle osservazioni addotte nel corso dell’articolo oppure vengono presentate come nuove, ma in realtà già erano note. In particolare, segnalo l’infondata difesa di ἠγήσεσθε, evidente congettura tarda riportata dalla seconda mano di V e M, contro ἠγήσασθε della maggior parte dei manoscritti. Sia, infatti, che si intenda la frase in cui il verbo è inserito come protasi di un periodo ipotetico dell’oggettività o dell’irrealtà, l’aoristo non fa difficoltà. Io credo, però, che nel passo esaminato la protasi abbia addirittura un valore irreale, il che giustificherebbe ancora meglio l’uso dell’indicativo aoristo, anche alla luce del fatto che è ormai stato dimostrato che la norma che tende ad attribuire all’imperfetto un riferimento temporale al presente, all’aoristo un riferimento temporale al passato è erronea. Quanto, poi, alla proposta di integrare con ἔπρεπεν la presunta lacuna di 11, 30, è di sicuro meno economico di ἦν (nel senso qui chiarissimo di ‘era possibile’) costruito col dativo e l’infinito, il cui uso, che l’autore considera alieno alla lingua greca ovvero impiegato solo nella forma interrogativa, è attestato sia in prosa (Luc. 64, 17) che in poesia (Soph. Ph. 69).

Giovanni Cerri (‘Il frammento Lebedev di Senofane [Xenoph. Fr. 47 (” dubium“) G.-P. 2, 246]’, 177-186) analizza il fr. 27 G.-P 2 attribuito a Senofane da A.V. Lebedev, il quale al v. 1 aveva accolto una correzione introdotta per primo dal Lobeck ( θεοῦ invece di θεῶν della tradizione) per spiegare il pronome di terza persona singolare οἱ presente subito dopo. Era stato in seguito G. Giangrande a ripristinare la lezione θεῶν, argomentando che la forma οἱ può avere valore di plurale già nell’epica arcaica. Su tale strada, però, il frammento non andrebbe attribuito a Senofane perché in contraddizione con la dottrina monoteistica del filosofo di Colofone. Cerri, per parte sua, difende la lezione manoscritta e intende il pronome οἱ come singolare.

Il contributo di Gennaro D’Ippolito (‘Panteleo’, 227-245), oltre ad offrire un solida lezione di metodo di lettura intertestuale, dimostra in maniera significativa quanto difficile sia commentare gli autori di età imperiale che hanno dietro di sé una ricchissima tradizione di richiami letterari, non sempre facilmente rintracciabili. È il caso dei pochi frammenti del poeta epico Pantèleo, tramandati nell’ Anthologium di Stobeo (III 7, 63), per i quali D’Ippolito propone, sulla scia di Ernst Heitsch, il giusto accostamento al genere epico contro una tendenza generalizzante che li interpretava come versi di un epigramma. Contro Heitsch, tuttavia, D’Ippolito propone una nuova e convincente lettura del verso 7 ( ὣς al posto di ὡς; ῥίζαις della tradizione contro ῥιπαῖς, congettura del Bücheler): i versi costituiscono le parole di un guerriero persiano, che esprime paura e stupore di fronte al polemarco Callimaco, il quale, sebbene morto, non vuole cadere. Si tratta, forse, di un brano di un epillio storico avente come tema la battaglia di Maratona; nello specifico, l’encomio di due eroi di quella battaglia, Cinegiro e Callimaco. A difendere la ricostruzione stanno due intertesti: quello anteriore è rappresentato dall’epitafio per Callimaco del retore Polemone di Laodicea (B 60), quello posteriore dalle Dionisiache di Nonno (28, 118-157).

Di grande spessore culturale è anche il lavoro di Paolo Esposito (‘La ‘strana’ battaglia del finale della Tebaide‘, 265-278). Nel finale della Tebaide, in occasione della spedizione di Teseo a Tebe, presentando l’assalto come favorito oltre che dal favore umano e divino, anche dalla Natura (12, 642-648), mostra di sovvertire le regole del gioco classico, presentando uno scontro di tipo storiografico, in cui non c’è posto alcuno per l’incertezza e l’esito della battaglia è predeterminato fin dall’inizio, imitando in questo Lucano, il quale nella Farsalia (in part. 7, 485-533) non fa mistero di come, ad es., Cesare risulti sempre avvantaggiato e destinato a prevalere sull’antagonista.

Stimolanti per la storia della ricezione dell’antico sono, invece, i contributi di Francesca Longo Auricchio (‘I papiri ercolanesi nella stampa quotidiana inglese del primo Ottocento’, 355-369) e di Fabio Stock (‘G. Pasquali Marinelli (1793-1875) e le sue parafrasi bibliche in esametri latini’, 497-523). Nel primo, l’autrice, rievocando gli anni che vanno dal 1802 al 1806 e che videro il Reverendo John Hayter, Cappellano personale del Principe di Galles, protagonista indiscusso dell’attività di ricerca attivata nell’Officina dei Papiri nel Museo Reale di Portici, documenta la presenza e la diffusione sulla stampa inglese del primo ‘800 dei rinvenimenti ercolanesi. Il contributo di Stock si inserisce, al contrario, nel filone di studi che incentrano il loro interesse su personalità di spicco della poesia neolatina in Italia. La produzione di Giuseppe Pasquali Marinelli, impiegato nella segreteria del Camerlengato prima, Priore di Camerano poi e autore di una straordinaria produzione latina in versi, quasi tutta esametrica, comprende traduzioni, riadattamenti e poemi originali. Lo Stock sofferma la sua attenzione in particolare sulle parafrasi bibliche, in quanto esse, meglio forse che altre prove poetiche, “offrono un buon materiale per un sondaggio sulla tecnica poetica di Pasquali”.

Il volume è arricchito da numerosi altri interventi dei quali è opportuno dare breve indicazione al lettore. Se F. Ferrari indaga i motivi portanti del Liside di Platone in un notevole contributo (‘L’ οἰκεῖον dell’anima e la conoscenza filosofica: il motivo gnoseologico nel Liside‘, 279-288) letto e discusso nell’ambito del V Symposium Platonicum di Toronto. S.-T. Teodorsson (‘Anassagora e Plotino. Il problema della realtà ontologica delle cose sensibili’, 525-538) dimostra, contro le critiche aristoteliche e dei critici contemporanei, la non contraddittorietà, l’organicità e la coerenza speculativa della teoria anassagorea del Nous, accostandone il pensiero allo Stoicismo e all’ontologia di Plotino.

Contribuiscono, invece, in maniera quasi sempre convincente alla constitutio textus di testi greci il lavoro di G. Pace sul Reso pseudo-euripideo (‘Note critico-testuali al Reso‘, 453-461), relativo ai vv. 53-55; 126-127; 360-367; 551-553; 687; la nota pindarica di B. Gentili (‘Pi. N. 4, 64 Sn.-Maehl.’, 337-338); le note teatrali di Vittorio Citti (‘Due passi delle Coefore (283 φωνεῖ, 247 ἐπιρροθεῖ)’, 187-190), che difende la lezione tràdita contro le correzioni di Dorat ( ἐφώνει) e di Bourdelot ( ἐπερρόθει); di Franca Perusino (‘Melanione e il suo cane (Ar. Lys. 791)’, 479-483), la quale argomenta a favore della non espunzione del v. 791 della Lisistrata; e di Giuseppe Mastromarco (‘L’invasione dei Laconi e la morte di Cratino (Ar. Pax, 700-703)’, 395-403), per il quale l’invasione dei Laconi e la morte di Cratino di cui vi è menzione nei versi aristofanei in questione alluderebbe alla commedia omonima di Cratino.

Segue, poi, la lettura critico-testuale del Timone lucianeo a cura di M. García Valdés (‘Notas crítico-textuales a Timon o El Misántropo de Luciano’, 315-327); la nota di Rosa Giannattasio Andria (‘Nota a Plu. Oth. 6, 6′, 339-347), la quale difende, con argomenti cogenti, il σημείοις della tradizione; quella di Enrico Di Lorenzo (‘I cinque baci di Marziale. Nota a Mart. 10, 42’, 247-253), che, pur tra i vari refusi,4 si segnala per il tentativo di difendere la lezione quinque al v. 5 dell’epigramma di Marziale; l’esegesi favoriniana di A. Tepedino Guerra (‘Un probabile frammento di Alceo nel de exilio di Favorino ( Pap. Vat. Gr. 11, col. VIII 46-IX 1-16)’, 539-545); e, infine, l’articolo di M.D. Spadaro (‘Theophylactea: alcune osservazioni critico-testuali’, 485-496), la quale discute i seguenti passi di Teofilatto di Acrida: epist. 26. 215, 17-20 Gautier; or. 2, 157, 14ss. e 155, 2s.; or. 5, 235 Gautier.

Alla commedia sono dedicati i due lavori di A. Meriani, che, in vista dell’edizione di tutti i frammenti di Strattis, ne anticipa in questa sede il commento con un articolo (‘L’ Ἀνθρωπορέστης di Strattis (frr. 1-2; 63 [?] K.-A.), 405-428) in cui dà prova di grande perizia e profonda conoscenza dell’argomento, e di A. Martina, il quale offre un’interessante lettura relativa a ‘ μοιχεῖα e αὐτοέκδοσις nella Perikeiromene di Menandro’ (377-393). Il contributo di A. Garzya (‘Dall’inedito lessico greco-latino del College of Arms. Lettere ζ 329-336) continua, invece, la pubblicazione in proecdosi del lessico bilingue del codice Arundeliano 9 della ‘Library of the College of Arms or Herald’s College’ di Londra.

Di tenore storico-letterario sono, infine, i lavori di L. Belloni (‘Felice come un re (Hdt. 1, 32, 7-9)’, 59-66), una rilettura del noto epilogo del dialogo tra Creso e Solone; di G. Burzacchini (‘Temistio e la ‘porca beota’ (Corinn. Testim. 3 Crönert)’, 115-122) che, partendo dalla testimonianza di Temistio (II 157, 17-24 Schenkl-Downey-Norman), ripercorre le origini del proverbio Βοιωτία ὗς; di U. Criscuolo (‘Per una lettura delle Trachinie‘, 191-206), il contributo di M. De Los Angeles Durán López (‘Plutarco ante el hecho comunicativo’, 211-225).5

Seguono i lavori di Fr. Brenk (‘Social and unsocial memory: the liberation of Thebes in Plutarch’s The Daimonion of Sokrates‘, 97-113) e di A. Pérez Jiménes (‘Valores literarios del mito de Sila: anotaciones estilísticas a la antropología de Plu. De facie 943a-943b’, 463-478), lo studio di Esteban Calderón Dorda (‘Los τόποι eróticos en las Metamorfosis de Antonino Liberal’, 139-146), che individua i topoi erotici nelle Metamorfosi di Antonino Liberale, il quale rielabora le varianti di epoca ellenistica costituendo una miniera preziosa per indagare più approfonditamente le rivisitazioni e i riadattamenti fatti da autori successivi.

Da segnalare anche la breve nota di Luciano Canfora (‘Aristotele ‘fondatore’ della Biblioteca di Alessandria’, 167-175), in cui viene indagata la sorte del fondo librario di Aristotele, che in parte ispirò i sovrani tolemaici nell’assetto della Biblioteca di Alessandria; le riflessioni di M. Di Marco (‘Asclepiade, 1 e 2 G.-P. (= AP 5, 169; 5, 85)’, 255-264); di E. Flores (‘Il princeps o i principes rei publicae nel tardo pensiero politico ciceroniano’, 289-301); di A. Grilli (‘Verg., Georg. 2, 290-297′, 351-354), il quale dimostra come Virgilio si sforzi di dare tono epico alle Georgiche attraverso un accurato esame linguistico e testuale del passo dell’opera relativo all’ aesculus; di L. Nicastri (‘Autocoscienza poetica di Virgilio’, 429-451); di L. Torraca (‘Ischia nelle fonti letterarie greche e latine’, 547-559); e di P. Volpe Cacciatore (‘I carmi ‘autobiografici’ di Giovanni Mauropode’, 561-569).

Mi piace, infine, concludere, segnalando la pubblicazione postuma di tre brevi note di lettura di Marcello Gigante su ‘Un falsa attribuzione a Epicuro’ (349-350), in cui l’autore polemizza con T. Dorandi per aver accolto come sicuramente epicureo il frustulo conservato in PGrenfell II 7 a (= inv. 692); di Enzo Degani (‘Tre note alle Vitae di Esopo’, 207-209), che difende, in maniera convincente, il testo di Vit. Aesop. G. 14, 1s. e G. 63, 5s. Papathomopoulos, proponendo, al contempo, una personale esegesi del c. 75 nella recensio W, e di Scevola Mariotti (‘Sull’iscrizione metrica latina della Fontana Maggiore di Perugia’, 371-376), che contribuisce alla lettura dell’iscrizione metrica latina della Fontana Maggiore di Perugia del 1278.

Notes

1. La memoria di U. Criscuolo è datata ‘Giugno 1997’, mentre il lavoro su Senofane di G. Cerri è apparso nel frattempo, col medesimo titolo, in QUCC n.s. 69, 3 (2001). la nota di L. Canfora si legge in QS 50 (1999); il contributo, infine, di S.-T. Teodorsson si trova pubblicato in lingua spagnola in CFC 9 (2000).

2. Vi è alternanza tra cf./cfr.; i nomi degli autori antichi sono talora seguiti dalla virgola, talora no; la medesima difformità si nota nel caso dei luoghi e delle date di edizione.

3. I dati che seguono sono estremamente gravi per una studiosa della tradizione manoscritta di Dione, anche e soprattutto alla luce dei nuovi studi sulla Textüberlieferung dionea. La Baldi, che richiama i recenti lavori di M. Menchelli (1999), Dione di Prusa, Caridemo (Or. XXX), Napoli e di A. Verrengia (1999), Dione di Prusa, In Atene, sull’esilio (or. XIII), Napoli, da dove avrebbe dovuto apprendere notizie più precise rispetto a quelle riportate, trascura E. Amato (1999), Alle origini del ‘corpus Dioneum’: per un riesame della tradizione manoscritta di Dione di Prusa attraverso le orazioni di Favorino, Salerno, dove viene offerto un quadro completo della tradizione manoscritta dionea e noto presumibilmente all’autrice, visto che ad esso sono dedicate alcune pagine del volume di Verrengia (171-173), che Baldi dichiara di aver letto, e di esso una chiara ed attenta recensione è stata data da S. Ferrando (2001) Maia n.s. 53, 2, 488-491. Quanto, poi, al valore dei ‘Prolegomeni’ (93-135) della Menchelli, che la Baldi definisce “accurati e precisi”, mi permetto di rinviare ad E. Amato (2000), ‘Il futuro di Dione Crisostomo: in margine ad una recente edizione’ in E. A., A. Capo e D. Viscido (edd.), Weimar, cit., 277-307, dove apporto numerose rettifiche e correzioni allo studio della Menchelli e chiarisco la precarietà di alcune osservazioni del Verrengia, scientemente taciuto dalla studiosa, visto che ne avevo discusso in una pubblica lezione durante un corso di formazione professionale, cui la Baldi era tenuta ad assistere.

4. L’esponente 4 segnato al primo verso dell’epigramma di Antifilo riportato a p. 248 (per inciso l’indicazione AP 252 è insufficiente) è privo di rimando.

5. Segnalo per il lettore che la nota 13 di p. 212 continua, per un errore di impaginazione, a p. 215, anziché a p. 214.