L’importante volume di Rosalba Arcuri si inserisce nella ormai ricca corrente di studi che, a partire soprattutto dal libro di Bryan Ward-Perkins, The Fall of Rome and the End of Civilization (2005), ha inteso reagire a quel revisionismo storiografico sulla Tarda Antichità orientato ad attutire ogni discontinuità, fino a rendere irrilevanti e impercettibili i segnali della crisi. Arcuri torna qui invece a ragionare su alcuni concetti chiave: quello di crisi, appunto, ma soprattutto sul concetto di confine, tema intorno al quale si sviluppa gran parte delle argomentazioni proposte in questo libro. Come dichiarato nelle pagine introduttive, uno degli obiettivi principali di questa ricerca è di dimostrare il ruolo centrale che la frontiera ha giocato – sia sul piano politico e territoriale quanto su quello simbolico e culturale – nel periodo tardoantico, in opposizione netta rispetto alle recenti tendenze che hanno sostenuto la sostanziale permeabilità del limes e la limitata rilevanza dei confini politici e amministrativi per i Romani del tardo impero. Oltre a separare sistemi politici ed economici dalle fisionomie ben distinte, il confine tra impero e Barbaricum rappresentava una «liminarità in grado di innescare trasformazioni» (p. 12), specialmente in quelle popolazioni che, per motivi differenti, furono spinte a entrare in contatto diretto con il limes e, in casi estremi, a oltrepassarlo. Molte delle trasformazioni economiche, politiche, sociali e religiose che interessarono i principali gruppi barbarici nel IV e V secolo furono infatti rese possibili dalla prolungata interazione con l’impero lungo le sue ininterrotte linee di frontiera.
Il libro si articola in due parti: la prima, intitolata “Lo spazio e l’economia: storie di una liminarità condivisa”, comprende due capitoli; la seconda, “Tradizioni e forme di potere”, è suddivisa in quattro capitoli.
Nel primo capitolo, “Il Reno e il Danubio: simbolo e realtà”, l’autrice si dedica a un esame ravvicinato del lunghissimo limes rappresentato dai due fiumi che per secoli costituirono la linea di demarcazione tra mondi contrapposti. Come osserva Arcuri, che rinvia a importanti studi antropologici, tracciare il confine può essere considerato l’atto fondativo di una civiltà, poiché attraverso di esso è separato lo spazio antropizzato e lo spazio selvaggio, la cultura dalla natura. Inoltre, «delimitare un confine significa anche fornire all’altro che resta al di fuori di esso un simbolo visivo e tangibile del proprio potere» (p. 23). Nel corso del IV secolo, gli eventi descritti dai Panegyrici Latini e, soprattutto, da Ammiano Marcellino per quanto riguarda il limes renano e danubiano, mostrano l’esistenza di veri confini, tutt’altro che permeabili: le azioni militari e le opere edilizie intraprese dagli imperatori miravano con ogni evidenza a un rafforzamento della linea di difesa contro i barbari circumlatrantes, essendo la protezione dei confini uno dei compiti imprescindibili del sovrano. L’incontro nel 369 tra Valente e Atanarico, iudex dei Goti Tervingi, a bordo di alcune navi nelle acque del Danubio, e quello tra Valentiniano e il re alamannico Macriano nel 374 sulla sponda del Reno, dimostrano che anche i barbari interpretavano in modo analogo la propria sovranità sul loro territorio, un controllo che era parte integrante della loro identità.
Si rimane nei pressi della frontiera anche nel secondo capitolo, “Culture, poteri ed economie”, nel quale è affrontato il tema della relazione tra attività economiche e nascita delle gerarchie politiche e sociali, anche con riferimento ai contributi delle teorie neomarxiste. Secondo tali teorie, nelle società pre-capitalistiche, caratterizzate da un sistema di produzione basato sul controllo delle persone piuttosto che su quello della proprietà, tenderebbero a imporsi forme autoritarie di poteri individuali attraverso l’accumulo e la mirata redistribuzione della ricchezza. Applicando tale lettura al mondo antico, è possibile osservare come il miglioramento delle tecniche agricole, l’intensificarsi del commercio con l’impero e l’elargizione di donativi a capi e re barbari per mantenere la pace ai confini, abbiano contribuito alla creazione di società barbariche più complesse, non troppo diverse da quella romana, e alla loro evoluzione in senso autoritario. Singoli capi furono in grado di raccogliere intorno a sé bande di guerrieri sempre più numerose, fino a costituire vaste aggregazioni, veri e propri popoli nuovi. Anche le tribù nomadiche, in primis gli Unni, si giovarono del rapporto con l’impero, tramite la riscossione di donativi – che si trasformarono a un certo punto in forme di tributo istituzionalizzato –, il commercio e le razzie periodiche, con cui potevano integrare la propria economia ma, soprattutto, sostenere la pratica del dono, essenziale per garantire la coesione del gruppo. Il mondo romano, riassume Arcuri, ebbe dunque un ruolo propulsivo e rappresentò «una sorta di motore economico dell’antichità» (p. 64).
Con il capitolo “Tradizioni indoeuropee e funzioni della regalità” si apre la seconda parte del volume. Anche attraverso un uso accorto della linguistica indoeuropea, l’autrice richiama anzitutto l’attenzione sulla funzione originaria della carica regale, legata più alla sfera della religione e del diritto che non a quella del comando tout court: il termine iudices, con cui nelle fonti sono definiti alcuni capi barbari, rimanda evidentemente a questa funzione a un tempo giuridica e sacrale. Tuttavia, nell’Età delle Migrazioni, coloro che Tacito designava come duces si fecero promotori di un diverso concetto di regalità: «[s]i passò così da un re a capo di vecchie entità tribali […] ad un leader […] a capo di un esercito tribale “di successo”, […] fondatore di una nuova famiglia reale e di un nuovo gruppo» (pp. 97-98). L’emergere di questa nuova regalità guerriera accanto a quella del comitatus militare a essa associato (Gefolgschaft) si può osservare tra l’altro nell’apparizione, a partire dal III secolo, di sepolture a inumazione provviste di ricchi corredi. Talvolta il potere era suddiviso tra più membri della stessa famiglia, spesso tra due fratelli, entrambi detentori dello Heill, il che parrebbe riflettere una diarchia antica, ben attestata nella tradizione indoeuropea, con la presenza di un re-sacerdote incaricato a vita e un re-guerriero temporaneo.
Il tema viene ulteriormente sviluppato nel capitolo intitolato “Reges, regales e optimates sul Reno”, nel quale Arcuri analizza nel dettaglio le principali figure regali a capo dei gruppi barbarici presenti sul limes renano. Le informazioni ricavabili dalle fonti scritte e materiali consentono di affermare che tra IV e V secolo – periodo caratterizzato da un’accentuata conflittualità nelle terre di confine – capi guerrieri generalmente definiti reges consolidarono il proprio potere al vertice di gerarchie essenzialmente militari. Per quanto riguarda gli Alamanni, è interessante osservare come questa federazione tribale, in cui una pluralità di re era a capo di diverse gentes, sembri rientrare nella tipologia definita dagli antropologi delle chiefdom societies, caratterizzate da una sviluppata stratificazione sociale, con al vertice un’élite dominata da un capo con funzioni politiche e religiose. Le fonti riferiscono spesso di coppie di reges fratres (come Gundomado e Vadomario, Macriano e Ariobaudo), sebbene non si possa parlare di una vera e propria forma di diarchia, poiché ciascuno esercitava il proprio potere su territori distinti. Le strutture di potere dei Burgundi rifletterebbero invece la duplice regalità tribale dei Germani, con un re-sacerdote (Sinistus) con incarico a vita, e la figura dell’Hendinos, il re-guerriero, anch’egli mediatore tra la terra e il cielo. Per quanto riguarda i Franchi, particolarmente intraprendenti nei saccheggi e nelle incursioni, anche nel loro caso sembra si possa parlare di veri e propri re-guerrieri. La capacità dei re burgundi e franchi del V secolo di ottenere il riconoscimento di un ruolo di amministratori di intere regioni al servizio nominale dell’impero, senza per questo dismettere la propria originaria sovranità (emblematico è il caso di Childerico), potrebbe spiegare il successo nella fondazione di entità politiche autonome; al contrario, l’isolamento degli Alamanni ebbe come inevitabile conseguenza l’irrilevanza politica.
Nel terzo capitolo della seconda parte, “I Goti e la crudeltà del confine”, l’attenzione si sposta sul limes danubiano. Rispetto ad altri gruppi barbarici – come gli Alamanni, ad esempio – l’organizzazione politica e sociale dei Goti Tervingi e Greutungi appare contraddistinta da un maggiore accentramento di potere: è qui attestata, infatti, la presenza di capi sovratribali (detti iudices, nel caso dei Goti Tervingi), il che consente di definire quello dei Goti come un chiefdom complesso, a metà tra le società tribali e le prime forme di organizzazione statale. Sono attestati in quest’area anche casi di dinastie reali, come i Balti e gli Amali, tra le quali veniva scelto il re, la cui carica era probabilmente vitalizia e a cui erano affidate funzioni magico-sacrali e giuridiche, secondo la tradizione indoeuropea (come dimostrano i casi di Atanarico ed Ermanarico). Il rapporto conflittuale con l’impero, e soprattutto il trauma dell’invasione unnica, piegarono questo tipo di regalità in una direzione decisamente militare, fino alla soluzione del tutto nuova personificata da Alarico, che fu capo indiscusso del proprio ethnos e, per la prima volta, generale di un esercito romano regolare, il che gli permise di accrescere enormemente il suo prestigio. La fondazione di una vera e propria linea dinastica visigota si ebbe, tuttavia, solo dopo lo stanziamento in Gallia, con Teoderico I. Come nota Arcuri, «l’impressione generale che si ricava è che da due esperienza traumatiche correlate – la migrazione e la guerra – l’istituto della monarchia ne sia uscito rafforzato» (p. 201).
L’ultimo capitolo del volume, “Culture nomadiche e forme di potere” si concentra sugli altri protagonisti dell’Età delle Migrazioni, i popoli nomadici provenienti dalle steppe eurasiatiche. A differenza dei Sarmati, stanziati in piccole guarnigioni tra la Gallia e l’Italia al comando di praefecti, gli Alani che sul finire del 406 attraversarono il confine renano erano comunità dotate di un potere monarchico istituzionalizzato – seppure in un contesto non ereditario – per l’emergere del quale, a partire dai precedenti capiclan tribali, furono decisive ancora una volta la guerra e le migrazioni. Gli Unni, invece, inizialmente privi di una monarchia stabile, si affidavano in tempo di guerra a capi militari che potevano consolidare il proprio potere attraverso le vittorie. Con Rua, tuttavia, gli Unni compiono un passo importante verso la centralizzazione del potere monarchico, probabilmente influenzati dal modello imperiale romano. Il consolidamento dinastico si rafforza con i nipoti di Rua, Attila e Bleda, un passaggio di potere che testimonia la trasformazione della società unna. Il cambiamento tuttavia si arresterà dopo la sconfitta nella battaglia del fiume Nedao, quando i successori di Attila, incapaci di garantire continuità di successi e ricchezze, subiscono la disgregazione del loro potere, mettendo con ciò in luce la fragilità delle strutture monarchiche nei contesti nomadici.
Non è qui ovviamente possibile proporre una discussione esaustiva del gran numero di argomenti affrontati in questo volume, che offre un quadro estremamente ampio dell’Età delle Migrazioni nei suoi molteplici aspetti, attingendo a una ricchissima bibliografia e incorporando i risultati delle più recenti scoperte archeologiche compiute in ambito europeo e asiatico. Basti sottolineare uno degli aspetti più interessanti e innovativi di questo lavoro di Arcuri, cioè la reinterpretazione di numerose fonti scritte e materiali riguardanti le strutture di comando delle gentes barbariche nel periodo tardoantico alla luce delle ricerche antropologiche ed etnografiche. Questo approccio permette di proporre una ricostruzione dettagliata e originale dei meccanismi – in primis economici e sociali – che concorsero alla formazione di strutture politiche via via più complesse nel corso del IV e del V secolo, e all’evoluzione della figura regale da dignità sacrale e giuridica a potere precipuamente militare. Questa trasformazione, e altri significativi cambiamenti che avvennero al di là del limes, furono certamente innescati dal contatto prolungato con l’impero, centro di un “sistema-mondo” capace di esercitare un’influenza fortissima sulla periferia barbarica. Da questo punto di vista, l’analisi antropologica della categoria di confine appare particolarmente utile, in quanto è nella dialettica instaurata lungo questa linea di demarcazione che furono rinegoziate, nel corso di guerre e migrazioni, le strutture tradizionali delle società barbariche. Senza l’intervento degli Unni, Arcuri ipotizza, «l’equilibrio politico e militare che l’Impero era riuscito a mantenere sul limes per secoli» sarebbe probabilmente durato più a lungo (p. 252). Tuttavia, a riprova del potere attrattivo e trasformativo della frontiera, anche gli Unni finirono per assorbire i modelli di potere stabiliti da Roma. Una nuova comprensione del confine e delle molteplici dinamiche a esso associate è uno dei risultati principali di questo volume, che rappresenta un contributo significativo alla comprensione della società e dell’economia del Barbaricum nella Tarda Antichità.