Questo importante volume contiene una nuova edizione critica di un testo spesso lasciato ai margini della storia degli studi sul corpus di Platone e del platonismo nell’antichità. La ‘Premessa’ che accoglie il lettore – dopo una prefazione di Tiziano Dorandi, i ringraziamenti e il sommario – e che costituisce una vera e propria introduzione generale allo studio, offre un resoconto di tale marginalità e della conseguente povertà bibliografica, per poi, con tratto sicuro, riscattare l’interesse storico e filosofico dell’opera, presentando insieme le grandi linee dell’approccio adottato dall’editore e commentatore.
Edoardo Benati non è inesperto dei problemi che circondano i cosiddetti Pseudoplatonica, come mostrano i suoi lavori sul Minosse. Il suo libro sugli Horoi si inserisce in un contesto più ampio di rivalutazione dei testi ‘minori’ trasmessi dall’antichità intorno al nome di Platone, tanto quanto i recenti e recentissimi libri sull’Alcibiade secondo, sull’Assioco e, se mi è concesso, sull’Erissia[1]. Tuttavia, la specificità degli Horoi ne fa un testo del tutto singolare, unico nel corpus. Come Benati sottolinea nel primo capitolo della sua introduzione, ciò che distingue gli Horoi dal resto dei materiali ‘spuri’ trasmessi dalla tradizione medievale è la forma letteraria, anomala anche rispetto all’Appendix, nonché la scarsità di notizie sull’ingresso nel ‘canone’ del corpus, pur nella sua forma allargata. Gli Horoi non trovano infatti spazio nella monumentale opera di sistemazione tetralogica descritta da Trasillo in Diogene Laerzio (III 56-62), e non sono menzionati nel gruppo delle opere inautentiche (III 62). La conclusione di Benati è ragionevole: né Trasillo, né tanto meno Aristofane di Bisanzio, che aveva classificato parte dei dialoghi in trilogie, possono dirci qualcosa sulla datazione di quest’opera. Non è da escludere che, ai tempi di Trasillo – a supporre che esistesse già – non fosse ancora entrata nel corpus, ciò che invece è già accaduto all’epoca dei Prolegomena alessandrini di sesto secolo e che spiega, oltre alla situazione nei codici bizantini, la tradizione indiretta dell’opera, a partire dallo Pseudo-Ammonio, terminus ante quem tanto per i nostri Horoi che per la loro attribuzione a Platone.
Nel quadro dei più recenti studi complessivi sul gruppo degli spuri, la tendenza della critica è stata quella di immaginare un ingresso degli Horoi in parallelo a quello dei dialoghi dell’Appendix, e quindi di situare – nonostante il silenzio di Trasillo – questo testo nel quadro dell’attività dell’Accademia antica, a monte della preparazione della cosiddetta ‘edizione accademica’ del corpus. Tale prospettiva si innesta con naturalezza nel panorama degli studi sul contenuto filosofico del testo, che, almeno a partire dalla messa a punto di Ingenkamp[2], difendono l’esistenza di un ‘nucleo’ antico-accademico fondamentale. Questa ricostruzione è messa in discussione da Benati, con intuizione a mio avviso corretta.
I problemi della composizione e dell’ingresso nel corpus appaiono intrecciati, ma diversi, come vede bene Benati, che comincia già nel primo capitolo la pars destruens della sua dimostrazione, fondata sul confronto serrato tra gli Horoi e i frammenti a nostra disposizione per i primi scolarchi dell’Accademia dopo la morte di Platone. In una prima fase, lo sguardo porta su Polemone e su Senocrate, lasciando da parte Speusippo, cui è dedicato l’intero capitolo II, anche in virtù del fatto che un’opera dal nome Horoi era attribuita, per Diogene Laerzio (IV 5), a questo filosofo. Per Polemone, la disarmonia si gioca sul terreno di una questione cruciale: l’εὐδαιμονία. Benati prova che gli Horoi, con la loro concezione di εὐδαιμονία inclusiva dei beni inferiori, non si conciliano con la posizione attestata per lo scolarca, che, pur non ricusando ai beni inferiori un valore, considerava la virtù tanto necessaria quanto sufficiente per l’εὐδαιμονία (fr. 123 Gigante). L’esame dei paralleli tra le definizioni e i frammenti di Senocrate non offre un esito più confortante: i punti di contatto non sono meno sporadici e aleatori, e le distanze si mostrano ancora notevoli.
Prima di passare all’indagine su Speusippo, l’autore presenta la struttura degli Horoi, individuando un nucleo principale che mostra una coerenza con una ripartizione della filosofia in fisica, etica e logica (411a1-414e5), ordine noto in età imperiale (menzionato da Alcinoo, H 153, 25-30, che tuttavia segue per il Didaskalikos un ordine diverso: logica, fisica, etica) e una coda di contenuto misto (414e6-416a35). Queste due sezioni appaiono tuttavia organiche e coerenti, tanto che la loro sistemazione reciproca sembra frutto di un momento unico di ‘composizione’ dell’opera. Fattori di omogeneità sono riconosciuti a livello strutturale, contenutistico e linguistico (allo stile asciutto degli Horoi e alla sua generale uniformità è dedicato il cap. IV), e un argomento importante si fonda sulle vicinanze tra gli Horoi e le definizioni interpolate in alcuni dei Caratteri di Teofrasto. Benati prudentemente non avanza ipotesi sulla direzione dell’influenza, ma sembra di intuire che la sua posizione sia improntata a leggere le definizioni dei Caratteri come derivate dall’integrazione di elementi provenienti dagli Horoi.
Il capitolo II si apre con un vero e proprio studio monografico (pp. 41-63) sul ruolo della diairesis nel metodo filosofico di Speusippo, soggetto la cui complessità non può essere qui riassunta in modo agile, ma che Benati tratta con competenza, per poi passare al confronto con le definizioni degli Horoi (pp. 63-68). L’ipotesi di una coincidenza metodologica tra questo testo e la prassi dieretica dell’Accademia sotto Speusippo è fatta cadere, oltre che attraverso la sottolineatura di divergenze dottrinali, sulla base del fatto che la diairesis negli Horoi è marginale e, quando compare, si riallaccia direttamente ai dialoghi di Platone.
Il terzo capitolo costituisce, invece, la pars construens, con l’attribuzione degli Horoi a una corrente medio-platonica dogmatica e influenzata da Aristotele. L’argomentazione, sempre convincente, attraversa con ritmo incalzante problemi complessi. La sezione prende le mosse dalla definizione di ὅρος (414d10) e dalle sue consonanze con Metafisica Z 12, rintracciando una compatibilità con la ricostruzione del metodo definitorio di alcuni filosofi di età medioplatonica, sulla base del Didaskalikos di Alcinoo e dell’anonimo Commento al Teeteto di PBerol inv. 9782. Di origine medioplatonica sembrano anche le considerazioni epistemologiche – ad esempio l’identificazione della νόησις quale principio di conoscenza (e non quale suo ‘grado’ come nella linea di Repubblica VI), la polarizzazione tra νόησις e αἴσθησις, o ancora la definizione di μνήμη (414a8-9), che testimonia una presenza importante della teoria della conoscenza prenatale, con forti consonanze in Alcinoo. Il problema del supposto ‘eclettismo’ degli Horoi, sollevato da Souilhé[3], è affrontato alla fine del capitolo.
La seconda parte dell’introduzione (capitoli V-XII) è dedicata alla trasmissione del testo e alla discussione dei fondamenti dell’edizione. Come per la maggior parte degli spuria, gli Horoi si leggevano ancora nelle edizioni di Burnet (19142) e di Souilhé (1930), fondate su ricostruzioni erronee. Benati mette ordine tra i testimoni primari, difendendo l’indipendenza del Parisinus graecus 1813 (G), già sostenuta per altri dialoghi. Al contrario, il Palatinus graecus 173 (P), celebre codice di excerpta considerato indipendente per altri dialoghi, deriva dal Vaticanus graecus 1 (O). Gli unici testimoni primari saranno quindi il Parisinus graecus 1807 (A) e il Parisinus graecus 1813 (G), ma l’editore deve prestare attenzione alla mano attiva su A e su O, siglata A3/O3, portatrice, tramite preziosi marginalia, di buona tradizione, talora vicina a G (e.g. 412c1-2, 416a28-29).
Gli apografi sono sistemati nello stemma sulla base di risultati documentati, con qualche sorpresa interessante, come il contatto del Marcianus graecus 186, la ‘copia di lavoro’ del Bessarione, con la linea di G (p. 149, n. 235: la mano che verga la nota supra lineam γρ. ἀληθής al f. 381v, forse Bessarione stesso). Si noti che il testo degli Horoi sul Marcianus è copia, secondo Benati, del Laurentianus Conventi Soppressi 180 (o), dipendenza già sostenuta da Schanz per il vicino Eutidemo (ff. 367v-379v) ma non estendibile agli altri dialoghi copiati dal cosiddetto ‘scriba d’ come hanno mostrato gli studi di Carlini, Joyal e Martinelli Tempesta su Anterastai, Teage e Liside. La pluralità di fonti del Marcianus graecus 186 è importante alla luce del fatto che fu tra i modelli testuali dell’Aldina, influenzando così la trasmissione a stampa del testo di Platone per secoli.
Segue nel volume l’edizione del testo degli Horoi, con ricco apparato dei testimonia e apparato critico equilibrato. Pur a prezzo di una lieve ricaduta sulla mise en page, si presenta qui la traduzione a fronte e non, come in altri volumi della collana, in una sezione successiva: l’utilità di questa sistemazione è indubbia e la scelta sembra ben meditata per un’opera come gli Horoi, che difficilmente si leggerà dall’inizio alla fine. Il testo, non radicalmente diverso da quello di Burnet e Souilhé, se ne distacca tuttavia in diversi punti, grazie anche alla nuova collazione di G. Benati fa un uso sapiente della tradizione indiretta, nonché delle edizioni e degli interventi sul testo dei suoi predecessori, seguendo Musuro (413b6), Hermann (414c5), Apelt (412b1), Richards (412d4), Hutchinson (413c4-6). Non esita del resto a esporsi, sia pure con moderazione e giusta cautela: la congettura τοῦ <δια>λεγομένου per τοῦ λεγομένου (414a4) insiste sulla dimensione dialogica dell’εὐπορία in Platone, correggendo un testo perspicuo («limpidezza che domina ciò di cui si parla»), ma più banale. La forma della definizione di ἥλιος mette ordine nel caos dei manoscritti: la stringa ἄστρον ἡμεροφανές, τὸ μέγιστον (411b2) precisa una definizione criticata da Aristotele.
Difficile dare conto, nei limiti di una recensione, della ricchezza del commento, che occupa quasi un terzo dell’intero volume (pp. 199-303), toccando in maniera sempre competente questioni di dettaglio tanto di interpretazione filosofica che di critica testuale.
L’ipotesi di fondo di Benati nell’interpretazione degli Horoi può apparire audace. La volontà di attribuire un’opera che l’editore stesso definisce «un testo scolastico» (p. 34) a un progetto unitario e storicamente individuabile potrebbe sorprendere. Tuttavia, nel caso degli Horoi, la tradizione attesta una tendenziale stabilità testuale e l’articolazione interna mostra una coesione forte, due argomenti che vanno a rafforzare l’approccio che Benati propone, peraltro non senza sottigliezza: non si tratta qui di escludere totalmente la possibilità di piccole aggiunte o lievi alterazioni nel corso del tempo, ma di mostrare che queste – quando e se ci furono – restano assai limitate nell’economia generale della raccolta e non autorizzano a invocare il fenomeno per dar conto delle apparenti difficoltà del testo, né a immaginarlo nel suo insieme come poco più di una giustapposizione di materiali di provenienza varia e colore dottrinale sbiadito. Dal punto di vista ermeneutico, un simile sguardo comporta una forte carica di positività, che si oppone agli eccessi di scetticismo che talora hanno caratterizzato – pur nascendo spesso da ragionevoli scrupoli di prudenza – lo studio su questi testi ‘minori’. La novità che deriva da questa interpretazione è evidente in tutto il volume: gli Horoi vi sono trattati come un testo di filosofia tout court e non come un puro terreno di scavo per la Quellenforschung o una raccolta ‘dossografica’ di opinioni da rivendicare a questo o quel filosofo, a questa o quella scuola.
Ciò detto, quale che sia la posizione dei lettori sui complessi problemi relativi alla genesi e alla trasmissione di un’opera come gli Horoi, il volume di Benati offrirà spunti preziosi, indagini mirate e solide, talora piccole sfide. Chi scrive ritiene che queste pagine saranno decisive non solo per una fruizione più consapevole degli Horoi – spesso saccheggiati in maniera arbitraria per questa o quella stringa definitoria – ma anche, più in generale, per la discussione sui testi che la tradizione ha, fortuitamente e fortunatamente, preservato del patrimonio della letteratura filosofica ‘di scuola’ dell’antichità.
Notes
[1] Cf. Harold Tarrant, The Second Alcibiades: a Platonist dialogue on prayer and on ignorance (Las Vegas 2023); Andrea Beghini, [Platone], Assioco (Baden-Baden 2020); Marco Donato, [Platone], Erissia (Baden-Baden 2023).
[2] Heinz G. Ingenkamp, Untersuchungen zu den Pseudoplatonischen Definitionen (Wiesbaden 1967).
[3] Joseph Souilhé (ed.), Platon. Œuvres complètes, t. XIII, 3e partie, Dialogues apocryphes (Paris 1930) : per Souilhé sono ‘eclettici’ anche l’Erissia e l’Assioco.