Nel 1900 Hans Delbrück, uno dei fondatori della storia militare scientifica, auspicava la realizzazione di uno studio sistematico della storia della cavalleria antica, intuendone uno sviluppo organico delle evoluzioni tattiche – al pari di quello che aveva interessato la fanteria[1] – e superando, nel riconoscimento della sua importanza, circa quattro secoli di visioni negative o svalutative, che l’avevano confinata a una posizione subalterna rispetto alle truppe appiedate.
Oltre cento anni dopo la pubblicazione del saggio di Delbrück, si può affermare che il pregiudizio sul ruolo e sui limiti tecnici del combattimento di cavalleria nel mondo classico è stato definitivamente superato, nell’ambito di una notevole fioritura – osservabile soprattutto nell’ultimo ventennio – degli studi sulla polemologia antica, ove il cavalry warfare e l’arte equestre in generale sembrano richiamare i più eterogenei interessi, anche al di fuori del mondo accademico[2]. Il desideratum di Delbrück sembra però avere trovato una prima vera realizzazione – almeno per la parte romana – grazie a Maxime Petitjean, il quale condensa e approfondisce i frutti di anni di studi sull’argomento[3] in questa monografia: essa si pone come obiettivo dichiarato quello di indagare il ruolo e la posizione della cavalleria nel mondo romano attraverso un’analisi dei parametri relativi al suo impiego (armamento, tattica, strategia, operazioni, strutture sociali, presupposti culturali), e inserendo tale indagine diacronica nel più ampio contesto dell’evoluzione della società e della cultura militare romana.
La trattazione chiara, metodologicamente analitica e rigorosa appare preannunciata dalla regolarissima articolazione, illustrata nell’Indice, di questo ampio saggio. Quattro sono le sezioni principali, disposte cronologicamente, dall’età tardo-repubblicana a quella proto-bizantina, passando attraverso gli snodi dell’alto impero e delle trasformazioni intervenute fra III e IV secolo. Ciascuna sezione annovera tre macro-capitoli e ulteriori sottocapitoli, con una conclusione finale. Al termine della trattazione è altresì posta una utile conclusione generale.
Nella prima parte (La cavalerie, la cité et l’empire à la fin de l’époque républicaine) si affronta l’evoluzione della cavalleria in età repubblicana: essa dimostra di avere un ruolo decisivo nell’apparato militare soprattutto verso la fine del periodo, con l’accrescimento dell’importanza della cavalleria ausiliaria a scapito di quella censitaria. Gli aspetti tattici più rilevanti sono invece l’uso di forze combinate di fanteria e di cavalleria, e il ricorso a queste ultime per condurre azioni di guerriglia, che si intensificheranno nei secoli seguenti contro le pressioni delle popolazioni esterne sul limes.
La seconda parte (Cavaliers et combat de cavalerie sous le Haut-Empire romain (Ier-IIe s. ap. J.-C.)) si incentra sulle modalità di costituzione e gli impieghi tattico-strategici di una cavalleria permanente e multietnica nei primi due secoli dell’impero, mentre la terza (Crises et transitions (IIIe-IVe s. ap. J.-C.)) indaga i cambiamenti occorsi in età tetrarchica e post-tetrarchica: essi risiedono non tanto in un aumento del numero degli effettivi (la cui consistenza precisa è comunque ardua da accertare), quanto piuttosto nella riorganizzazione delle truppe montate (anche in termini di nomenclatura), che va di pari passo con la necessità di adattamento e rafforzamento della difesa “in profondità” delle frontiere.
L’impiego sempre più offensivo della cavalleria è un ulteriore aspetto emergente nel Basso Impero che troverà pieno compimento tra i grandi rinnovamenti dell’età “aurea” della cavalleria, quella proto-bizantina, cui è dedicata la quarta e ultima sezione (L’âge d’or de la cavalerie (Ve-VIe s. ap. J.-C.)). A contraddistinguerla è l’affermazione di una vera e propria civiltà militare equestre, di cui sono indice e supporto la diffusione di nuovi strumenti ippici (come la staffa e il morso ad aghi) e di manuali tecnici, una nuova attenzione agli aspetti morali e psicologici della guerra, nonché una rinnovata “omerizzazione” del cavaliere, cioè la ripresa (o la tolleranza) del combattimento eroico individuale.
L’impianto del saggio – la cui precedente sintesi necessariamente semplifica la densa articolazione tematica – è consono al suo andamento argomentativo: la tesi di fondo viene solitamente esposta nel breve macro-capitolo, che funge quasi da intestazione per l’esposizione del tema, mentre i sotto-capitoli contengono le argomentazioni specifiche. Ad esempio, il primo capitolo della prima parte (Les equites Romani et la militia equestris) muove dalla confutazione della tesi secondo cui una scarsa menzione della cavalleria cittadina nel I secolo a.C. è segno del declino del servizio militare prestato dalle centurie equestri, e prospetta la disamina delle tappe evolutive dell’ordo equester in età repubblicana, puntualmente affrontate nei due sotto-capitoli successivi. Ancora, nel primo capitolo della seconda parte (La construction d’une cavalerie permanente et multiéthnique) si afferma che in età imperiale la cavalleria diventa professionale e permanente, e si consuma una separazione fra società civile ed esercito; i due successivi sotto-capitoli affrontano così il ruolo dell’equitatus nell’alto impero e l’incorporamento delle risorse ausiliarie e provinciali. Nelle conclusioni, si osserva come l’autore tendenzialmente rifugga da asserzioni apodittiche su temi complessi, preferendo bilanci più sfumati, meditati e analitici[4]; ciò va letto non come incertezza o remora nel prendere posizioni nette (dalle quali peraltro l’autore non rifugge), ma probabilmente come consapevolezza che le soluzioni trancianti spesso escludono e semplificano, e quindi potenzialmente minano, anche sul piano metodologico, la profondità e la complessità di indagine.
Che queste ultime siano caratteristiche che Petitjean non teme di affrontare nel suo lavoro è provato dal fatto che egli volentieri esamina questioni problematiche, motivando il suo orientamento rispetto a esse, o mette in discussione prospettive consolidate. Un esempio delle prime si rintraccia nel Capitolo 2 della Seconda Parte, quando, per inquadrare le scelte relative alle truppe di cavalleria al di là dello specifico evento bellico, l’autore decide di utilizzare l’espressione «grande strategia», pur consapevole di quanto essa risulti divisiva nell’opporre gli storici sostenitori di Luttwak nella visione “modernista” dell’apparato militare romano, a quelli più conservatori, che ritengono tale espressione ad esso inapplicabile. Nel sotto-capitolo Le nouveau visage de la cavalerie civique au Ier s. av. J.C., invece, l’argomentazione si dipana dalla messa in discussione dell’idea, condivisa dalla maggior parte degli storici, che dall’età di Mario l’unica cavalleria esistente fosse quella ausiliaria (pp. 50-51 del sotto-capitolo II.A. L’évolution de la militia equestris après les Gracques); ancora, nella Terza Parte si propone un ridimensionamento della tesi dell’exploit della cavalleria nel III secolo d.C., da collocare piuttosto non prima della fine del IV secolo d.C.[5]
L’argomentazione poggia sul sistematico ricorso sia a fonti antiche assai eterogenee (letterarie, epigrafiche, archeologiche, papirologiche, ostracologiche, numismatiche), poste in costante dialogo tra loro e per lo più tradotte – laddove si tratti di testi latini e greci – di prima mano dall’autore; sia a una vastissima bibliografia moderna, relativa anche agli aspetti apparentemente più minuti. L’ampiezza delle letture e il rigore di analisi di Petitjean emergono anche nell’articolata bibliografia finale, dove la sezione delle Références modernes occupa da sola oltre 60 pagine.
Tra i più utili sussidi della monografia – oltre all’Index nominum et rerum notabilium conclusivo – vi sono le immagini e gli schemi (relativi soprattutto alla disposizione e alle manovre delle truppe, all’articolazione di un reparto, alle fasi di una battaglia), e le tabelle per i dati statistici, a cui l’autore frequentemente ricorre.
Il ridottissimo numero di refusi (per lo più confinati a nomi e citazioni in lingue straniere[6]) in un’opera così corposa è un estremo indicatore della cura, anche formale, evidentemente profusa in questo saggio, di certo destinato a imporsi come punto di riferimento obbligato per tutti i prossimi studi sulla cavalleria romana.
Notes
[1] H. Delbrück, Geschichte der Kriegskunst im Rahmen der politischen Geschichte, 4 vols., Berlin: Stilke, 1900-1908, I, p. 457.
[2] A titolo di esempio, si considerino i lavori di Antonio Sestili, che negli ultimi 16 anni ha pubblicato sul tema dodici libri; o di Ann Hyland, che si è impegnata anche a riprodurre concretamente le esercitazioni della cavalleria romana descritte da Arriano nella Tattica (Ann Hyland, Training the Roman Cavalry – From Arrian’s Ars Tactica, Phoenix Mill – Dover, NH: Sutton Publishing Ltd., 1993).
[3] Si vedano i suoi stessi studi citati nella bibliografia finale della presente opera.
[4] Un esempio è offerto dal Capitolo 3 della Terza Parte, dedicato alla problematica questione del rinnovamento della cavalleria tra III e IV secolo; la conclusione di Petitjean è che all’idea di un dirompente sovvertimento delle pratiche di combattimento equestre sia da preferire l’individuazione di due novità: l’abbandono della turma di trenta uomini a favore della più massiccia centuria, e il rafforzamento delle capacità d’offesa della cavalleria legata alle limitazioni della mobilità tattica della fanteria e alla comparsa della cavalleria pesante (p. 477).
[5] La tesi è menzionata all’inizio del Capitolo 1 come uno dei luoghi comuni più strettamente associati alla storia dell’esercito romano di età tarda (p. 359); la contro-tesi dell’autore è invece esplicitata nella parte finale delle Conclusioni della sezione (p. 480).
[6] Es. Alfödi, p. 359; vari refusi nelle citazioni dall’italiano a p. 240 e a p. 313, n. 168.