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Il volume raccoglie gli atti di un convegno svoltosi a Madrid il 28 e il 29 aprile 2022, dedicato alla ricezione della ceramica attica nella penisola iberica e nel bacino settentrionale dell’Egeo, dal Golfo Termaico ad Abdera.
Come recita la quarta di copertina, i due contesti sono accomunati dal costituire “luoghi periferici”, interessati solo marginalmente dal grande circuito di circolazione della ceramica attica in età arcaica e classica: entrambi i territori rappresentano dalla fine del V sec. mercati in crescita per una produzione ateniese riconvertita dopo la crisi gravissima della Guerra del Peloponneso, ma ancora capace di trovare nuovi sbocchi commerciali per l’attività di officine che continuano a produrre nelle mutate, e meno favorevoli, condizioni di contesto, almeno fino alla metà del IV sec. a.C.
Tale quadro complessivo è messo a fuoco da uno specialista come Mario Iozzo nel Prologo (pp. 11-14) in cui sono delineate con chiarezza le molteplici linee di ricerca affrontate nel convegno: è, quindi, sufficiente ribadire che perifericità non equivale a inferiorità culturale e che la ricezione della ceramica attica dipende anche nelle due aree prese in esame dall’autonomia delle strategie adottate dalle comunità locali a partire dalla struttura storicamente determinata delle rispettive tradizioni.
In questa prospettiva di interazione attiva, il convegno affronta anche il tema delle forme di appropriazione del patrimonio mitologico e narrativo greco immesso attraverso la produzione figurata attica in società caratterizzate da culture profondamente diverse.
La sequenza dei contributi illustra l’articolazione della ricerca in progressivi livelli di indagine: le prime sei relazioni sono dedicate alla circolazione e contestualizzazione della ceramica attica nei contesti iberici (pp. 15-80) ed egei (pp. 81-118); segue una serie di cinque interventi che toccano il tema del suo utilizzo, con particolare riguardo all’uso del cratere, di cui si inquadrano l’evoluzione produttiva, le forme e gli ambiti di consumo sia nel contesto mediterraneo che nelle due aree prese in esame (pp. 119-220); concludono quattro studi di taglio iconografico e analisi visuale (pp. 221-303).
La prima serie di contributi si caratterizza per il solido impianto filologico: attraverso un’analisi che integra produzioni figurate e non figurate, sono approfondite cronologie e modalità di circolazione, investendo i temi delle officine produttrici, delle componenti coinvolte nelle reti del commercio e intermediazione, degli itinerari di una distribuzione articolata a seconda degli ambiti territoriali, delle preferenze della committenza e delle congiunture storico-politiche (per quest’ultimo punto cfr. ad es., il caso di Abdera: Eurydice Kefalidou, 81-100).
Per gli insediamenti iberici si aggiunge l’analitica contestualizzazione dei dati di rinvenimento attraverso un’analisi spaziale dettagliata, da cui emerge la specificità delle forme di selezione e consumo della ceramica attica in rapporto alle funzioni d’uso.
Di qui, innanzitutto, la possibilità di misurare lo scarto tra la documentazione di necropoli e di abitato, che mette in risalto l’impatto giocato dalla dimensione rituale; di qui, inoltre, la caratterizzazione dell’impiego della ceramica attica all’interno degli spazi abitativi attraverso la registrazione di una incidenza differenziata rispetto alla natura dei contesti e alle occasioni sociali di consumo in cui essa costituisce una fornitura di lusso: a quest’ultimo proposito, si ricordi solo il caso di Cancho Roano, in cui le produzioni attiche sono utilizzate nelle cerimonie di chiusura e obliterazione del complesso monumentale (ad es., Adolfo J. Domínguez, pp. 143-45).
Si tratta di un risultato molto importante, conseguito grazie a un’indagine in cui i parametri quantitativi, debitamente validati, si integrano con l’analisi tipologica delle forme e l’inquadramento stilistico delle produzioni figurate: la contestualizzazione della produzione attica negli apparati materiali delle comunità indigene acquista così una concreta visibilità, fondata su obiettive basi documentarie.
Dalla ricostruzione dei palinsesti archeologici emergono alcune linee interpretative condivise: l’acquisizione della ceramica attica in quanto bene di prestigio e segno di status; la percentuale ridotta dei prodotti figurati rispetto alla vernice nera, indizio di una domanda essenzialmente rivolta alle forme vascolari, in particolare, quelle connesse alla preparazione e consumo delle bevande, in grado di integrarsi nei servizi locali; infine, per quanto riguarda il repertorio iconografico, una ricezione finalizzata a denotare attraverso le immagini vascolari ruoli e pratiche sociali appannaggio dei gruppi dominanti.
In questo orizzonte interpretativo, il secondo gruppo di contributi mette a fuoco l’arrivo nella penisola iberica, in un arco cronologico compreso tra la fine del V e la metà del IV sec. a.C., di una produzione figurata riconducibile a un numero circoscritto di officine (ad es., Pittore di Meleagro, Plainer Gr., Telos Gr.), caratterizzate da un repertorio iconografico flessibile per la sua genericità e, dunque, adattabile alle diverse esigenze della committenza; l’analisi dei contesti consente di recuperare meccanismi orientati di selezione, in cui la trasmissione degli apparati figurati non comporta una corrispondente condivisione dei dispositivi semantici (in particolare, Carmen Sánchez Fernandez, pp. 181-204).
Significativa, a tale proposito, è la lettura applicata a due eccezionali contesti funebri.
Il primo è costituito dalla tomba 75 della necropoli di Cabezo Lucero (Guardmar del Segura, Alicante), databile intorno al 475 a.C. e pertinente a una coppia di incinerati: la sepoltura rappresenta la tomba principale della necropoli; al suo interno è stata rinvenuta una lekythos a figure nere spezzata ritualmente nel corso della cerimonia funebre, decorata con il gruppo di tre figure su diphroi, una della quali identificabile con Apollo. I tre personaggi sono reinterpretati quali “immagini archetipiche”, utilizzate da un’audience dotata di una “narrativa propria” per evocare la coppia dei defunti alla presenza della divinità oppure gli antenati ovvero, ancora, la comunità che ha offerto il vaso (Alejandro Garés Molero, pp. 69-71).
Il secondo esempio, ancora più rilevante, è rappresentato dal reimpiego in una tomba a camera del I sec. a.C. della necropoli di Piquía (Arjona, Jaén) di un set di vasi attici del I quarto del IV sec., composto da sette crateri a figure rosse e una kylix a vernice nera (David Vendrell Cabanillas, pp. 205-19).
La sepoltura appartiene a un principe – Iltirtiiltir figlio di Ekaterutu – che tesaurizza i vasi attici quali veri e propri keimelia, recuperandoli da una sepoltura più antica, forse appartenente alla stessa famiglia.
Sui crateri sono messe in scena iconografie complesse: l’apoteosi di Eracle e Dioniso, le nozze dell’eroe con Hebe, una coppia divina incoronata da figure alate, una scena di loutron nymphikon, le rappresentazioni di un banchetto e di un komos; le immagini sono trattate come un unico insieme significativo, incentrato sulla valorizzazione del rito nuziale quale atto fondativo di una linea privilegiata di discendenza.
Si tratta di una chiave di lettura di carattere funzionale che merita la massima attenzione, fondandosi sulla valorizzazione delle tradizioni culturali indigene, sorretta dalla conoscenza diretta dei dati contestuali: al tempo stesso, occorre segnalare come essa tenda a comprimere la varietà del repertorio figurato, non irrilevante almeno nei contesti più eminenti, e la specifica qualità significante del singolo episodio iconografico.
Si prenda come esempio il già ricordato cratere della tomba di Piquía con scena di loutron nymphikon interpretata come “bagno della sposa”: in esso, come efficacemente evidenziato (p. 209), la giovane donna in atto di lavarsi presso il bacino è raffigurata con il volto nascosto allo spettatore, ma rivolto verso uno specchio impugnato da una seconda figura femminile; alle spalle della protagonista, un giovane satiro si ritrae sorpreso, colpito dall’immagine del volto riflessa nello specchio verso cui dirige lo sguardo.
La scena non è generica o di maniera, attivando, al contrario, un gioco visuale raffinato che coinvolge lo spettatore: c’è da chiedersi se almeno in questo caso, che costituisce un unicum, i suoi specifici codici semantici fossero davvero incomprensibili o indifferenti ai fruitori ultimi del vaso.
Una non dissimile domanda, utile a interrogarsi sulla qualità dell’agency della committenza, potrebbe applicarsi alla selezione del cratere come contenitore dei resti combusti del morto nelle tombe a incinerazione (ad es., Carmen Sánchez Fernandez, pp. 193-200): il suo uso è ricondotto alla volontà di eroizzare il defunto anche attraverso il riferimento al modello ideale del simposio, ma tale relazione non attiva la possibile valenza simbolica degli apparati iconografici legati all’immaginario di Dioniso, secondo una prospettiva interpretativa sperimentata in altri contesti geografici e culturali nei quali è documentato l’uso del cratere come cinerario agli stessi livelli cronologici della penisola iberica.
L’ipotesi di una ricezione del patrimonio iconografico che riadatta e modifica gli originari dispositivi significanti ritorna nell’ultima sezione del volume, costituita non a caso da quattro contributi che investono la funzione comunicativa delle immagini sulla ceramica: uno è relativo alla rappresentazione gestuale del concetto di thymos, gli altri sono dedicati alla figura di Nike come marca della propaganda ateniese, alla reinterpretazione del gorgoneion in ambito etrusco, al significato dell’erma come segno iconico del paesaggio matrimoniale; si tratta di studi importanti a livello documentario e metodologico, nei quali la lettura e interpretazione delle immagini si unisce a un approccio visuale finalizzato a restituire il ruolo attivo dello spettatore, anche se non greco.
Di qui, la specifica attenzione alla rifunzionalizzazione dei soggetti iconografici veicolati dalla ceramica attica in ambienti allogeni; in particolare, a proposito dell’ambito iberico, si sottolinea come essi comportino una vera e propria irruzione della figura umana, estranea alla tradizione culturale locale (in particolare, Jorge Tomás García, pp. 229-34).
In questa prospettiva, l’appropriazione di un “linguaggio formale ellenizzante” (p. 230) è letta come acquisizione di uno strumento comunicativo nuovo ed esotico, assunto in quanto segno di prestigio; è in questa dimensione che, ad es., l’iconografia di Dioniso seduto, raffigurato in uno dei crateri, probabilmente cinerari, della tomba 176 di Baza (Granada), fornisce un “motivo iconografico” al sistema di “configurazione narrativa” locale che lo rifunzionalizza, partendo dalle proprie istanze di autorappresentazione, all’interno del contesto significante del corredo tombale (Pelayo Huerta Segovia, pp. 292-98).
La presentazione fin qui delineata evidenzia il vivo interesse rivestito dal volume, che alla ricchezza di una documentazione archeologica trattata con tecniche aggiornate e rigore documentario aggiunge l’intento di esplicitare le ragioni di metodo, offrendo alla valutazione del lettore un approccio aperto e problematico, come si conviene in una discussione scientifica.
L’analisi dell’impatto della circolazione della ceramica attica in comunità periferiche sulle opposte sponde del Mediterraneo offre agli studiosi un campo di indagine ricco di potenzialità, ampliando in modo considerevole l’orizzonte della ricerca sul tema molto dibattuto dell’esistenza di una “cité des images” estesa oltre i confini di Atene: la valorizzazione delle “storie locali” arricchisce il ventaglio delle dinamiche di interazione e spinge ad approfondire, attraverso la pluralità delle soluzioni proposte, una comparazione a scala mediterranea, per calibrare gli strumenti interpretativi, adeguandoli alla varietà delle situazioni culturali.
Un unico rammarico è costituito dalla qualità non elevata dell’apparato iconografico, sovente riprodotto in una scala molto ridotta che ne penalizza la leggibilità.
Authors and Titles
Mario Iozzo, Prologo
Pedro Miguel-Naranjo, Guiomar Pulido González, y Esther Rodríguez González, La iconografía griega y su recepción en las comunidades locales del Alto y Medio Guadiana durante la Edad del Hierro
Iván Amorós López y Jaime Vives-Ferrándiz Sánchez, Le Rouge et le Noire. Cerámicas áticas figuradas en la Bastida de les Alcusses (Moixent, Valencia)
Alejandra Macián Fuster, Vasos áticos en contextos edeteanos: adopción y reinterpretación
Alejandro Garés Molero, Miradas periféricas para producciones ¿desfasadas?: la vida social de las figuras negras tardías en la Península Ibérica
Eurydice Kefalidou, On the local history of Attic pottery from the Ionian colony of Abdera in Aegean Thrace (7th – 5th Century B.C.)
Eleni Manakidou, Attic black- and red-figure vases in the Thermaic Gulf area: places, uses, and meanings
Kleopatra Kathariou, The life cycle of kraters in the Mediterranean World during the first quarter of the 4th century BC: production, trade, and consumption
Adolfo J. Domínguez, El uso de la cerámica ática en celebraciones religiosas colectivas no griegas en la Península Ibérica
María Luisa García Martín, La capacidad volumétrica de las crateras áticas y su cálculo mediante la yuxtaposición de sólidos de revolución
Carmen Sánchez Fernández, Las crateras áticas en España. La construcción de una narrativa visual
David Vendrell Cabanillas, La cratera del baño de Piquía: el estudio de un unicum en la Península Ibérica
Jorge Tomás García, Una fórmula textual y gestual: la corporeización del θυμός en la cerámica ática y su presencia en la Península Ibérica
Margarita Moreno Conde, Los múltiples rostros de Nice. La diosa de la victoria en la cerámica ática
Rafael Jackson-Martín, Un umbral circular. El gorgoneion en las cerámicas áticas y la visualidad greco-etrusca
Pelayo Huerta Segovia, ¿Imágenes de Hermes o imágenes de Dioniso? Hacia una deconstrucción de la herma en la pintura vascular ática dionisíaca del s. IV a.C.