BMCR 2022.12.03

Le philosophe dans la cité: Sénèque et l’otium philosophique

, Le philosophe dans la cité: Sénèque et l'otium philosophique. Philosophie hellénistique et romaine, 13. Turnhout: Brepols, 2022. Pp. 485. ISBN 9782503596341. €65,00.

In questo volume Juliette Dross affronta le opere dedicate da Seneca all’otium. Delle quattro solo il de brevitate vitae è stato composto nel 49 a.C. durante il periodo iniziale dell’attività di precettore di Nerone, quando Seneca era stato richiamato dall’esilio in Corsica e nominato pretore grazie ai buoni uffici di Agrippina Minore, nipote e nuova moglie dell’Imperatore Claudio. Le altre tre opere sono state scritte durante il periodo di allontanamento volontario dalla corte. Il grande calo di influenza sul suo allievo imperatore, calo dovuto anche alla morte nel 62 d.C. del prefetto del pretorio Sesto Afranio Burro collaboratore e amico dello stesso Seneca, aveva reso quasi inevitabile la decisione. La composizione del de otio daterebbe al 62 d.C., quella del De tranquillitate animi forse al 63 d.C. e le centoventiquattro Epistulae morales ad Lucilium sono probabilmente state pubblicate nel 65 d.C.[1]. Lo scopo della ricerca è subito chiarito da Dross: «telles sont le quatre oeuvres majeures de Sénèque sur la question dell’otium. Elles constitueront le noyau de cette étude.» (13). Poco oltre, dopo una discussione sulla cronologia dei vari testi e prevenendo facili obiezioni, Dross precisa (27) «Il est certain que ces apparentes variations du discours de Sénéque sur l’otium posent question. Faut-il voir un simple opportunisme d’ordre « biographique » ? Une évolution de Sénèque sur ce problème ? Une pensée en mouvement, ou à tout le moins à focalisation multiple ? Ou plotôt une pensée profondément cohérente, voire invariable ? La réponse à cette question suppose que l’on réexamine de manière à la fois globale et différenciée les differentes oeuvres consacrèes a l’otium. C’est l’object de ce livre.»

Il ruolo del filosofo nella città[2], l’educazione che può impartire e il miglioramento in grado di generare sono oggetto di importanti valutazioni nella filosofia greca, in particolare in quella stoica seguita da Seneca, ma per il nostro filosofo tutto ciò diventa un problema incandescente durante quello che si potrebbe definire il suo secondo esilio, a partire cioè dal 62 d.C. Come il suo predecessore Cicerone, Seneca riesce a convincersi che l’inattività politica può giovare degnamente a sé e agli altri e che l’indagine filosofica rappresenti una forma elevata di azione. Credo infatti, che Cicerone sia uno fra gli interlocutori privilegiati delle ultime opere di Seneca[3], ma il tema degli interlocutori e dei predecessori di Seneca in questo ambito è approfondito da Dross sin dall’Introduction.

Il volume si compone di quattro densi capitoli, nel primo dei quali Dross vaglia lo scopo di ciascuna delle opere senecane da lei studiate, la data di composizione, i problemi legati alla cronologia, l’omogeneità e la coerenza delle opere scelte, il destinatario, la struttura e il ragionamento – non lineare ma disposto quasi a spirali concentriche attraverso approfondimenti successivi – che Seneca organizza sull’otium e il suo ruolo nella vita di un uomo. Dross nota che le difficoltà di cronologia, specie del De tranquillitate animi, rendono ardua ogni conclusione che ambisca a completezza e mette giustamente in guardia contro ogni ipotesi che accentui indebitamente le esperienze biografiche nell’evoluzione del pensiero senecano.

Il secondo capitolo del volume è particolarmente rilevante perché Dross affronta quella che potrebbe apparire la principale contraddizione nella vicenda senecana tra la valorizzazione dell’otium e l’etica stoica. La dottrina crisippea, mai contraddetta dalle successive riflessioni stoiche, prevedeva infatti che il saggio dovesse partecipare attivamente alla vita politica, «purché qualcosa non lo impedisca»[4]. Il contrasto con il consiglio di Epicuro di non impegnarsi a meno che qualcosa non lo imponga è però, argomenta sottilmente Seneca, soltanto apparente, infatti utraque ad otium diversa via mittit. L’allontanamento progressivo dalla vita pubblica quando l’agire politico sia neutralizzato non deve, però, sembrare una ritirata ingloriosa dal campo di battaglia, Seneca è esplicito in questa posizione e Dross dedica alcune pagine all’esegesi di una tale metafora militare (127 ss.). Otium, inoltre, non implica latere non vivere, sparire dal mondo per dedicarsi solo a se stessi[5]. Quando l’otium diventa inevitabile non deve limitarsi all’inerzia: il filosofo è chiamato a una forma differente di azione. Quanto ci è conservato del testo del De otio enuclea appunto i casi che rendono inevitabile il ritiro, sino alla forma più estrema. Se la corruzione politica è insanabile e il filosofo comprende la vanità di ogni azione, il suicidio appare un rifiuto dignitoso e definitivo.

Dross definisce acutamente clause d’exception la serie di motivi per i quali il saggio può evitare l’impegno pubblico; secondo la dottrina vari fattori possono determinare il ritiro: la perdita di autorevolezza o di credito, l’esclusione a opera di potenti e anche le infermità costituiscono un motivo legittimo per il disimpegno politico. Il filosofo può trasformare queste situazioni avverse in un vantaggio per sé e per la comunità grazie a una serie di scelte[6]. Secondo il Nostro non configura, invece, clause d’exception il rischio personale, il pericolo. Tale precisazione è un tratto distintivo e innovativo, come rileva Dross (161-164): nel De otio Seneca non si appella al pericolo per motivare l’esenzione, giustificazione presente, invece, negli autori precedenti. Tutto ciò è una base teorica cui attribuire grande rilievo se si desidera comprendere il credito che la filosofia stoica avrebbe acquisito presso molti ceti nel I secolo d.C. Il comportamento coraggioso e inflessibile di Trasea Peto, di Elvidio Prisco e di altri, comportamento coerente con le idee professate, aveva generato rispetto anche in quanti non seguivano lo Stoicismo, uscito rafforzato dalle persecuzioni sotto Nerone e Vespasiano[7].
Più oltre Dross esamina con attenzione (194-216) la dottrina stoica degli indifferenti, preferibili e non preferibili. Si tratta di una teoria che rappresenta un caposaldo dell’etica stoica nella sua dimensione assiologica, per questo—forse—al lettore avrebbe giovato trovare tale discussione nella parte iniziale del volume.

Il terzo capitolo solleva un’altra questione intrinsecamente connessa al tema principale: sarebbe vano, infatti, trattare il tema dell’otium in Seneca senza inquadrarlo all’interno del dibattito sui vari generi di vita. Il confronto con lo stile di vita propugnato da Cicerone, cum dignitate otium[8], è illuminante e, pur osservando che non è facile cogliere qui il pensiero di Seneca, concordo con Dross (275-285) che nel De otio la scelta ideale inclini più alla vita contemplativa, sia che essa si realizzi dopo una vita dedicata ai negotia, sia che avvenga razionalmente a prima aetate. Armonizzare scelte di vita come quella attiva e quella contemplativa non è agevole, ma Seneca supera opzioni apparentemente non conciliabili; egli presenta, infatti, la contemplazione come una peculiare forma di azione, grazie alla personale interpretazione della concezione stoica dell’οἰκείωσις. Su ciò le pp. 306-318 di Dross sono fra le più rilevanti del capitolo[9]. Per parte mia, poi, tenderei a interpretare il verbo praestare in una frase fondamentale del de otio come «rendere un servizio» / «essere utile», ma ritengo utile la discussione di Dross sul significato del termine (311-314).

Nel quarto capitolo si tirano le fila delle discussioni elaborate nelle pagine precedenti e delle indagini sui testi senecani (Dross 319): «L’otium philosophique est un choix valable en théorie et nécessaire en pratique dans la majorité des cas. Loin d’être inactif, le sage se consacrant dans l’otium à l’étude philosophique agit, pour lui-même et pour la cité universelle.» Lo scopo di Dross, però, è quello di procedere oltre per mostrare l’effettivo significato dell’otium filosofico, il ruolo sociale con cui il filosofo può arricchire tale condizione e dunque la funzione svolta a beneficio della città. Meditazione ed esercizi spirituali migliorano la vita del filosofo e lo aiutano ad accettare la realtà e i suoi fastidi[10], ma il dilemma perenne resta: come si debba condurre in pubblico il filosofo e quale rapporto mantenere tra il suo frons e l’intus, tra l’apparenza esteriore e l’interiorità. Siamo di fronte, mi pare, alla questione che ha turbato e distrutto molte vite oltre quella di Seneca: il problema di vivere a corte o in contatto con essa[11]. In ogni caso un filosofo non può adeguarsi al comportamento di un cortigiano che, come rievoca lo stesso Seneca, per sopravvivere a corte accetta ogni umiliazione con buona grazia[12].

Un’ultima osservazione: si tratta di una ricerca che permette di cogliere nuovi aspetti di un autore molto studiato; tra i risultati più notevoli del volume considero aver mostrato che l’impegno vero del filosofo immerso nell’otium sia la scrittura, attraverso la quale educano i contemporanei e i posteri: l’energia letteraria di Seneca e la sua originalità filosofica sono strettamente legate e adatte a questo fine.

 

Notes

[1] Dross propone ottime osservazioni sull’epistolario (65-80) e sulla funzione del destinatario. Le 124 lettere compongono venti libri, ma da Gellio (NA 12.2.3) conosciamo l’esistenza di almeno ventidue libri.

[2] Il titolo del volume di Dross, Le philosophe dans la cité, evoca quello della ricerca di Matthias Haake, Der Philosoph in der Stadt. Untersuchungen zur öffentlichen Rede über Philosophen und Philosophie in den hellenistischen Poleis, München 2007.

[3] Ancora utile P. Fedeli, Cicerone e Seneca, Ciceroniana 12 (2006), 217-237.

[4] DL 7.121: ἂν μή τι κωλύῃ, ὥς φησι Χρύσιππος ἐν πρώτῳ Περὶ βίων. Al contrario, la dottrina epicurea consiglia di non partecipare alla vita politica a meno che qualcosa non lo imponga, Sen., De otio, 3: Duae maxime et in hac re dissident sectae, Epicureorum et Stoicorum, sed utraque ad otium diuersa via mittit. Epicurus ait: ‘non accedet ad rem publicam sapiens, nisi si quid intervenerit’. Vd. Dross 115 ss. e 133 ss.

[5] Come fece Servilus Vatia, praetorius all’epoca di Tiberio, Sen., Ep., 55.4, caso trattato da Dross, (178-171), su cui vd. anche M. Morford, The Dual Citizenship of the Roman Stoics, in S. N. Byrne, E. P. Cueva (eds.), Veritatis amicitiaeque causa. Essays in honor of Anna Lydia Motto and John R. Clark, Wauconda 147-164. Utile in generale Bernard Collette-Dučić, Stoïcisme et tyrannie au Ier siècle de notre ère. De l’action libre à l’action singulière, C@hiers du CRHiDI. Histoire, droit, institutions, société 34 (2010), 91-115.

[6] Dross p. 158. È utile notare che Seneca (Ep., 107.11) recepisce ed elabora i celebri versi dello stoico Cleante Duc, o parens celssque dominator poli, / quocumque placuit: nulla parendi mora est; / adsum inpiger. Fac nolle, comitabor gemens / malusque patiar facere quod licuit bono. / Ducunt volentem fata, nolentem trahunt.

[7] Vd. M. Griffin, The Younger Pliny’s Debt to Moral Philosophy, HSCP 103 (2007), 451-481; vd. anche la raccolta di saggi di P. A. Brunt, Studies in Stoicism, Oxford 2013.

[8] Cic., Pro Sest., 45 (98), del 56 a.C.: quid est igitur propositum his rei publicae gubernatoribus quod intueri et quo cursum suum derigere debeant? id quod est praestantissimum maximeque optabile omnibus sanis et bonis et beatis, cum dignitate otium.

[9] Sulla nozione stoica di riappropriazione del sé (οἰκείωσις) vd. anche B. Collette-Dučić, Honte et retenue dans la Stoa, Revue de philosophie ancienne 35 (2017), 51-79. Per quanto riguarda l’analisi del cap. 4 del de otio occorre completare la citazione proposta a 314: dopo Huic maiori rei publicae et in otio deseruire possumus, immo uero nescio an in otio melius va aggiunto ut quaeramus quid sit uirtus, una pluresne sint, natura an ars bonos uiros faciat;.

[10] Per la sphaeromachia (Dross 345 n. 85) vd. ancora H. Frère, Le témoignage de Stace sur la σφαιρομαχία, in Mélanges de philologie, de littérature et d’histoire anciennes offerts à A. Ernout, Paris 1940, 141-158, A. M. D’Onofrio, Un programma figurativo tardo antico. Le basi ateniesi con Ballspielszenen riconsiderate, Annali di Archeologia e Storia Antica 8 (1986), 175-193 e T. F. Carney, The Meaning of lusorius at Seneca Epist. LXXX, 2, Mnemosyne 11 (1958), 343-344.

[11] È quasi superfluo evocare le vicende di Tommaso Moro (7.2.1478-6.7.1535) e la piena conoscenza che quest’ultimo aveva delle opere di Seneca e della sua biografia, vd. almeno G. B Wegemer, Young Thomas More and the Arts of Liberty, Cambridge 2011 e ora G. Faro, Cunning as a Snake: Thomas More and the Right to stay silent (with a Long Digression on Seneca), Moreana 57.1 (2020), 63-88.

[12] Sen., de ira, 2.33.3: Notissima vox est eius qui in cultu regum consenuerat. Cum illum quidam interrogaret, quomodo rarissimam rem in aula consecutus esset, senectutem: “Iniurias,” inquit, “accipiendo et gratias agendo.”