BMCR 2021.01.25

Le pouvoir des bons mots: “faire rire” et politique à Rome du milieu du IIIe siècle a.C. à l’avènement des Antonins

, Le pouvoir des bons mots: "faire rire" et politique à Rome du milieu du IIIe siècle a.C. à l'avènement des Antonins. Bibliothèque des Écoles françaises d'Athènes et de Rome, 382. Roma: École française de Rome, 2019. Pp. xi, 500. ISBN 9782728313662. €37,00 (pb).

Pascal Montlahuc (da qui in poi l’Autore) illustra lo scopo di questo volume dalla prima pagina: «il (= ce livre) propose une analyse contextualisée et dynamique d’un phénomène trop rarement associé à la vie politique romaine: le risum mouere.» Nella Conclusion conferma, appunto, di aver privilegiato (p. 403) «une analyse combinatoire des relations entre orateurs, plaisanteries, auditoires et causes politiques, le tout décliné selon les moments d’interactions propres à la vie politique de la cité.» Questa forma di analisi, a suo vedere (cfr. p. 55), resta la più adatta a permettere una comprensione della dimensione politica dell’umorismo. La ricerca si articola in otto capitoli, distribuiti in tre parti e ogni capitolo presenta a sua volta numerose suddivisioni. Le parti, che si susseguono secondo un ordine cronologico e tipologico, intendono coprire il periodo della storia di Roma che va dalla metà del III secolo a.C. sino alla morte di Domiziano (96 d.C.), ma in effetti l’attenzione dell’Autore è rivolta principalmente al I secolo a.C. e al I secolo d.C., a personaggi della fine della Repubblica e agli imperatori della dinastia giulio-claudia. La scelta non è priva di ragioni, poiché la condizione delle fonti e lo scopo dell’indagine inducono a privilegiare questo periodo, ma credo che l’apertura sino alla metà del III secolo a.C. e la cura nel percepire l’incontro tra il fenomeno del «faire rire» e il momento politico avrebbe potuto includere la storia della contesa tra il poeta Nevio e la potente famiglia dei Metelli. Al verso di Nevio Fato Metelli Romae fiunt consules i Metelli risposero con Dabunt malum Metelli Naevio poetae e – se la storia è vera – con il carcere per lo sfrontato poeta che avrebbe osato dileggiare la famiglia nobile.[1] L’episodio, da datare probabilmente al 206 a.C., documenterebbe una delle prime azioni di censura nei confronti dell’umorismo esercitato contro il potere e di condanna per l’autore dello scherno.

Ridere rappresenta una delle più interessanti componenti nelle dinamiche relazionali umane, una forma elevata di socialità che presuppone la condivisione di un codice linguistico in tutti i suoi tratti, ma di recente si sono aperti ulteriori possibilità di studio per analizzare la capacità del riso di affrontare momenti estremamente critici.[2] Mi pare quindi importante leggere le vicende e le evoluzioni della politica alla fine della Repubblica e nel I secolo dell’Impero anche sotto questa particolare lente. La maggiore o minore opportunità di utilizzare l’umorismo nei confronti del potere e degli avversari costituisce, infatti, la struttura su cui si innerva lo studio. L’Autore rintraccia nei vari periodi una sorta di sistole e diastole, di ampliamento e di restrizione nell’opportunità di questo uso, ed è possibile individuare a seconda delle epoche la liceità o la difficoltà per membri delle élites di fare dell’umorismo o dell’ironia nei confronti di chi detenesse il potere. All’interno di un tale quadro, infatti, si possono individuare aperture differenziate per esponenti della nobiltà senatoria, membri dell’ordine equestre e semplici popolani.

Nella Tarda Repubblica non erano posti limiti nell’accusare gli avversari di comportamenti considerati ignobili, degradanti o immorali. Ridicolizzare gli oppositori condannando tratti dell’abbigliamento, della postura, la lunghezza dei capelli, il modo più o meno disinvolto di indossare la toga, eventuali pratiche depilatorie immaginate o reali, aveva come obiettivo quello di mettere in cattiva luce l’oppositore, screditarlo e degradarlo insinuando il dubbio che tutte queste azioni rivelassero l’inclinazione o la consuetudine a un erotismo caratterizzato da passività; una tale tattica accusatoria era finalizzata a degradare il contendente da avversario politico a caricatura. Gli studiosi hanno constatato da tempo che ogni accusa di tratti in ultima analisi riconducibili alla sfera femminile o servile e la conseguente, inevitabile, imputazione di debolezza e inadeguatezza al ruolo richiesto dalla società romana costituivano un’arma potente da usare contro nemici e concorrenti.[3]

Le orazioni di Cicerone permettono di cogliere pienamente questa strategia tipica della libertas forense dell’epoca, mentre i vari stadi della carriera di Giulio Cesare costituiscono l’occasione per notare una certa diminuzione di tali opportunità, oltre che l’utilizzo, appunto, di tale strumentazione retorica contro di lui. Per gran parte della vita di Cesare, infatti, gli avversari non mancarono di fare menzione dei suoi rapporti giovanili con il re Nicomede di Bitinia. A partire dal 47 a.C., invece, le accuse e le beffe diventarono anonime, mentre gli uomini politici a lui ostili, Cicerone fra i primi, evitarono di esporsi in attacchi contro il dittatore (pp. 179-181).

Alcune cause celebri e, soprattutto, il loro esito devono aver impressionato in modo straordinario, tanto da essere ricordate anche a distanza di oltre un secolo. Echi del processo contro Clodio per lo scandalo occorso durante la festa della Bona Dea (dicembre del 62 a.C.), dell’abilità accusatoria piena di ironia di Cicerone, memorie della scandalosa assoluzione di Clodio (maggio del 61 a.C.) comprata con mezzi ancora più scandalosi, ricorrono con grande frequenza sino almeno all’età di Seneca (Epist., 97, 2-3). Come ricorda più volte l’Autore, durante la Repubblica risum mouere restò una componente essenziale della strategia persuasive nei processi, ma la sua ripresa dopo la morte del dittatore non fu priva di pericoli per gli oratori. La volontà di Marco Antonio che Cicerone fosse inserito tra i primi nomi nelle liste di proscrizione era dovuta anche al potere corrosivo dell’umorismo che si era dispiegato ai suoi danni nelle Filippiche, specie nella Seconda.[4] La fine ironia di Pollione «non è facile scrivere contro chi può proscrivere» è opportunamente citata per evocare il mutamento radicale avvenuto nella reciprocità dell’umorismo; quando la bilancia del potere oscilla radicalmente da una parte gli spazi dell’umorismo sono prerogativa di quella stessa parte.[5] Chi detiene il potere lo utilizza anche per porre limiti – espliciti o meno – alla parola e un terreno delicato come quello del ridere ha sempre costituito una cartina di tornasole per riconoscere il comportamento di un imperatore civilis da quello di un autocrate.

Le oscillazioni che si possono seguire durante l’età imperiale grazie a una documentazione sotto questo aspetto forse meno ricca di quella relativa al I sec. a.C. lasciano cogliere una netta demarcazione fra il comportamento tollerante di Augusto o Vespasiano e quello crudele di Caligola e Domiziano. Questi ultimi, se in alcuni casi accettavano battute di spirito da parte di personaggi di basso livello, riservavano, invece, a sé l’uso feroce dell’umorismo per umiliare gli aristocratici e tenerli in posizione palesemente subalterna e muta. Una risposta di tenore analogo sarebbe, infatti, costata la vita a chi avesse osato esprimerla. Il tiranno esercita il sarcasmo solo a spese degli altri per mettere alla prova la resistenza dei membri della corte, con una strategia che l’Autore definisce di «terreur systématique» contro l’aristocrazia (p. 360). La sopravvivenza di un individuo dipendeva, quindi, dalla capacità di accettare l’insolenza del principe senza reagire poiché, come è già osservato da Seneca, de ira, 2.33.2, si riesce a invecchiare in una corte solo accettando gli insulti e ringraziando. Sembra paradossale, ma forse si può credere che lo statuto di quasi buffone assegnato a Claudio dal nipote Caligola ha contribuito a mantenerlo in vita durante le terribili fasi di questo regno. Il comportamento di Tiberio è meno facilmente inquadrabile; la straordinaria narrazione tacitiana è riuscita a fissare per questo imperatore un’immagine patologica di peggioramento che sembra ricomprendere e definire ogni atteggiamento dell’imperatore, ma bisogna anche tener conto delle osservazioni relative agli ultimi anni del regno di Augusto e della difficile questione dell’applicazione della lex de maiestate (pp. 298-301).

Come si nota, si tratta di un lavoro assai stimolante, poiché il valore del «faire rire» quale barometro della vita politica è certamente indubbio. Occorre sempre ricordare, ma l’Autore ne è consapevole, che la narrazione storiografica e biografica antica a noi rimasta tende a enfatizzare i tratti conformi alla descrizione di un imperatore buono o malvagio, e la descrizione di suoi comportamenti verso la corte e il popolo possono risentire di una rappresentazione già predeterminata dalla vulgata senatoria, così come elementi invece differenzianti possono essere stati rifiutati, volti in malam partem o adeguati alla versione tradizionale. In ogni caso è inevitabile osservare che l’esperienza di vivere sotto un imperatore come Domiziano aveva reso i senatori ancora più cinici e consapevoli, come emerge da uno scambio di battute durante una cena in presenza di Nerva divenuto da poco imperatore (Plin., Ep., 4.22.5-6).[6]

Table des matières

Préface, p. ix
Remerciements, p. xi
Introduction, p. 1
Partie I. «Faire rire» et politique aux derniers siècles de la République: de l’orateur à la cité (milieu IIIe siècle – c. 44 a.C.), p. 19
Partie II. Le pouvoir des bons mots de César à Auguste (c. 80-44 a.C.): de la politique au politique, p. 143
Partie III. Le premier Principat au miroir du «faire rire» (27 a.C. – 96 p.C.), p. 277
Conclusion, p. 403
Sources et bibliographie, p. 409
Index, p. 475

Notes

[1] Nevio giocava sull’ambiguità dell’interpretazione dell’intera frase che si può intender sia Per volontà del destino a Roma i Metelli sono eletti consoli sia I Metelli sono eletti consoli per la rovina di Roma. La risposta dei Metelli fu altrettanto ambigua. Recente discussione e bibliografia in Robert Germany, ‘The Politics of the Roman Comedy’, in Martin T. Dinter (ed.), The Cambridge Companion to Roman Comedy, Cambridge 2019, pp. 66-84.

[2] Vd., per esempio, Lesley Milne, Laughter and War: Humorous-Satirical Magazines in Britain, France, Germany and Russia 1914-1918, Cambridge 2016. Un trattamento a parte meritano i numerosi studi sulla funzione della satira nelle dittature del XX secolo.

[3] Oltre alla ricca bibliografia segnalata dall’Autore – tra cui l’importante Anthony Corbeill, Controlling Laughter. Political Humor in the Late Roman Republic, Princeton 1996 – vd. anche il pionieristico articolo di Françoise Gonfroy, ‘Homosexualité et idéologie esclavagiste chez Cicéron’, DHA 4, 1978, pp. 219-262.

[4] La forza eversiva della comicità nella divina Philippica e la conseguente ira implacabile di Antonio era ancora palese oltre 150 anni dopo i fatti, vd. Iuv., 10. 124-126.

[5] Macr., Sat., 2.4.21: Temporibus triumviralibus Pollio, cum Fescenninos in eum Augustus scripsisset, ait: At ego taceo. Non est enim facile in eum scribere qui potest proscribere. Si veda una battuta analoga del retore Favorino nei confronti dell’Imperatore Adriano, HA, VHadr., 15.

[6] Ho rilevato solo alcuni refusi, p. 101 nota 106 non Volpe 1967 ma Volpe 1977 e a p. 471 non Volpe 1976 ma Volpe 1977; p. 139 man anche (per ma anche); p. 140 prendrere (per prendere); p. 158 nota 69 e 159 nota 78 e in bibliografia p. 417 Belandi (per Bellandi); p. 263 il titolo dell’opera composta da Marco Antonio è de sua ebrietate, vd. Plin., NH, 14.148; 393 Cassius Charea (per Cassius Chaerea); p. 421 il titolo del volume di Eva Cantarella è Secondo natura, non Seconda natura. Alla bibliografia augustea si possono aggiungere Gli atti compiuti e i frammenti delle opere di Cesare Augusto Imperatore a cura di Luciano De Biasi e Anna Maria Ferrero, Torino 2003. Non concordo con la traduzione di Plin., NH, Praef., 31: «cum mortuis non nisi laruas luctari»; si legge (p. 226): « Il n’y a que les vers », dit-il, « qui se battent avec les morts », mentre mi sembra da preferire la versione di Jean Beaujeu (CUF): «Il n’y a que le fantômes», dit-il, «qui se battent  avec les morts».