Un commento al libro II delle Silvae staziane si presenta come un progetto piuttosto ambizioso data la presenza sullo stesso tema del ponderoso—e il giudizio è inteso in senso sia quantitativo sia soprattutto qualitativo —lavoro di H.J. Van Dam: P. Papinius Statius, Silvae Book II. A Commentary, Leiden 1984. L’operazione condotta da C.E. Newlands, tuttavia, si giustifica e assume un suo precipuo e pieno significato alla luce degli oltre venticinque anni di studi staziani, condotti in chiave intra- e intertestuale, metapoetica, eidografica e sociologica, che separano il suo lavoro da quello di Van Dam, pioniere della renaissance critico-esegetica che ha interessato il testo delle Silvae negli ultimi due/tre decenni.
In effetti le principali acquisizioni di questo ricco parterre bibliografico, che la Newlands domina anche nelle sue accessioni più recenti e del quale, con le acute osservazioni del suo prestigioso saggio Statius’ Silvae and the Poetics of Empire, Cambridge 2002, è ella stessa pars magna, sono documentate e valorizzate all’interno del volume in sede di introduzione, ma anche attraverso richiami e puntualizzazioni presenti nelle note di commento.
Tra i temi caldi del dibattito critico opportunamente ripresi dalla Newlands si situa senz’altro il rapporto tra occasione e occasionalità, improvvisazione e retractatio, performance orale e testo scritto nella produzione di un autore che sviluppa una poetica dell’ impromptu nel comporre sull’onda di un kairos, reale ma spesso anche fittizio, testi assai rifiniti per i quali, però, nel pubblicarli a posteriori riuniti in una raccolta, suggerisce di fatto un significato e una fruizione che trascendono quelli meramente legati all’occasione. Su un versante più sociologico oggetto d’indagine è il motivo del patronage, dissimulato dietro il linguaggio soft dell’ amicitia, ma di fatto inteso come a “balanced system of exchange” (p. 19), nel quale la poesia stessa è attratta quale bene di scambio, tra uno o meglio—in epoca post-mecenaziana—più patroni, detentori di un potere economico-sociale, e un poeta, detentore invece di un potere culturale. Sempre centrale, in relazione proprio all’identità e alle scelte biotiche dei patroni, è la dialettica pubblico-privato che, come ben nota la Newlands, soprattutto nel libro II i cui componimenti si indirizzano tutti a personaggi estranei alla corte imperiale e alla vita politica, si risolve spesso a favore del polo privato, individuato come cultore di valori ormai perduti nel turbolento mondo della politica. Questo comporta una ridefinizione della categoria di nobiltà su basi etiche e non di rango, ma anche l’elaborazione di una nuova e(ste)tica in cui ossimoricamente i principi dell’antica morale quiritaria si coniugano con moderne istanze di raffinatezza e lussuosa eleganza nel rispetto dei precetti di un epicureismo adattato all’evoluzione dei costumi. Ne consegue che la ricerca di un’atarassica condizione di quies può comportare il rifiuto del negotium in favore di un otium culturalmente fecondo, ma non implica la rinuncia a un tenore di vita elevato i cui status symbol, come ad esempio le ricche ville e le prestigiose collezioni d’arte oggetto delle ekphraseis staziane, lungi dall’essere bollate come indice di luxuria, divengono manifestazioni di distinction e fattori importanti nell’(auto)costruzione di un’identità socio-culturale dei patroni, fautori della poesia.
Questi nodi teorici forti, emergendo con risalto ora maggiore ora minore, nelle sintetiche pagine introduttive del volume si alternano con informazioni più divulgative, ma ovviamente indispensabili, di carattere biografico, prosopografico e cronologico relative a Stazio, ai dedicatari dei suoi carmi e alle date di composizione e pubblicazione dei singoli libri delle Silvae. Non mancano neppure considerazioni circa i tituli dei componimenti tramandati dalla tradizione manoscritta, sulla cui autenticità si avanzano dubbi seppur da una posizione di cauto agnosticismo, e sul titolo dell’opera, giustamente ricondotto a una pluralità di suggestioni che compenetrano l’idea di varietas con quella di composizione estemporanea nonché il gioco etimologico bilingue con il greco hyle, un referente senz’altro imprescindibile ma di difficile decriptazione per la sua complessa polisemia ben illustrata ad esempio dal contributo di E. Malaspina (Hyle-silva (et alentour). Problèmes de traduction entre rhétorique et métaphore, «Interférences Ars scribendi» 4, 2006, messo in linea il 14 novembre 2006) che forse si sarebbe potuto citare. Parimenti proficua si sarebbe rivelata la menzione del contributo di F. Ripoll ( Martial et Stace: un bilan de la question, «Bulletin de l’association Guillaume Budé» 2002, pp. 303-323) circa l’annosa questione dei rapporti tra Stazio e Marziale, ulteriore tema di carattere generale accennato nell’ Introduction.
In merito, invece, a questioni più specifiche, in pagine decisamente più pregnanti e incisive viene delineata l’architettura strutturale e tematica del libro II delle Silvae. Nell’alternanza di tre componimenti brevi e leggeri nei toni (2,3; 2,4; 2,5), di carattere epigrammatico, come suggerisce Stazio stesso nella praefatio (ll. 14 ss.), con altri più ampi e seri riuniti a coppie (2,1 e 2,2; 2,6 e 2,7), nella presenza di sottili interconnessioni tra i componimenti stessi nonché nella scelta di incorniciarli tutti tra due carmi (2,1 e 2,7) imperniati sul motivo della morte prematura si coglie un ben preciso disegno autoriale. Molto convincentemente, poi, sul piano dei contenuti, in un libro in gran parte composto di epicedi/ consolationes e descriptiones, si individuano quali temi portanti, paradossalmente e sapientemente opposti tra loro, quello della morte quale forza indomita della natura e, viceversa, quello del dominio dell’arte sulla natura. Seguono ancora notazioni su lingua, stile e versificazione con cui, in un’analisi assai condivisibile, nell’additare Stazio quale precursore del “jeweled style” (p. 26) della poesia tardo- antica, si rimarca il carattere denso della sua dizione che spesso crea in un’unica parola o iunctura una sovrapposizione di molteplici valenze semantiche, spinta talvolta al limite dell’ambiguità o dell’enigmaticità. In ultimo trovano spazio alcune rapide informazioni sulla tradizione manoscritta e sulla ricezione delle Silvae dall’antichità ai giorni nostri che, nel bypassare alcune vexatae quaestiones ( e.g. l’identificazione del codice M con l’apografo commissionato da Poggio Bracciolini di un manoscritto da lui rinvenuto presso Costanza oppure con una sua copia e la visione autoptica o meno di M da parte di Angelo Poliziano), si concludono con una rassegna dei principali lavori moderni di critica e esegesi del testo nella quale stupisce l’assenza di riferimenti, confermata poi anche in bibliografia, alle edizioni di H. Frère – H.J. Izaac (1944), A. Marastoni (1970) e A. Traglia (1978), rispettivamente, per i tipi di Belles Lettres, Teubner e Paravia.
All’introduzione segue il testo delle sette silvae e della relativa epistola prefatoria, che riproduce l’edizione oxoniense di E. Courtney (1992), integrandola in alcuni loci, utilmente evidenziati in una tabella (p. 31), con quella di D.R. Shackleton Bailey (Loeb 2003), mentre non prende in considerazione l’opera di G. Liberman (Stace, Silves. Édition et commentaire critiques, Paris 2010), evidentemente uscita quando ormai il volume della Newlands era in una fase molto avanzata di elaborazione. Si tratta di una linea ecdotica piuttosto incline all’emendamento, anche se, almeno per i passi più dibattuti, le note del commento forniscono ragguagli sul testo tràdito e su eventuali congetture precedenti, sopperendo in gran parte all’assenza di apparato. Le disquisizioni semantiche e le proposte di interpretazione che le medesime note offrono sempre a proposito dei passaggi testuali più controversi non suppliscono invece in toto alla mancanza di una traduzione inglese.
Dopo il testo si sviluppa un commento lemmatico di taglio prevalentemente referenziale, anche se a tratti aperto a notazioni, seppur concise, di impostazione più saggistica circa i già menzionati temi caldi del recente dibattito critico staziano. Cifra distintiva delle note è una sobria brevitas, conforme alle consuetudini editoriali della collana dei Cambridge Greek and Latin Classics in cui il volume si inserisce, che spinge la Newlands a snellire rispetto al precedente lavoro di Van Dam la mole dei riferimenti sia testuali sia bibliografici (soprattutto per quanto concerne i titoli più datati), operando una selezione e rinviando spesso a repertori e bibliografia secondaria nonché al lavoro stesso di Van Dam. Improntate a criteri di sintesi e pregnanza sono anche le interessanti considerazioni introduttive premesse al commento di ogni singola silva e deputate principalmente all’inquadramento eidografico del testo. Con affermazioni che riprendono nello specifico spunti già presenti nell’introduzione generale del volume, in una prospettiva meno incline di quella di Van Dam all’individuazione di partizioni retoriche, la Newlands ben rimarca la peculiare commistione di generi che a mio parere è tratto distintivo di quello che io stessa ho definito il non-genere delle Silvae (cf. A. Bonadeo, L’Hercules Epitrapezios Novi Vindicis. Introduzione e commento a Stat. silv. 4,6, Napoli 2010, p. 156). Così, ad esempio, evidenzia la creazione di una nuova tipologia di componimento, il postumous birthday poem, attraverso l’incrocio dei tratti del genethliacon con quelli della exitus literature oppure l’espansione di motivi epigrammatici in full-scale poems oppure ancora la ricerca di una tensione tra registri diversi mediante l’applicazione di metri e toni epici ad argomenti umili e/o elegiaci o, per converso, mediante la modulazione in tono minore di temi più elevati. Queste asserzioni di carattere generale sono poi sostanziate dai rilievi più puntuali delle note che, a partire da questioni linguistico-stilistiche e metrico-prosodiche, sviscerano nel dettaglio i meccanismi dell’intertestualità e le tecniche staziane di riuso di eventuali ipotesti e/o referenti allusivi. Ben sottolineati sono anche i rapporti intratestuali interni sia alle Silvae sia all’intero corpus staziano con particolare attenzione ai casi di autocitazione e alle spie di autopromozione da parte di un poeta il cui linguaggio peraltro assume spesso risonanze metapoetiche anche in contesti apparentemente insospettabili come le descriptiones. Particolare sensibilità rivelano, infine, le analisi lessicali attente a cogliere la stratigrafia semantica sottesa ai singoli termini che spesso si compiace anche di raffinati puns interlinguistici greco-latini. Anzi a proposito dei grecismi lessicali mi spingerei oltre la Newlands evidenziando nei numerosi aggettivi di colore presenti nel libro II le potenziali valenze extra-cromatiche di cui si possono caricare in rapporto alla semantica dei loro corrispettivi greci. Così, solamente a titolo di esempio, nel nesso viridis… Galatea di silv. 2,20 il pun etimologico tra il nome della ninfa e il termine greco indicante il latte, gala, che la Newlands sostiene essere rifiutato da Stazio proprio per la presenza dell’epiteto viridis, potrebbe invece essere recuperato per via di doctrina attribuendo all’aggettivo non o non soltanto il valore tonale di verde, riferito all’ habitat acquatico della ninfa, ma anche quelle notazioni extra-cromatiche, potenzialmente riferibili alla ninfa stessa ma anche al latte, di freschezza/giovinezza, brillantezza e soprattutto umidità/liquore presenti nel greco chloros.
Una bibliografia divisa in tre sezioni, relative a repertori e strumenti, edizioni e commenti e infine saggi citati, chiude un volume che si candida senz’altro a divenire un classico degli studi staziani nel quale si apprezzano la densità, l’acume e l’attualità degli spunti critici che soltanto in qualche caso a tutto vantaggio di un pubblico di non- flavianisti si sarebbero potuti forse esprimere in una forma più ampia e distesa.