L’opimo volume di Dietrich si segnala per la novità della prospettiva di analisi applicata alla pittura vascolare greca: l’autore si concentra infatti sui dettagli accessori di una raffigurazione, quali elementi vegetali, pietre e massi (anche in veste architettonica) e linee di sfondo, di norma trascurati nello studio del soggetto figurato. I risultati di tale dettagliata indagine, che ha anche un approccio diacronico, portano a confermare una caratteristica piuttosto assodata della pittura vascolare attica, ossia una generale inapplicabilità della categoria iconografica di paesaggio come viene concepita nell’arte figurativa moderna. Nella conclusione l’autore esprime con chiarezza il concetto, quando afferma che l’applicazione del criterio di paesaggio alla pittura attica è destinato a non produrre risultati, giacché l’ Ort non è una proprietà uniforme della decorazione pittorica nel suo insieme, bensì è variabile e circoscritta a ciascuna figura animata nell’ambito di un medesimo dipinto. A tale esito piuttosto prevedibile si arriva tuttavia attraverso un procedimento metodologico affatto innovativo, che carica questa stessa acquisizione di valenze ulteriori.
Nelle pagine introduttive l’autore si preoccupa di inserire il proprio lavoro nel contesto dell’ampia bibliografia precedente sul tema della percezione e rappresentazione della natura nell’arte greca antica. Dietrich ripercorre le principali teorie del XIX e XX secolo: per prima quella ottocentesca, espressa nel modo più compiuto da Karl Woermann, secondo cui l’arte greca avrebbe un’indole più plastica che pittorica, e le sculture non necessitano di uno sfondo paesaggistico artefatto poiché si trovano già inserite nel paesaggio concreto. A questa segue all’inizio del Novecento la nota tesi per cui all’origine dell’assenza figurativa del paesaggio naturale starebbe il rapporto ancora simbiotico e preindustriale tra uomo e natura al tempo dei Greci, tanto che essi non avrebbero ancora percepito la natura come qualcosa di estraneo a sé e di conseguenza non avrebbero sentito la necessità di raffigurarla.1 Nella seconda metà del XX secolo arrivò la prima spiegazione di tipo tecnico per la carenza di eleenti paesaggistici nella pittura greca, formulata da Schweitzer e fondata sulla non ancora acquisita prospettiva spaziale da parte dei pittori greci. Questa teoria si allinea al metodo adottato da Dietrich, per il fatto di fondarsi su criteri interni al dipinto, e non esterni a esso come le precedenti, tant’è che l’autore stesso ammette come essa sia tuttora sostenibile. A tal proposito Dietrich avrebbe potuto programmare qualche pagina dedicata al confronto tra le due teorie, quella della “prospettiva corporea” di Schweitzer e la propria, cioè della superficie vascolare decorabile come orizzonte spaziale univoco. A conclusione di tale excursus bibliografico l’autore rammenta come vi siano state anche voci che contrastarono l’idea di un’assenza della natura nell’arte greca. A partire dalla dissertazione di Heinemann del 1910 si susseguirono gli sforzi di dimostrare che in effetti una sensibilità per la natura è rintracciabile nella pittura greca.2 Si è tuttavia sempre trattato di una ristretta quantità di reperti esemplari che, come fa notare Dietrich, non hanno la forza per contraddire la generale impressione di un ruolo marginale di natura e paesaggio nell’arte figurativa greca.
Il volume consta di due macrosezioni. La prima e più cospicua studia sistematicamente l’aspetto e la funzione interna al soggetto figurato di elementi marginali quali linee di superfici marine (pp. 23-39), rocce, massi e pietre (39-65), alberi, rami e piante (65-92) e strutture architettoniche (92-105). Inoltre vengono considerate anche le cornici della figurazione, sia quella superiore sia l’inferiore e le laterali (106-177). Segue una disamina estremamente dettagliata dei caratteri dei riempitivi vegetali in forma di rami e arbusti (177-230) e infine una trattazione delle linee paesaggistiche interne allo spazio figurato, fenomeno circoscritto allo stile a figure rosse (230-302).
La seconda sezione si sposta da una prospettiva di analisi interna alla raffigurazione a una esterna, di tipo semantico e, nell’ordine degli argomenti trattati, segue un criterio cronologico. L’autore si domanda se non sia comunque ammissibile attribuire un senso ulteriore a un oggetto rappresentato sulla scena, che non sia il semplice essere ciò che è (pietra, ramo, ecc.); se insomma una pietra, oltre che significare una semplice pietra, possa alludere a una realtà ambientale. Anche in questo caso tale riscontro si rivela possibile solo in funzione del rapporto con le figure animate: gli elementi paesaggistici non sono in grado di rimandare in sé e per sé a uno sfondo ambientale unitario, piuttosto giustificano la loro presenza e il loro ‛messaggio’ sempre in relazione a un personaggio. Si potrebbe affermare che la loro funzione sia più narrativa che descrittiva. Da ciò consegue la polisemia di tali elementi: un masso tenuto da una figura può significare ora forza fisica, ora inciviltà e brutalità, ora sconfitta (311-341). Analogamente, la dimensione semantica di strutture litiche fisse, in forma di fonti, seggio giacigli, va proiettata sul personaggio con cui entrano in relazione/contatto (pp. 342-365): le fontane applicate a una roccia generano un paradosso tra civiltà e selvatichezza che si riferisce al personaggio protagonista; i massi come sedili o giacigli trasmettono l’idea dell’accidentalità e occasionalità nell’atteggiamento della figura seduta o sdraiata.
In un successivo capitolo vengono passate in rassegna quelle scene nelle quali si constata una certa autonomia figurativa formale degli elementi litici rispetto ai personaggi con cui interloquiscono iconograficamente, con conseguenti verosimiglianza e naturalezza accresciute. Si tratta di una tendenza che ha le sue avvisaglie già nello stile a figure nere, ma che trova più ampio spazio in quello a figure rosse. Tale fenomeno si riscontra sia nei massi come strutture d’appoggio (366-372), sia nelle pietre come armi da getto (372-389). Segue un approfondimento sul tema del masso come punto d’appoggio per un guerriero in procinto di cadere (393-412): l’integrazione tra il personaggio e l’oggetto non si limita più alla funzione attributiva di quest’ultimo rispetto al primo, ma ne acquisisce anche una drammatica o ‛situazionale’, come la definisce Dietrich. Più in generale, nello stile a figure rosse si registra una proliferazione degli elementi paesaggistici, anche in scene dove prima non comparivano e in nuovi contesti iconografici, ad esempio urbani (447-459) e femminili (459-479). Chiudono la seconda sezione un confronto funzionale tra massi e linee di paesaggio, laddove compaiono entrambi (480-493), e una panoramica degli schemi di disposizione delle figure nello spazio figurato (493-538).
Il riassunto finale (541-547; traduzione inglese 548-554), oltre che ripercorrere i concetti fondamentali, riuniti sotto la più ampia constatazione dell’eteronomia funzionale e semantica degli elementi paesaggistici, raccoglie alcune ulteriori considerazioni significative e confronti con fenomeni analoghi riscontrabili nella statuaria e nella letteratura greche (in special modo il teatro).
Preme a questo punto evidenziare le acquisizioni a mio parere più significative di questo lavoro. Innanzitutto Dietrich stabilisce alcune distinzioni concettuali essenziali alla comprensione della spazialità nella pittura vascolare greca: quella tra Bildraum, cioè lo sfondo paesaggistico della scena, e Bildfeld, cioè la superficie o spazio figurativo. Secondo l’autore il primo concetto non è applicabile alle raffigurazioni vascolari, che non si preoccupano di precisare l’aspetto dell’ambiente entro cui si svolge l’azione. Lo si può ammettere al limite soltanto per quei casi in cui esso coincida col secondo concetto, ossia laddove compaiano strutture architettoniche che occupano tutta la superficie figurata e dunque la inquadrino completamente.
A tale opposizione ne segue una seconda: quella tra Raum e Ort, cioè tra lo spazio iconografico entro cui è iscritta la scena e quello propriamente geografico o topografico, anch’esso, secondo Dietrich, mai rappresentato con certezza sui vasi. Prova ne sia che i medesimi elementi spaziali di una raffigurazione (ad esempio le linee di fondo e i margini) non costituiscono un contesto ambientale omogeneo per tutte le figure coinvolte: possono identificare il suolo per una, il mare per un’altra, all’interno della stessa scena! L’unico vero spazio che accomuna tutte le figure è pertanto la superficie stessa del vaso.
Una terza importante deduzione di Dietrich è che gli elementi ambientali che occorrono sulla scena non giustificano mai in sé e per sé la propria esistenza, ma sono sempre subordinati al loro rapporto con uno o più personaggi. La forma e la funzione di una roccia o un ramo di fronde dipendono sempre dall’aspetto della figura con cui entrano in relazione, relazione che può essere semplicemente iconografica (riempimento dello spazio dipinto) ovvero anche funzionale (ad esempio quando la forma di un masso si accorda a fare da sedilea un personaggio). Dietrich li annovera nel computo degli attributi delle figure, con le quali dunque formano un tutt’uno iconografico.
Ne consegue che non ha più senso parlare di relazione tra spazio e tempo nella pittura attica: le figure (= tempo) non si muovono all’interno di uno spazio immutabile, perché lo spazio si muove con loro, o meglio, gli elementi spaziali (vegetali e rocce) adattano la loro forma ai movimenti delle figure e dunque contribuiscono anch’essi a dare la suggestione del movimento.
La conseguenza ultima di tali considerazioni è espressa a p. 137. Ogni elemento della scena dipinta, sia esso umano o naturale, risponde a un solo criterio, esterno a essa, ossia non semantico: il Bildfeld. Viene così a essere eliminata alla radice l’antica quaestio dell’antropocentrismo e della svalutazione o indifferenza verso la natura circostante da parte della pittura vascolare greca, giacché entrambe queste categorie cessano di avere valore, essendo subordinate a un orizzonte iconografico più ampio: lo spazio da decorare. La superficie decorata del supporto è infatti l’unico vero spazio entro cui tutte le figure si muovono ed esso deve a sua volta essere inserito nell’ambiente reale in cui il recipiente si trova esposto (un simposio, una cerimonia religiosa…). Non è allora più l’osservatore che si immerge in uno spazio figurato fittizio, ma le figure dipinte che entrano nello spazio dell’osservatore.
Notes
1. In questo caso ci si riferisce al lavoro di H. Rose, Klassik als künstlerische Denkform des Abendlandes, München, Beck 1937.
2. M. Heinemann, Landschaftliche Elemente in der griechischen Kunst bis Polygnot, 1910; A. Schober, Die Landschaft in der Antiken Kunst, 1923; A. Pfitzner, Die Funktion des landschaftlichen Elementes in der streng rotfigurigen griechischen Vasenmalerei, 1937; L. Nelson, The Rendering of Landscape in Greek and South Italian Vase Painting, 1976; J.M. Hurwit, The Representation of Nature in Early Greek Art, in D. Buitron-Oliver (ed.), New Perspectives in Early Greek Art, 1991, 33-62; G. Hedreen, Capturing Troy. The Narrative Functions of Landscape in Archaic and Early Classical Greek Art, 2001.