Il denso volumetto di Tessier comprende, oltre alla premessa, sei capitoli non numerati che in parte riprendono alcuni suoi precedenti lavori, e che trattano l’arduo argomento della sticometria, intesa come definizione del verso e individuazione dei suoi confini nei canti della melica greca.
L’indagine dello studioso ripercorre anzitutto le tappe del dibattito scientifico sul versus tra i secoli XVIII e XIX, che vide come principali protagonisti Hermann e Böckh. È in questo periodo che per la prima volta il concetto di stichos è contrapposto a quello di colon non sulla base del criterio quantitativo noto da alcune testimonianze antiche (raccolte a p. 12), per cui il primo sarebbe una sequenza superiore, il secondo inferiore alle tre sizigie, ma in base a un criterio quantitativo e tassonomico, per cui qualunque sequenza, indipendentemente dalla sua estensione, assurge allo statuto di verso se è dimostrabile la sua indipendenza ritmica da altre sequenze.
Tessier esamina dettagliatamente i contributi di Hermann e Böckh che hanno portato in modo progressivo — e travagliato — al paradigma scientifico ancora oggi comunemente condiviso, per cui il confine ritmico, che articola nel loro svolgersi le masse meliche, è individuato in base ai certa indicia della fine di parola, dello iato ( haud brevians) e della sillaba finale adiaphoros.1
Presupposto dell’indagine di Hermann era la preminenza, sulla tradizione grammaticale, dell’ingegno del filologo, che individuava i ritmi congiunti nel verso da una legge certa e immutabile, prescindendo dalla observatio dei poeti (pp. 20-21). Böckh obiettava a questa posizione, in cui si poteva ravvisare una petizione di principio, la necessità di indizi oggettivi, che guidassero il critico anche ai fini dell’ecdotica. Tessier, con continui e puntuali riferimenti, dimostra che dei tre criteri cosiddetti böckhiani quello dello iato e quello dell’ultima sillaba indifferente furono identificati più volte anche da Hermann, ma che quest’ultimo riteneva il criterio della pausa verbale per lo più insicuro e poco cogente.
Tessier sottolinea che questo è il punto di maggior distacco con la dottrina di Böckh, in cui, com’è noto, la fine di parola è indizio di per sé necessario (anche se non sufficiente) per la determinazione dei confini stichici. Nel sottolinearne l’importanza, Böckh si rifaceva alla dottrina metrica antica, di cui era rimasta traccia nel precetto efestioneo πᾶν μέτρον εἰς τελείαν περατοῦται λέξιν (14, 22 Consbruch). Tessier inoltre ricorda la polemica fra Böckh e Ch. W. Ahlwardt (pp. 35-39), che rivendicò la primogenitura della norma relativa alla pausa verbale. Di fatto, Ahlwardt precedette Böckh di qualche anno nella enunciazione del criterio, ma negò la validità degli altri due.
Dal canto suo Hermann, obiettando che il sistema böckhiano si basava su una campionatura troppo ristretta, limitata agli epinici di Pindaro, e poteva pertanto anche non essere valido per i poeti scenici, propose una classificazione più complessa, che distingueva i versi in nexi (ossia in sinafia), non nexi (divisi da pausa verbale) e seminexi (gli asinarteti, che ammettono l’una e l’altra opzione fra le loro componenti). Di conseguenza sanciva la liceità di una responsione antistrofica fra sequenze in sinafia (cui tributava lo statuto di stichoi) e versi delimitati da pausa verbale, e/o dagli altri criteri.2 Hermann inoltre ipotizzava due diverse entità ‘sovrastichiche’, i confini delle quali erano determinati dalla pausa verbale: esse erano il sistema, composto esclusivamente da versi nexi, e la strofe, che poteva comprendere tutti i tipi di verso o anche più sistemi.
Nei contributi di Hermann e Böckh sono ricordati, com’è noto, altri criteri, ma entrambi li ritengono non vincolanti per la definizione del confine stichico: l’interpunzione e la pausa sintattica, il cambio di personaggio, e quello che nella formulazione di Böckh suona come comparatio metrorum diligens et usus veterum cognitio; in quest’ultimo criterio va riconosciuta una “norma di equilibrio e di misura” (p. 83), e non l’apertura a un’interpretazione soggettiva.
Sulla pausa sintattica Tessier (pp. 66-67) riferisce gli interessanti risultati di un’indagine di Giannini sulle Olimpiche 6, 7, 8 e 9, realizzata nel 2008: in questi carmi soltanto nel 25% dei casi sembra riscontrabile la coincidenza fra fine di verso e pausa sintattica; di qui sembra potersi dedurre la sostanziale indifferenza di quest’ultima ai fini sticometrici. Nei canti della tragedia è tuttavia riscontrabile la tendenza opposta: ciò è suggerito dai risultati dello studio di Stinton sui canti delle tragedie non frammentarie, ove, su 694 fini di verso individuate dallo studioso («period-ends» nella sua terminologia, vd. sotto) soltanto 112 non corrisponderebbero a una pausa di senso.3 Di opinione diversa è Tessier, che ritiene la percentuale degli enjambement sul totale degli stichoi “una ratio piuttosto sostenuta” e dubita (p. 82, n. III) dell’attendibilità della sticometria di Stinton, per la presumibile alta incidenza che può aver giocato in essa il criterio maasiano, invero alquanto infondato, che proibisce la contiguità degli ancipitia.
Quanto alla cognitio metrorum, interessanti risultano le considerazioni di Tessier sulla Pitica 12 (pp. 79-81): in base a tale criterio egli propone di riconoscere un verso autonomo anche nel secondo colon di questo carme, benché esso, a differenza degli altri cola della strofe, non sia delimitato da uno dei due certa indicia; l’estensione uguale a quella degli altri stichoi, così determinati, sarebbe un argomento a favore di tale ipotesi.
Anche in altri casi, Tessier documenta la tendenza da parte degli editori a evitare la ripartizione stichica: così nella Nemea 6 Snell e Maehler stabiliscono otto versi, contro i nove individuati da Böckh, per eliminarne due di minore estensione; similmente, nel canto pseudo-amebeo di Agatone in Tesmoforiazuse 101-129, la sticometria di Austin e Olson, attenendosi ai soli criteri ‘böckhiani’, individua due sole pause di verso. Zimmermann, invece, tenendo conto di altri criteri non ‘cogenti’, come i cambi di persona (poco importa se fittizi), ne individua ben dieci. In tutti questi casi Tessier biasima il pavor seiungendi di alcuni editori e si dichiara favorevole a un’analisi meno cauta, che valorizzi i presupposti teorici di Böckh in ogni loro aspetto.
Una parte del dibattito scientifico, di cui Tessier ripercorre le linee, riguarda il problema della divisione di parola metrica per mezzo del confine stichico. Si tratta in particolare di prepositive (comprese alcune congiunzioni subordinanti) e postpositive, collocate rispettivamente all’inizio e alla fine del verso. Böckh tende ad ammettere il fenomeno in Pindaro, sia pure come eccezionale, e interviene per eliminarlo solo in alcuni casi (Tessier, pp. 51-53, con tabelle sinottiche). Anche Tessier, in modo deciso, lo ammette, come dimostra la sua analisi di alcuni passi del dramma: ad esempio in Sofocle, Elettra 841, egli giudica un’inutile normalizzazione metrica gli interventi recepiti da Lloyd-Jones e Wilson, per evitare che un γάρ chiuda il verso (pp. 68-69); viceversa, negli Acarnesi individua dei versi chiusi da prepositive monosillabiche: l’articolo ὁ a v. 207 e la congiunzione ἤ a v. 569 (pp. 69-74). A sostegno del primo esempio richiama il cosiddetto schema Sophocleum ricorrente nei trimetri del tragico (p. 72). Tornando al testo pindarico, Tessier osserva come anche le elisioni siano evitate se occorrenti in fine di verso. Böckh, in particolare, si dichiarò in un primo momento propenso a conservare la paradosis nel caso di un polisillabo eliso in fine di verso, intervenendo solo sulle particelle. In seguito tuttavia cercò di ovviare all’elisione dei polisillabi con una diversa suddivisione stichica (vd. Tessier pp. 53-55). Un’altra questione trattata nel volume è quella della duplice etichetta verso/periodo, vocaboli che talora definiscono indifferentemente il verso ‘böckhiano’, talora indicano invece fenomeni diversi. Tessier osserva come si sia creata, soprattutto nella bibliografia anglosassone, una tassonomia non cristallina che implica una gerarchia di sequenze di diversa estensione e importanza. Mentre Rossi e, in un primo momento, Irigoin, ritenevano il periodo un raggruppamento, intermedio tra verso e strofe, di “sequenze legate da una comunanza metrico-ritmica significativa” (Tessier p. 63), Irigoin avrebbe in seguito distinto periodo (= verso ‘böckhiano’) e verso (sequenza in sinafia prosodica ma non verbale con la successiva). Va inoltre ricordata la distinzione fra periodo maggiore e minore cui allude Stinton, e che è poi ripresa da West e Parker (Tessier, p. 62), nonché il discrimine, ugualmente emerso nella bibliografia ‘anglofona’, fra verso lirico (=periodo) e verso recitativo. La distinzione fra periodo e verso è conseguenza, secondo Tessier, della stessa cautela che porta a delimitare una sequenza autonoma solo in presenza di iato e/o brevis in longo (vd. gli esempi sopra), producendo versi molto lunghi, ai quali sembra meglio adattarsi un’etichetta tassonomicamente superiore a quella di verso.
Ma è documentabile nella prassi ecdotica anche la tendenza opposta, che porta a recepire con disagio sequenze che sembrano troppo brevi per costituire dei versi, benché l’occorrenza dei segnali ‘böckhiani’ dimostrino la loro indipendenza ritmica. Questo è il caso di alcune successioni docmiache, unite nella colometria manoscritta (per lo più ‘dimetri’), all’interno delle quali ricorrono indizi di fine di verso. Seidler, che articolava i docmi in sistemi di tipo hermanniano (e quindi composti di versi nexi, vd. sopra), giustificava queste pause, ritenute meno ‘forti’ di quelle sticometriche, perché corrispondenti a esclamazioni, interrogazioni o allocuzioni. Böckh invece riaffermava il suo sistema teorico, salvo mostrare in un secondo momento alcuni ripensamenti nella sua edizione dell’ Antigone (Tessier, p. 89). Anche Conomis mostrò la tendenza a conservare i segnali di fine di verso in presenza di pausa sintattica o di cambio di interlocutore, intervenendo dove queste circostanze ‘attenuanti’ non si presentassero. Tessier non condivide né l’atteggiamento dello studioso, né la proposta, avanzata più di recente da West, di riconoscere nelle pause tra i docmi una period-end più tenue, una sorta di staccato che non comporta la fine di verso, fenomeno comunque non dimostrabile.4 Tessier ammette invece stichoi anche non docmiaci brevissimi, costituiti da un solo molosso (Ἄπολλον in Agamennone 1080) o da un cretico (in Pindaro, fr. 107, 14 Lavecchia).
Un’altra interessante questione è relativa a quello che Tessier definisce il tabu del dattilo acataletto finale, ossia l’assunto che una sequenza che si chiude con un doppio breve (l’elemento biceps della terminologia maasiana) non possa essere ritenuto finale di verso; ciò porta ad evitare di segnare il confine sticometrico dopo una sequenza dattilica ‘pura’ (ossia con il biceps finale non contratto né catalettico) anche laddove sia presente uno iato: è il caso degli alcmani di Sofocle, Filottete 1205 (seguito fra l’altro da un cambio di battuta), e di Aristofane Pace 116. Tessier non si pronuncia in questa sede sull’interpretazione di questi passi, ma ripercorre la storia della questione, dimostrando che per il tabu non vi sono reali appigli nell’opera di Böckh: esso si è affermato a partire da Fraenkel, e poi con Maas. Tessier ripercorre poi le posizioni di Wilamowitz, Schroeder, Korzeniewski, Dale, e affronta, fra l’altro, la correlata e dibattuta questione della quantità della sillaba chiusa con vocale breve in fine di verso (pp. 106-107). Fra i numerosi passi esaminati, segnalo Edipo a Colono 228-235, una lunga successione dattilica ove Rossi individuava, in assenza di indizi ‘böckhiani’, un lungo pnigos di ventisei dattili:5 anche in questo caso è individuabile il presupposto che gli alcmani non possano costituire sequenze autonome. Refusi (pagina); picolo (8); das (15); sächische (19); dipaniarsi (25); Zeir (29); Pindarico (44); contiungunt (52); c-est (63); 1981 (64: 1978); yeld (68); Berlinese (78); v. 8 (79); infra (82); manca una parentesi (94); Pindarischen (135); Österreichischen (141); frühgeschichte (143).
Notes
1. Concetto, quest’ultimo, trattato in modo non sempre privo di ambiguità: si vedano le considerazioni di Tessier, p. 21.
2. Al centro del dibattito fra questi studiosi è l’ Olimpica XIV di Pindaro, ove ai vv. 1-2, separati da iato (λαχοῖσαι / αἵτε) corrispondono i vv. 13-14, fra i quali si divide il vocabolo φιλησί- /μολπε. Mentre per Hermann era questa un’esemplificazione calzante delle sue teoria, Böckh, dopo aver in un primo momento giustificato questa eccezione come apparente, in considerazione del composto verbale, optò in seguito per un intervento atto a eliminare lo iato ai vv. 1-2. La storia dell’ecdotica di questo passo è trattata da Tessier nel secondo capitolo (pp. 19- 57), passim.
3. P. Giannini, ‘Enjambement, colometria e performance negli epinici di Pindaro’, in G. Cerboni Baiardi, L. Lomiento, F. Perusino (edd.), Enjambement. Teorie e tecniche dagli antichi al Novecento, pp. 65-80; T. C. W. Stinton, CQ 37, 1977, pp. 27-66 (= CP, pp. 310-361).
4. Sulla questione, Tessier rinvia in particolare all’analisi di E. Medda, SemRom 3, 2000, pp. 115-142.
5. L. E. Rossi, ‘La sinafia’, in E. Livrea, G.A. Privitera (edd.), Studi in onore di Athos Ardizzoni, Roma 1978, p. 802.