Il lavoro di E. Jeunet-Mancy si colloca all’interno di un progetto editoriale che ci auguriamo possa fornire un utile complemento all’ Editio Harvardiana, ferma purtroppo ancora oggi ai primi cinque libri dell’ Eneide. Tale benemerito progetto non può dunque non essere accolto dagli studiosi di Servio e di Virgilio (e non solo, naturalmente) con speranza e curiosità. Perciò l’attenzione dovuta a quest’opera va oltre, crediamo, la valutazione minuta di singoli punti, più o meno discutibili, ma dovrebbe indubbiamente analizzare questioni particolarmente nodali e scelte sostanziali, nel tentativo di individuare ed esprimere le attese di un pubblico anche specialista, più o meno soddisfatte in quest’occasione. Oltre all’incompiuta Harvardiana (vol. II in Aen. I-II, Lancaster 1946 e vol. III in Aen. III-V, Oxford 1965), noi disponiamo oggi dell’edizione di Georg Thilo (Lipsia 1881-1887), unica edizione completa del commento di Servio a tutta l’opera di Virgilio (mentre a Hermann Hagen è da attribuire la cosiddetta Appendix Serviana del 1902) e dell’edizione del commento al IX libro (1996) e al VII libro (2003) dell’ Eneide ad opera di Giuseppe Ramires.
Coerentemente con la serie in cui appare, il volume offre, oltre all’edizione del testo, la traduzione che, insieme alle “notes compleméntaires”, costituisce un’assoluta e importante novità nel campo degli studi serviani, e un’ampia e articolata introduzione. Tale introduzione è sicuramente degna di interesse, anche se nella parte relativa alle conoscenze attuali riguardo al commento, necessariamente sintetica, l’autrice pecca talvolta di superficialità e, seppure sfiorando questioni che potrebbero risultare interessantissime, si sottrae allo sforzo di approfondimento che sarebbe necessario: per esempio ella si chiede se il commento di Servio, come lo possediamo noi oggi, sia indirizzato agli allievi, rappresentando dunque la testimonianza diretta del suo insegnamento, o piuttosto ai loro professori (p. xvi). Pur avendo dedicato giustamente un certo spazio alla testimonianza dei Saturnali di Macrobio (pp. viii- x), Jeunet-Mancy non affronta il problema della profonda differenza tra il commento di Servio e le osservazioni di Servio in Macrobio, dove potrebbe trovare senz’altro motivi di riflessione: il Servio che si rivolge ai dotti non sarà quello di Macrobio piuttosto che quello dei nostri commenti, impegnato a dispensare conoscenze quanto più possibile “multidisciplinari” e di vario livello, anche abbastanza elementare? Un altro esempio: quando viene affrontato molto, troppo, brevemente, il tema della tradizione educativa in cui si colloca l’opera di Servio, fornendo poco più che una nuda lista di “ prédécesseurs ”, viene sollevato l’inquietante dubbio (p. xv) che il nome di Probo, che si ritrova abbastanza spesso nel commento, non sia quello autorevole di Marco Valerio Probo (I sec.), ma di un grammatico del IV sec. Di questo dubbio non si dà la ragione né tantomeno si fornisce alcun elemento per l’identificazione di quest’altro grammatico: è solo il caso di ricordare come il cambio di identità non sarebbe affatto di poco conto, perché al nome di Probo si collegano varianti testuali importantissime e preziose1 conservateci dai commenti antichi (v. n. 5 p. 203), di cui serbiamo rare tracce nei pur autorevolissimi manoscritti virgiliani (soprattutto in P).
La parte successiva dell’introduzione, più ricca, è specificamente dedicata al commento di Servio al VI libro dell’ Eneide. Viste le caratteristiche particolari di questo libro virgiliano, ampio spazio è giustamente dedicato alla religione, alla filosofia, alla storia. L’autrice ha il merito di toccare argomenti cruciali, che sono di grande attualità negli studi serviani: l’uso del mito da parte di Servio, i rapporti tra il commento di Servio e la mitografia, gli aspetti scientifici e filosofici del commento di Servio. Essi meriterebbero una trattazione più approfondita e il rinvio alla più recente bibliografia su questi temi, anche se spesso nelle note di commento (nn. 35, 329, 758 ecc.) troviamo dati e riflessioni piuttosto interessanti. L’aspetto linguistico-grammaticale e retorico viene rinviato e ripreso occasionalmente nelle note, normalmente come semplice spiegazione terminologica (per lo più con il rinvio a Donato e alla sua Ars maior), mentre avrebbe potuto essere trattato in maniera più ampia: manca p. es. una nota a epitheton perpetuum del v. 202, l’espressione per transitum (ostendere/tangere) dei vv. 91, 284, 413, 660, 770, è troppo spesso tradotta “en passant”, e rivelando che non ne viene colta né la specificità né il senso vero, ecc.)2
L’edizione del testo è preceduta ancora da un capitolo sulla tradizione editoriale e manoscritta, chiara e molto succinta, ma sufficiente almeno per il lettore non specialista.
Apprezzabile l’impostazione della pagina che presenta il testo, come nella Harvardiana, come testo continuo quando è comune a entrambe le redazioni, Servio e Servio Danielino, e la separazione su due colonne quando le due redazioni presentano differenze (anche minime). In generale si tratta di un’impaginazione che dà conto con maggiore precisione della diversità, ricordandoci che il Servio Danielino è certamente per lo più un Servius auctus, ma talora è un Servius decurtatus e presenta comunque delle piccole varianti (inversione di termini, presenza di sinonimi, ecc.) che meritano di essere registrati. Poter leggere tutto Servio edito con questi criteri potrà permetterci di comprendere e studiare meglio le differenze tra le due redazioni, consentendoci di valutare in maniera globalmente più attenta il testo delle aggiunte danieline, la loro importanza e la loro distribuzione. Questa edizione inverte le due colonne di testo rispetto all’uso dell’Harvardiana presentando a sinistra Servio e a destra Servio Danielino: un’impaginazione che, per il lettore non troppo esperto, alle prese con le tante difficoltà del testo serviano, potrebbe rappresentare un ulteriore motivo di confusione, quando egli si troverà ad utilizzare le due diverse edizioni. L’apparato è doppio: qui il primo appartiene a Servio, il secondo a Servio Danielino.
La novità introdotta da Giuseppe Ramires con l’individuazione della classe α tra i manoscritti di Servio, che l’autrice doverosamente conosce e ricorda, ma non utilizza, andrebbe per lo meno discussa, soprattutto nel quadro generale di una riduzione molto drastica, e non esplicitamente argomentata, dei manoscritti utilizzati (5 per Servio e 3 per Servio Danielino), comunque non raggruppati per classi (cosa che crea qualche confusione) e tra i quali sorprende l’assenza di alcuni (è il caso per esempio di W, Guelferbitanus Latinus 2091 saec. XIII, il più autorevole testimone del commento di Servio all’ Eneide nella classe σ, di cui l’autrice parla a p. cxxix), mentre gli errori di altri (è il caso di N, Neapolitanus Vindobonensis Lat. 5, saec. X) affollano l’apparato critico.
Le differenze tra il testo di Thilo e quello di Jeunet-Mancy sembrano minime, per lo meno sono pochissime e poco rilevanti quelle segnalate (al verso 38 l’autrice legge est sulla base dei manoscritti danielini e lo segnala con ego, ma in Thilo la situazione non è molto diversa). Anche se l’apparato di Thilo è in questo caso più accurato, è interessante invece la proposta di Jeunet-Mancy di correggere al verso 621, in entrambe le redazioni, il tradito sestertiis in sestertium intendendo il numero XXVII come indicazione dell’avverbio numerale vicies septies : due milioni e settecentomila sesterzi è senza dubbio una cifra congrua come somma per cui Roma è stata venduta a Cesare da Curione. Quella restaurata da Jeunet-Mancy è la maniera abituale con cui questa cifra viene indicata. Considerata la fragilità tradizionale delle indicazioni di numero soprattutto quando scritte in cifre, da un originario HS XXVII (ambedue con il segno ‾‾ soprascritto) potrebbero essersi originate tutte le varianti presenti nei manoscritti.
La presenza della traduzione rende questo volume particolarmente utile: sappiamo quanto spesso note a prima vista di facile interpretazione nascondano invece difficoltà e insidie insospettate. Jeunet-Mancy è qui generalmente apprezzabile anche se non sempre riesce a evitare i pericoli cui è esposto il traduttore di un testo di questo genere. Mi limiterò a un paio di esempi quasi contigui. Nella nota a 6, 535 Donatus tamen dicit Auroram cum quadrigis positam Solem significare viene tradotta “Donat dit cependant que l’Aurore avec son quadrige représente le Soleil”. Qui il desiderio di rendere forse con qualche eleganza l’espressione cum quadrigis positam rischia di far immaginare al lettore poco attento che la quadriga sia un attributo dell’Aurora e quindi di fargli perdere il senso dell’intervento di Donato, il quale intendeva che proprio l’inusuale collocazione dell’Aurora su una quadriga (cfr. e. g. 7, 26) dovesse far percepire che qui Aurora significava il Sole. Nella nota a 6, 540 FINDIT IN AMBAS: compendiosius quam si duas diceret: poteramus enim etiam tertiam sperare la traduzione “le sens est plus restreint que si l’avait dit duas ” è infelice: Servio vuol dire che è l’espressione più sintetica, mentre il senso è di fatto più ampio, ambas ci dice infatti che non solo sono due ma non ce n’è una terza.
Il libro VI è piuttosto povero di aggiunte danieline (solo il VII ne ha ancora meno), ma ne possiede almeno una di grande rilevanza dal punto di vista dei problemi legati alla tradizione indiretta: i versi relativi alla Gorgone tramandati da Servio Danielino ( ad Aen. 6, 289) come autenticamente virgiliani ma espunti ab eius emendatoribus. Ci aspetteremmo nella relativa nota di commento, anche se non una discussione articolata su questi versi, almeno qualche cenno più specifico e magari anche qualche riferimento bibliografico, mentre l’autrice rileva solo la difficoltà, se non l’impossibilità di decretare l’autenticità o meno dei versi, aggiungendo una citazione da Perret sulla storia del testo virgiliano. Proprio a proposito della storia del testo virgiliano, sarebbe lecito attendersi almeno un breve cenno sul ruolo che il commento serviano gioca nel problema della presunta variante virgiliana plena deo, locuzione conservata da Seneca il Vecchio come virgiliana e non pervenutaci in nessun luogo del testo di Virgilio, ma presente nelle note del commento di Servio al sesto libro: plena deo al v. 50, deo plena al v. 262, plena… numine al v. 46, (cfr. poi a 3, 443 deo plenam). Anche qui la bibliografia non mancherebbe (almeno da Norden in poi).
L’autrice ci segnala con ammirevole puntualità i casi in cui il lemma serviano non combacia con il testo virgiliano accettato da Perret nella stessa collana, ma sarebbe più utile, almeno in alcuni casi, informare il lettore anche sulle scelte di altri editori importanti e, soprattutto, sulla situazione dei più autorevoli manoscritti virgiliani, le cui lezioni sarebbe proficuo ricordare e confrontare con il testo di Servio. Per esempio ad Aen. VI 560 (ma è solo un caso tra i tanti) Servio cita Verg. Aen. V 768 con la variante numen, conservatoci da P e da Tiberio Donato e accolto da Mynors, invece che nomen conservatoci da M, e accolta da molti altri editori moderni (Geymonat, Conte, oltre a Perret). Più complesso il caso di ad Aen. VI 438, dove Servio legge tristi… palus inamabilis unda e motiva la preferenza per tristi con il fatto che tristis costituirebbe un secondo epiteto per unda e non conoscendo quindi la variante tristis undae (p. es. del Palatino e preferita oltre che da Perret, da Geymonat, Mynors). Al v. 609 la lezione del lemma serviano aut risulta molto isolata all’interno della tradizione manoscritta virgiliana, appartenendo solo al Bernensis 184, che contiene oltre al testo virgiliano note tratte dal commento di Servio; non c’è da stupirsi che gli editori virgiliani, compreso Perret, non la prendano in considerazione. La varietà dei casi è dunque cospicua e, anche non volendo pretendere dall’editore di Servio il confronto sistematico con la tradizione del testo virgiliano, potrebbe tuttavia risultare molto utile allo studioso di Servio un confronto, magari solo occasionale con la tradizione virgiliana, pur non essendo realistico sperare di collegare Servio (o solo i suoi lemmi?) a una specifica discendenza.
Qualche svista o refuso: Casselanus invece di Cassellanus nel Conspectus Siglorum; partem invece di parte nel testo a p. 77; fizione invece di finzione p. x.
Notes
1. Cfr. p. es. S. Timpanaro Per la storia della filologia vigiliana antica, Roma 1986, pp. 77-127.
2. Cfr. p. es. D. Dietz “Historia in the Commentary of Servius”, TAPhA 125, 1995, pp. 61-97.