I curatori del volume, Peter Liddel e Polly Low, hanno intrapreso, nel 2003, un progetto-pilota volto alla costituzione di un database di citazioni e riferimenti alle iscrizioni negli autori antichi. Le prime riflessioni scaturite dalla raccolta del materiale e le molteplici questioni metodologiche nate in seno al progetto hanno portato, nel giugno 2009, a un convegno, tenutosi all’Università di Manchester. Il volume in oggetto raccoglie le relazioni presentate in quell’occasione, e offre al lettore una serie di stimolanti riflessioni sull’impiego del materiale epigrafico da parte degli autori più diversi e nei generi più disparati, dall’età classica alla prima età imperiale, in Grecia e a Roma.
Le relazioni sono precedute da un’introduzione dei curatori, ampia e articolata (pp. 1-29); oltre a spiegare genesi e obiettivi della raccolta, Liddel e Low tracciano una breve storia delle raccolte epigrafiche dall’Umanesimo-Rinascimento a oggi (paragrafo 1, “Collecting Inscriptions”, pp. 2-6), utile per un primo orientamento nella materia, e di cui potranno pertanto beneficiare particolarmente gli studenti. Dopo alcune riflessioni su come le citazioni letterarie di iscrizioni costituiscano un supporto per l’epigrafia, sul rapporto tra epigrafia e storia da un lato ed epigrafia e letteratura dall’altro, l’ultima sezione è dedicata alla presentazione del volume (paragrafo 3, “This collection”, pp. 18-23). Essa ha il merito di fornire una sintesi chiara dei singoli contributi, mettendo in luce la varietà degli approcci e delle prospettive, ma evidenziando, nel contempo, la coerenza del quadro generale che le singole tessere del mosaico consentono di ricostruire.
Le relazioni – 16, se si esclude l’introduzione – sono distribuite in due sezioni: la prima, “Literary Epigraphy and the ancient Past”, riflette sul rapporto tra epigrafia e storia, e comprende una varietà di temi e di autori antichi. È aperta dal contributo di A. Hartmann, una riflessione di carattere generale sull’attitudine degli storici antichi nei confronti delle iscrizioni, che funge in qualche modo da introduzione alla sezione nella sua interezza (è questo uno dei pregi della raccolta: il volume ha una sua architettura interna che evidenzia il dialogo tra i singoli contributi e concorre a dare un’impressione di compattezza e di coerenza che non sempre un’opera miscellanea può vantare, per sua stessa natura). Hartmann dimostra come il lettore antico fosse consapevole dell’importanza delle iscrizioni per “autenticare” il passato (o per “disautenticarlo”, come rivela la citazione di iscrizioni a fini revisionisti), ma mette anche in luce come, a differenza dei moderni, gli antichi tendessero a utilizzare le iscrizioni in modo selettivo, e non arrivarono mai a concepire una qualche forma, per quanto embrionale, di scienza epigrafica. I contributi successivi spaziano da Erodoto (E. Kosmetatou) a Pausania (Y.Z. Tzifopoulos), dagli oratori (A. Petrovic) all’uso degli psephismata nelle biografie ellenistiche dei filosofi (M. Haake), dai riferimenti nella letteratura greco-romana alle iscrizioni latine arcaiche (D. Langslow), all’utilità delle fonti epigrafiche per comprendere il funzionamento del santuario di Delfi e la sua centralità nel mondo antico, utilità già riconosciuta dagli autori antichi, come Erodoto e Pausania (M. Mari). Dalle singole riflessioni scaturiscono risultati degni di apprezzamento, che spesso contribuiscono a mettere in discussione consolidati clichés, a restituire immagini più sfumate degli autori e dei loro metodi di ricerca, a sottolineare i condizionamenti esercitati da alcuni aspetti materiali – come la forma delle lettere o il layout delle epigrafi – sulla comprensione e la ricezione del messaggio iscrizionale, ad aprire interessanti prospettive sulle modalità di circolazione dei testi stessi, una volta svincolati dal loro supporto materiale e dalla loro sede originaria.
Elizabeth Kosmetatou, ad esempio, concentrandosi su una serie di testimonianze relative al santuario di Delfi, riprende il dibattuto tema dell’attitudine di Erodoto verso le iscrizioni e suggerisce che il loro uso, da parte dello storico, possa essere stato più sistematico di quanto non si tenda ad ammettere: ferma restando l’importanza attribuita dall’autore ai racconti orali (come sarà, più tardi, per Tucidide), Erodoto sembrerebbe aver consultato gli archivi del santuario, alla ricerca di documentazione epigrafica. Ne emerge un’immagine più sofisticata dello storico, “who, besides conversing with the locals in order to listen to their oral histories, also sat in archives, wandered around a sanctuary, read critically, and used inscriptions as primary sources for his work” (p. 75). Il contributo di Andrej Petrovic, “Inscribed Epigrams in Orators and Epigrammatic Collections”, offre un’acuta e stimolante riflessione sulle modalità di circolazione dei testi epigrafici nel IV secolo a partire dall’analisi delle citazioni di epigrafi da parte degli oratori attici. Petrovic si interroga sulle possibili fonti cui gli oratori attingevano e ragionevolmente esclude la consultazione autoptica, per ipotizzare piuttosto che essi avessero a disposizione collezioni di epigrammi iscrizionali. In particolare, la frequenza di citazioni iscrizionali da parte degli oratori del IV secolo è suggestivamente collegata con l’apparire, in questo periodo, di collezioni di epigrafi di interesse storico, organizzate secondo criteri geografici, che costituivano un prontuario di testi facilmente consultabili anche in regioni lontane da quelle in cui i monumenti recanti le iscrizioni erano collocati. I risultati dell’indagine hanno importanti ripercussioni per la comprensione dei meccanismi che presiedevano alla redazione e alla ricezione dei testi epigrammatici nell’epoca pre-ellenistica – prima, cioè, che l’epigramma, svincolato dal suo supporto iscrizionale, diventasse un genere letterario a tutti gli effetti. L’impatto dei testi, pur nati per scopi contingenti, sarebbe infatti ben più ampio di quanto non si tenda ad ammettere: come scrive Petrovic a conclusione del suo contributo, “epigram was very early on capable of escaping the confines of its original medium and […] its impact was one that could have lasted for centuries, providing Greek communities with a moral compass, historical anchor, and an object of aspiration for generations to come” (p. 211).
La seconda sezione, “Literary Epigraphy: Complementarity and Competition”, esplora il rapporto tra epigrafia e letteratura, e comprende riflessioni sulla riappropriazione dei materiali epigrafici da parte della poesia epinicia del V secolo (J. Day, che dimostra come gli epigrammi iscrizionali sulle vittorie atletiche costituissero una reperformance dei riti legati alla celebrazione del vincitore) e della poesia lirica (D. Fearn), sull’uso delle iscrizioni nei testi teatrali (J. Lougovaya, che con un contributo chiaro e ben organizzato chiarisce, in particolare, l’uso delle iscrizioni come simboli di autorità da parte degli autori di testi destinati all’esecuzione scenica, soprattutto comici) e nella letteratura in prosa, tanto in ambito greco quanto latino (A.V. Zadorojnyi), sulla stretta relazione tra letteratura ed epigrafia nella poesia latina di età augustea (J. Nelis-Clément e D. Nelis) e negli elegiaci latini (L.B.T. Houghton). Né mancano contributi che si focalizzano su singoli testi: il saggio di A.D. Morrison è dedicato al fr. 64 Pfeiffer degli Aitia di Callimaco, sul sepolcro di Simonide, mentre P. LeVen si concentra sul rapporto tra l’ Inno alla Virtù di Aristotele e le iscrizioni funerarie, mostrando le complesse dinamiche di interazione tra una poesia riconducibile al genere lirico, destinata al canto e alla pubblica performance di fronte a uno specifico uditorio, e gli stilemi espressivi del genere epitafico, la cui forma iscrizionale prevede modalità del tutto diverse di ricezione. Altri affrontano questioni di portata più generale: Martin Dinter, per esempio, nel discutere le relazioni tra epigramma letterario ed epigrafico nella letteratura latina, introduce il concetto di intermediality per mostrare come i riferimenti agli aspetti fisici o letterari delle iscrizioni, in poesia latina, permettano di veicolare messaggi specifici, che trascendono le potenzialità dei singoli generi. L’assunto è dimostrato tramite l’analisi dell’occorrenza del nesso tu quoque nell’ Eneide, visto come un’eco del sintagma epigrafico kai su e kai se, diffuso nelle iscrizioni greche, attraverso cui Virgilio alluderebbe al destino che attende alcuni eroi, spesso fuorviando il lettore e innescando una complessa dinamica testuale. L’approccio di Dinter potrà senz’altro essere fruttuosamente esteso ad altri autori e ad altre opere.
Anziché presentare un’unica bibliografia conclusiva, ogni contributo, inclusa l’introduzione, è seguito dalla propria: questa scelta, se da un lato comporta inevitabili ripetizioni, dall’altra concorre a rendere autonomo ciascun articolo, il che costituisce senz’altro un pregio in un volume destinato, come questo, a divenire un reference work, e che come tale sarà senz’altro consultato in modo selettivo da lettori con interessi diversi. D’altro canto, l’assenza di alcuni contributi nelle singole bibliografie, è bilanciata dalla loro presenza in altre, per cui anche il lettore non specialista ha la possibilità di ricostruire un quadro bibliografico completo delle singole problematiche.1
La consultazione del volume è agevolata anche dagli indici conclusivi, suddivisi in un indice delle fonti, a sua volta bipartito (“Inscriptions”, pp. 387-389; “Literary Texts and Papyri”, pp. 390-400), e in un indice generale, selettivo ma funzionale (pp. 401-403).
Il volume si presenta ben curato nella sua veste editoriale: buona la qualità delle immagini; pochissimi i refusi e per lo più ininfluenti ai fini della comprensione del testo.2
Questa raccolta di saggi, alla cui ricchezza questo breve resoconto non pretende di rendere giustizia, dimostra la stretta connessione tra testi epigrafici e testi letterari nel mondo antico, i numerosi e vari approcci all’uso delle iscrizioni da parte dei diversi autori e nei diversi generi, i giochi, spesso raffinati, di riappropriazione dei modelli iscrizionali per veicolare i messaggi più diversi. Destinato a diventare un punto di riferimento per chiunque sia interessato alle complesse dinamiche dell’interazione tra epigrafia e letteratura, stimolerà senz’altro il dibattito scientifico su molteplici temi, e potrà essere fruttuosamente letto dagli specialisti. L’organizzazione chiara e razionale dei contributi, l’introduzione dei curatori, istruttiva e stimolante, la ricchezza dei temi e la varietà dei metodi raccomandano nondimeno la lettura da parte degli studenti, per un primo approccio a una materia affascinante e complessa.
Notes
1. Un solo esempio: David Fearn, nel discutere gli epigrammi attribuiti a Simonide, rinvia a Bravi 2006 e Petrovic 2007 (p. 232, n. 5), ma non all’altrettanto importante studio di David Sider sulla Sylloge Simonidea; questo, tuttavia, è citato da Petrovic e compare pertanto nella bibliografia che segue il suo contributo (p. 213).
2. Ne segnalo alcuni, in vista delle ristampe: “now longer” per “no longer” (p. 291); “is still exists” per “it still exists” (p. 292); “epigeram” per “epigram” (p. 296); “sepulcro” per “sepolcro” (p. 301) nella citazione del titolo dell’articolo di Massimilla dedicato al sepolcro di Simonide in Call. fr. 64 Pf.