Il libro di James Robson tratta un argomento molto discusso negli studi di antichità classica: la ricerca è inserita fra i Debates and Documents in Ancient History’, editi a Edinburgo sotto la direzione di Emma Stafford e Shaun Tougher, e si prefigge di presentare il tema in oggetto, vale a dire ‘Sesso e sessualità nell’Atene dell’età classica’ non solo quale introduzione per i non specialisti, ma anche come strumento per la ricerca nel campo. Lo scopo è molto impegnativo, come sempre accade quando si cerca di coinvolgere destinatari eterogenei. La struttura della serie sembra favorire l’obiettivo, mettendo ordine e schemi nel dibattito scientifico, ma temo crei qualche disagio per entrambi i tipi di lettori: i primi forse alla ricerca di una sintesi più agile e di fonti selezionate; i secondi di qualche proposta di lettura e stimoli originali. Il libro è comunque molto ricco di dati, ben organizzato, ben scritto, e non sono meriti questi di poco conto.
Il testo è suddiviso in due parti, rispettivamente Debates e Documents, che contengono alcuni importanti temi sull’argomento: la prima suddivisa in cinque capitoli (1. Sexual Unions: Marriage and Domestic Life; 2. Same Sex Relationships; 3. Prostitution; 4. Sex and the Law: Adultery and Rape; 5. Beauty, Sexual Attractiveness, Fantasy and Taboo) e la seconda che presenta la documentazione relativa ai temi discussi, segnalata nei singoli capitoli della prima parte e qui poi pubblicata, in traduzione, seguendo un ordine alfabetico. Robson limita il suo orizzonte all’età classica e ad Atene, consapevole dell’ampiezza dei problemi e della difficoltà di coprire tutto il campo. Potrebbe sembrare una rinuncia troppo dolorosa, ma sono persuaso con l’autore che la scelta non precluda di avvicinarsi alla sostanza dei problemi.
Robson ritiene che il tema di cui egli tratta sia ‘un territorio alieno’, che abbiamo tuttavia il compito di attraversare [ Preface, xix] : lo dimostrerebbe innanzitutto la concezione del tutto diversa fra passato e presente del concetto di ‘adulterio’ e di ‘stupro’, che mette in evidenza una mentalità molto particolare nell’intendere l’autonomia fisica e sociale della donna: il fatto stesso che manchino parole adeguate per definire ciò che per noi è ‘rape’ e abbondino per converso sfumature per definire l’amore e le sue molteplici manifestazioni, ci dice che ci troviamo davvero in mondi diversi. L’errore che spesso commettiamo a questo punto (Robson non vi cade) è quello di ritenerli anche ‘separati’ oltre che ‘diversi’. Il compito del filologo è quello di tradurre, cioè di consentire il passaggio da un sistema codificato a un altro e di rendere comprensibile nella continuità ciò che sembra radicalmente estraneo. Il territorio è certamente ‘alieno’, per restare alla felice espressione di cui si serve l’autore, ma che non si può visitare supponendo che non esista contatto col presente o, peggio, che il presente dell’esploratore sia una sorta di progresso o di evoluzione morale. Qualcuno ha pensato che fosse utile, studiando questi temi, di applicare persino un criterio di indagine psicanalitico, pensato come scientifico, cioè fuori dal tempo e indiscutibile,1 ultimo sussulto (mai domo) del positivismo imperante in questo settore della ricerca.
Il libro di Robson suscita molte riflessioni e molti spunti interessanti, in particolare nel capitolo secondo e nel capitolo quinto a cui accenneremo oltre. Invero ciò che si dice riguardo al matrimonio e alla vita domestica nel cap.1 sembra assai meno ‘alieno’ di quanto promette il resto: per altro i Greci non amavano parlare molto in generale della sessualità, e in particolare di quella nel matrimonio; ciò che si legge nella succinta analisi dell’autore conferma l’impressione che ‘sex and sexuality’ appartenessero a regime del ‘non detto’ e trovassero parole e istituzioni al di fuori, ai margini (per gli uomini) in modo non diverso, mutato il mutabile, con ciò che ci è noto nelle società precedenti la ‘sexual revolution’. Il capitolo primo può collegarsi con i capitolo terzo (‘Prostitution’, 67-89) in cui è trattato in modo esauriente uno degli aspetti con cui era ‘regolata’ – se così si può dire – la sessualità maschile ai margini della vita coniugale.
I capitoli più interessanti del volume sono il secondo e il quinto. Qui posso riferire per sommi capi soltanto alcuni degli argomenti trattati, premettendo che Robson mostra sempre una buona conoscenza dei problemi e delle fonti. Nel secondo capitolo si discute del tema che più di ogni altro ci porterebbe in ‘alien territories’, vale a dire ‘Same-Sex Relationships’ (36-66). Uso il condizionale perché l’alterità sarebbe assai più percepibile se si sottolineasse che, tra le varie forme di relazioni omoerotiche, è ‘pederasty’ che definisce essenzialmente ciò che chiamiamo in modo enfatico ‘Greek love’. Robson è molto accurato nel presentare la lunga e ben nota diatriba fra ‘essenzialisti e costruzionisti’, a margine e ben al di sotto delle premesse teoriche di Michel Foucault sulla storia del problema, nella prospettiva di quella teoria del ‘gender’ che proprio negli studi di antichità classica ha trovato un terreno molto idoneo. Ma il tema più ‘alieno’ e più rilevante, a mio avviso, resta ai margini: i Greci ritenevano non solo accettabile, ma auspicabile la relazione affettiva fra un adulto amante e un ragazzo amato. L’età del secondo, diciamo fra i 12 e i 18 anni, ci obbliga a concludere che per Solone e i suoi successori, fino agli appassionati versi d’amore che Eschine cerca di spiegare e giustificare nel contra Timarchum, l’erotica in gioco è quella che nelle nostre società occidentali, per lo meno dopo gli anni settanta del secolo scorso, è considerata forse la peggiore delle attitudini, il più abietto dei costumi, fra pedofilia e pederastia. E il terreno si fa certo più ‘alieno’ ancora se si considera che quanto ci appare più normale (si fa per dire) e più accettabile in quelle ‘same-sex relationships’, vale a dire la relazione erotica fra adulti (o fra un adulto e un giovane oltre la nostra ‘age of consent’), godeva della stessa pessima reputazione di cui gode tutt’ora nelle società non occidentali o pre-industriali. Pederastia (o ‘pedofilia’ se non si ha paura di considerare che il paidophiles nel mondo greco non era affatto un ‘mostro’) esclude la possibilità che l’ eromenos (il ragazzo amato) possa proseguire relazioni affettive con un suo simile. Le obiezioni, la citazione di fonti iconografiche che sembrano alzare l’età dei giovani amati/amanti, non mutano la sostanza del problema. Ciò che è accetto, auspicato, lodevole è soltanto l’erotica asimmetrica intergenerazionale nella prospettiva dell’educazione e della trasmissione dei saperi dentro la polis. Questo mi pare davvero ‘alieno’, e non osservabile soltanto con un giudizio di incolmabile alterità. Forse è il passato a porci questioni che preferiamo evitare di considerare. La domanda ovviamente riguarda anche il presente e i sentimenti fobici che qualunque forma di relazione intergenerazionale suscita. Ho tentato di discutere questi temi in un libro recente2 che James Robson non sembra conoscere, ma che è noto ad altri suoi colleghi anglofoni.
Fra i temi trattati in questo secondo capitolo, interessante è anche il tentativo di mostrare come, passando dalla società aristocratica di VII –VI a.C. all’ultimo tempo del periodo che Robson considera (il IV sec.a.C.), progressivamente le relazioni omoerotiche sembrino perdere consenso, e come questo sia forse riscontrabile soprattutto tramite il codice ‘popolare’ della commedia. Ho cercato di chiarire, nel volume cui ho fatto cenno sopra, come l’irrisione che riguarda i ‘cinedi’ della scena comica non colpisca in nessun modo pederastia, governata da standard aristocratici anche quando le ‘same-sex relationships’ sono trascinate sulla tribuna degli oratori. Il cinedo è l’esatto contrario di ciò che un amante potesse desiderare nella figura del suo eromenos. Farsi beffe di un cinedo non significava in alcun modo deridere la relazione fra un adulto e un ragazzo. Robson crede, appoggiandosi sulle tesi di Thomas Hubbard, che pederastia fosse lodata solo ai piani alti della società greca e derisa dal popolo, dedito per lo più a relazioni eterosessuali. Ed è certo in nome di valori ‘alti’ che pederastia trova consenso nella società ateniese del tempo di Eschine: ma l’oratore cerca il consenso di demos dalla tribuna e lo trova, contro il prostituto Timarco, esaltando ciò che non poteva non essere benvisto dai più: vale a dire l’amore nobile di un uomo per un fanciullo. Hubbard ha scritto per altro pagine molto belle su ‘Greek love’ che qui non sono sufficientemente considerate.3
Io credo che se si doveva condurre un lettore, magari anche ingenuo, in territori così poco consueti, sarebbe stato opportuno accompagnarlo fra le contraddizioni culturali, mentali, politiche che costituiscono un apparente corto circuito fra passato e presente. Se ha un significato riproporre tematiche così delicate ai giorni nostri, mostrare la vivacità dell’epoca classica nei confronti del nostro tempo, lo ha essenzialmente per far riflettere non solo su temi eruditi di antichità, ma anche sulle contraddizioni del presente. Questo non è un obiettivo che Robson si è posto: il suo libro va letto nell’ambito che egli ha voluto circoscrivere, ma a mio avviso, ciò che dovrebbe essere messo al centro resta ai margini.
Nel capitolo quinto si affronta con completezza e buona scelta di argomenti un tema che potremmo definire ‘trasversale’ (‘Beauty, Sexual Attractiveness, Fantasy and Taboo’, 116-144), ponendo al centro dell’indagine ‘the ancient body’, vale a dire il modo in cui i Greci del periodo classico consideravano il corpo e il suo fascino. La conclusione cui giunge Robson è condivisibile: il vocabolario e i concetti che designano la bellezza, il fascino, l’attrazione sessuale riguardo alla donna e al ragazzo amato sono assai simili. L’occhio è quello del maschio predatore, per dirla con David Halperin, e i gusti suoi finiscono per coincidere. Anche se è un lamento più tardivo (‘ ci sono i peli odiosi’),4 l’eccesso di mascolinità non è certamente seducente. Ciò che purtroppo si confonde spesso è l’identità estetica del ragazzo amato che, per una frettolosa assimilazione ai lineamenti femminili, è confusa con quella di una donna. L’ eromenos di Oxford o il piccolo pugile dell’Antologia palatina, per non parlare dello sguardo ‘virginale’ (certo non ‘di fanciulla’) del Cleobulo anacreonteo,5 hanno certamente tratti teneri, ma non per questo non sono pienamente maschili: ciò che attrae nel fanciullo amato, imparagonabile con qualsiasi altro fascino, è proprio la tenerezza del volto, la rotondità delle forme in un corpo agile, tornito, di maschio che si misura e si rispecchia nella virilità di chi lo osserva. Quando un uomo greco diceva, senza troppo imbarazzo, di amare donne e ‘paides’ indistintamente non pensava affatto di trovarsi di fronte soggetti simili, attrazione simile, o peggio dei surrogati dell’uno o dell’altra forma d’amore. La nostra epoca, con il suo carico gravoso di freudismo e di altri anestetici borghesi, ha trasformato persino il certo virile ‘soldato di leva ‘, l’efebo, in una diafana figura androgina, senza nervi.
Anche questo ho tentato di dimostrare – oltre che nel libro a cui ho fatto riferimento sopra – in più di una pubblicazione. E’ possibile che Robson giudichi irrilevanti gli argomenti che ho trattato a più riprese. Io non penso altrettanto di ciò che lui ha pubblicato quale che sia l’originalità delle sue riflessioni. e sebbene scritto in una lingua straniera. E’ possibile anche che Robson – in modo invero non dissimile da molti suoi collegi anglofoni – non conosca l’italiano o non abbia nessuna intenzione di sforzarsi a leggerlo. Non mi sembra in ogni caso un pregio o un limite che si possa rimuovere a cuor leggero ignorare lingue di alta tradizione culturale. Ci sono altre omissioni nella bibliografia dell’autore, meno giustificabili probabilmente di quelle che riguardano le mie ricerche.6
La seconda parte del libro ( Documents, 147-243) è ben curata: le traduzioni in lingua inglese offrono a ogni lettore uno strumento importante per avvicinare le fonti su cui è costruita la prima parte del volume. Non so se la disposizione degli autori in ordine alfabetico fosse la più auspicabile, ma anche così risulta chiara ed efficace. Non molto accattivanti sono le immagini in bianco e nero delle ‘Illustrations’ (244-272) che presentano documenti iconografici considerati nella discussioni della parte prima. La Bibliografia, con i limiti che ho detto sopra, è suddivisa in una sezione tematica per ulteriori approfondimenti (271-279) e in una sezione generale (285-295): fra queste è collocato un succinto, ma utile glossario (280-284). Chiude il volume un indice dei nomi e delle cose notevoli (296-311), che non include le fonti.
Il volume di Robson, concludendo, è un contributo chiaro, non sempre condivisibile, ma non per questo trascurabile per chi dovrà studiare ancora questo argomento e per chi vorrà soltanto informarsi in modo solido sui principali problemi trattati.
Notes
1. G.Devereux, Greek Pseudo-Homosexuality and the ‘Greek miracle’, “SO” XLII (1967), 69-92.
2. R.Vattuone, Il mostro e il sapiente. Studi sull’erotica greca, Bologna, Pàtron 2004
3. Fra i molti studi di Hubbard (che per altro Robson pare conosca) non si ricorda a sufficienza l’importante recensione a How to Do the History of Homosexuality di D.Halperin, comparsa in BMCR 2003.09.22.
4. AP XII 39.
5. Oxford, Ashmolean Museum, 304; AP XII 123; Anacr.fr.15 Gent.
6. Fra gli altri, credo poco giustificabile ignorare gli studi di Claude Calame (e.g., I Greci e l’eros: simboli, pratiche, luoghi, Roma-Bari 1992, tradotto persino in inglese: Princeton 1999) , nonché G. Sissa, Eros tiranno. Sessualità e sensualità nel mondo antico, Roma-Bari 2003 (traduzione inglese: Sex and sensuality in the ancient world, New Haven 2008). Utile sarebbe stato comunque consultare: Il corpo e lo sguardo. Tredici studi sulla visualità e la bellezza del corpo nella cultura antica, a cura di V.Neri, Bologna, Pàtron 2005. Il francese e l’italiano possono non essere compresi dai lettori che Robson si augura di raggiungere, ma forse essi chiedono all’autore di conoscere, oltre steccati domestici, ciò che in altre lingue si studia su una tematica così rilevante.