L’interesse di Cesare Pavese per i classici antichi è stato finora preso in considerazione solo marginalmente, e per lo più con riferimento alla genesi e alle fonti dei Dialoghi con Leucò (1947). In realtà, come opportunamente avvertiva Italo Calvino, collaboratore e amico di Pavese, proprio attraverso i Dialoghi il lettore ‘scopre…il Pavese umanista; perché là dove qualcuno crederebbe di trovare uno scrittore il più spregiudicatamente moderno, i cui interessi si fermano ai Vittoriani e a Melville, c’è invece un filologo che si traduce e annota il suo pezzo d’Omero ogni giorno, e uno scienziato che ha sviscerato tutta la più avanzata cultura mondiale in fatto d’interpretazione delle religioni primitive’ ( Bollettino di Informazioni Culturali Einaudi, n. 10, 10 novembre 1947, pp. 2-3). Delle numerose traduzioni pavesiane dal greco, realizzate per lo più in due fasi (la prima negli anni 1935-36, durante il confino a Brancaleone Calabro; la seconda fra il 1947 e il 1950, in concomitanza con il lavoro di traduzione dell’ Iliade affidato da Pavese a Rosa Calzecchi Onesti), una piccola parte è stata pubblicata da A. Dughera nel 1981 ( La Teogonia di Esiodo e tre Inni Omerici nella traduzione di Cesare Pavese, a cura di A. D., Torino, Einaudi 1981). Le versioni dal latino sono invece rimaste interamente inedite, fino a questa recente, meritoria edizione de Le Odi di Quinto Orazio Flacco tradotte da Cesare Pavese, curata da Giovanni Bárberi Squarotti nell’ambito del progetto “Cultural heritage of antiquity and its influence from Piedmont of Risorgimento to Europe, from the middle of the Nineteenth Century to 1961” dell’Università di Torino.
L’edizione si basa sull’autografo, raccolto in quattro fascicoli conservati presso il Centro di Studi di Letteratura Italiana in Piemonte ‘Guido Gozzano-Cesare Pavese’ dell’Università di Torino: nel terzo di essi (AGP.AP.X.22) si legge la data 27 agosto 1926. Si tratta dunque di un Pavese diciottenne, inevitabilmente influenzato dall’insegnamento del Maestro liceale Augusto Monti, e quindi ancora legato ad una visione tradizionalista e scolastica dei ‘classici’. La scoperta decisiva di Frazer, del Freud di Totem e tabù, di Jung, di Kerényi e di Paula Philippson sarebbe stata più tarda.
Il testo utilizzato da Pavese per la sua traduzione oraziana (e riportato a fronte nell’edizione di B. S.) è quello teubneriano di Friedrich Vollmer (Q. Horati Flacci, Carmina, recensuit F. V., Editio maior iterata et correcta, Lipsiae, In aedibus B.G. Teubneri, 1912). Il libro non è presente nella biblioteca di Pavese, ma ‘ad esso si risale con assoluta certezza attraverso il riscontro della traduzione con le lezioni che distinguono il testo Vollmer rispetto ad altre edizioni correnti tra fine Ottocento e inizi Novecento’ (p. IX). Le varianti e congetture accolte dal Vollmer in contrasto con altre edizioni sono infatti così numerose ‘da conferire al testo una fisionomia ben marcata’ (ibid.). Ad ulteriore conferma, B.S. sottolinea come la traduzione di Pavese presupponga non solo le varianti testuali dell’ed. Vollmer, ma anche alcune particolari soluzioni di punteggiatura proposte da quest’ultimo (p. IX n. 11).
Dopo un’accurata e puntuale Nota al testo, in cui B.S. informa il lettore riguardo ai criteri adottati (correzione degli errori puramente meccanici nonché scioglimento dei compendi, usati di frequente da Pavese anche in altri manoscritti), si passa al testo vero e proprio, che reca a fronte quello originale del Vollmer.
La traduzione pavesiana, molto attenta e, in generale, abbastanza corretta, si caratterizza in alcuni punti per l’uso di forme desuete e rare e di arcaismi di derivazione letteraria: si veda, ad esempio, mena vampo per il latino furit (I 15, p. 29) e la relativa annotazione di B. S., che rinvia al Morgante del Pulci, alle Stanze per la giostra del Poliziano e alla traduzione dell’ Iliade del Monti. La versione oraziana di Pavese contiene tuttavia anche svariati errori, soprattutto per quanto riguarda i nomi propri e i toponimi, specie se riferiti alla storia e alla mitologia greca (avendo infatti seguito l’indirizzo moderno del liceo “D’Azeglio”, Pavese aveva avuto solo un limitato approccio allo studio della cultura ellenica).1 In alcuni casi, ad esempio Tindaro per Tindaride (I 17, p. 31), Paneto per Panezio (I 29, p. 47), l’errore non incide sull’interpretazione del testo; altrove, invece, la mancata comprensione del nome proprio greco comporta un travisamento dell’intera frase, come nel caso di III 7, 17s., in cui la resa gli narra come Peleo quasi scendesse al Tartaro, la fuga da Magnessa del continente Ippolito (lat. narrat paene datum Pelea Tartaro,/ Magnessam Hyppoliten dum fugit abstinens) deriva da confusione tra due miti distinti anche se fra loro simili: da un lato quello molto noto di Ippolito e Fedra; dall’altro quello di Peleo che, a causa delle calunnie di Ippolita, moglie del re di Magnesia Acasto, rischiò la vita per le insidie dello stesso Acasto (cfr. Pind. Nem. 4,57, [Apollodor.] III 13,3, e si veda inoltre la nota di B. S. a p. 121 n. 107).
Come già si è detto in precedenza, le versioni da Orazio costuiscono un lavoro giovanile di Pavese, destinato ad uso privato, e si mantengono prevalentemente nel solco della tradizione. Sarebbe arduo, soprattutto in poco spazio, cercare di evidenziare i punti in cui lo scrittore innova, o quanto meno dà al suo lavoro un’impronta già marcatamente personale e suscettibile di ulteriori sviluppi negli anni successivi. Desidero tuttavia porre l’accento su due passi, in cui è già presente un tema che diverrà determinante e pervasivo nella futura opera dello scrittore. Così, la seconda strofe di Hor. Carm. I 19 urit me Glycerae nitor/ splendentis Pario marmore purius, / urit grata protervitas / et voltus nimium lubricus adspici, è resa con ‘Ardo per la bianchezza di Glicera che risplende più nitida del marmo di Paro, ardo per la sua piacente baldanza e per il suo volto, tanto pericoloso a guardarlo’: dove il latino nitor (propriamente “splendore”, “lucentezza”, ma anche “bellezza”: cfr. L. Castiglioni-S. Mariotti, IL Vocabolario della lingua latina, Torino, Loescher 1966, 956) diviene, significativamente, “bianchezza” anticipando una concezione della bellezza femminile – associata a insidia e distruttività – che assumerà sempre maggiore rilievo nell’immaginario e nella produzione letteraria di Pavese, dai primi componimenti di Lavorare stanca fino ai Dialoghi con Leucò e alle ultime liriche di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.2 Interessante, da questo punto di vista, anche l’ incipit di Hor. Carm. III 7 Quid fles, Asterie, quem tibi, candida, / primo restituent vere Favonii / …iuvenem …Gygen? : in questo caso, il Vollmer accoglie la lezione candida (Diomed. Gramm. I 525,6), evidentemente da riferirsi ad Asteria, in luogo di candidi, riferito ai venti Favoni e accolto dalla maggior parte degli editori di Orazio. Pavese non esita a fare sua la lezione preferita dal Vollmer (nonostante l’apparato critico, che contiene le lezioni alternative e che lo scrittore dimostra più volte di controllare scrupolosamente: cfr. B. S. pp. IXs.), e traduce ‘O Asteria, perché piangi, così bella, il giovane Gige… che in primavera i Favonii ti restituiranno[?]’. Non a caso, Pavese appare colpito dalla definizione di una donna come candida e traduce ‘così bella’, ancora una volta identificando ‘candore’ e ‘bellezza’. Un’interpretazione solo parzialmente giustificata dai poeti latini: per Catullo 86,1-3, ad esempio, Quintia formosa est multis. mihi candida, longa, / recta est: haec ego sic singula confiteor. / totum illud formosa nego. Dal punto di vista di Catullo, dunque, il biancore della pelle non basta a definire una donna come formosa; da quello di Pavese, evidentemente, sì. Nel complesso, le versioni da Orazio sono una prova precoce dell’impegno di Pavese come traduttore, indipendentemente dalla lingua di partenza: e se lo scrittore otterrà i risultati migliori nelle traduzioni dall’inglese, tuttavia i suoi seri e tutt’altro che estemporanei esercizi di versione dai classici meritano attenta considerazione, anche per le utili indicazioni che possono fornire in merito alla genesi e allo sviluppo della poetica pavesiana. In questo senso, l’impeccabile edizione di B.S. rappresenta un primo, significativo contributo.
Notes
1. Sugli studi liceali di Pavese, si veda la recente ricognizione di A. Comparini, ‘Il mestiere di leggere i Greci. La cultura greca di Pavese nei Dialoghi con Leucò ’, in E. Cavallini (ed.), La “Musa nascosta”. Mito e letteratura greca nell’opera di Cesare Pavese, Bologna, Dupress 2014, 53-57.
2.Sull’argomento, cfr. da ultimo E. Cavallini, ‘Elena λευκώλενος: citazioni omeriche nelle lettere dal confino di Cesare Pavese’, AION (filol) 34 (2012) 153.