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Crystal Addey prende in esame diversi passi, principalmente dal terzo libro del De mysteriis (l’edizione Saffrey-Segonds, che ha mostrato l’origine fallace di questo titolo, evidentemente non era disponibile al momento della stesura del testo), in cui Giamblico definisce le modalità in cui si verifica l’estasi (cf. 3, 11; 3, 4; 8, 7; 3, 13). L’interpretazione tradizionale (secondo Giamblico il sacerdote, al momento dell’invasamento da parte della divinità, sarebbe completamente passivo ed essa si sostituirebbe alle sue facoltà coscienti) è rivista in base alla teoria giamblichea ( In Phaedr. fr. 6 Dillon) fatta propria anche da Proclo con l’ Unum in nobis : l’estasi non sarebbe quindi uno stato di incoscienza ma di sopracoscienza; anche il concetto di passività durante la visione è rivisto come antistorico e figlio della sensibilità illuminista. La dottrina giamblichea dell’Uno presente nell’anima dissolve la dicotomia tradizionalmente concepita fra soggetto e oggetto e fra agente e paziente nel caso della divinazione. La tesi del contributo è convincente e l’opera di contestualizzazione e storicizzazione dei testi è nel complesso ben condotta.
José Baracat prende le mosse del proprio contributo ponendo le basi terminologiche della discussione che segue: l’eternità è definita come pienezza di vita legata all’Intelletto; il tempo e come tale la sua origine è ricondotto al mondo sensibile e all’anima. Se l’eternità è l’attività vitale del Nous, il tempo è l’attività vitale dell’anima. Dall’analisi di III, 8 [30] 11 l’autore trae, insieme ad altre che qui non è possibile esporre, una importante conclusione: l’anima non è nel tempo, che è infatti posteriore rispetto ad essa: a seguito della propria attività l’anima si temporalizza ( chronoyn, importante neoformazione plotiniana) pur essendo superiore al tempo.
Il contributo di Jean-Michel Charrue esamina tre testi giamblichei legati all’utilizzo del concetto di causalità (presente in Tim. 28 c). Il primo è costituito, seppure in frammenti, dal commento al Timeo (frr. 33; 37; 39; 59; 88 Dillon: eternità del cosmo, esistenza di una causa esterna al mondo, e, per i fr. 59 e 88, provvidenza e la procreazione ineffabile degli dèi). La seconda parte esamina più da vicino il cosiddetto De mysteriis, ove Giamblico distingue cause primarie (gli dèi) e cause secondarie (del mondo fisico). Il richiamo al fato giunge solo quando si parla dell’astrologia: il rapporto fra libertà e fato è dato dal prevalere di una delle due anime che formano l’uomo (una tratta dal primo intelligibile e partecipa della presenza del Demiurgo; la seconda introdotta negli uomini a partire dalla rivoluzione dei corpi celesti). La terza ed ultima parte del contributo esamina la Lettera a Macedonio, in cui le cause secondarie sono sottomesse alla causalità della provvidenza.
L’articolo di Bernard Collette si apre con la citazione dell’oracolo di Apollo tradito in Vita Plotini 22, 40-44): mai il sonno invincibile avrebbe chiuso le palpebre del filosofo egiziano (cf. Ibid. 23, 21, integrato con 8, 13-23: Plotino non interromperebbe mai la propria vigilanza fuorché nei brevi intervalli dedicati al sonno). L’atteggiamento di scarsa indulgenza dei neoplatonici nei confronti del fenomeno fisiologico del sonno è spiegato col ricorso ad Enn. III, 6 [26], 6: ammettendo la natura non completamente discesa dell’anima, lo stato di riposo interromperebbe la nostra connessione con la parte complativa dell’anima. Di qui il sospetto che i neoplatonici nutrono per l’assopimento: il sonno sarebbe infatti una condizione per la quale il corpo prevale sull’anima in virtù di una sorta di ammaliamento.
Anna Corrias, con fine sensibilità per l’attualizzazione della filosofia antica in età moderna, si occupa della presenza della dottrina neoplatonica dell’ ochema nei neoplatonici di Cambridge, specialmente Ralph Cudworth (1617-1688, in particolare The Intellectual System of the Universe, 1678). Il motivo di tale recupero da parte di Cudworth è rintracciato nella tendenza dei cantabrigensi a reagire al materialismo di Hobbes e al rigido dualismo cartesiano coevi, sostenendo l’influenza reciproca fra spirito e materia. Il veicolo psichico è importante per Cudworth sia per la vita terrena sia per quella dopo la morte: in questo secondo caso la presenza del veicolo è garanzia contro la teoria allora diffusa e che voleva l’anima priva di ogni sensibilità nel periodo intermedio fra la morte e la risurrezione. In questo contesto di rivalutazione della psicologia neoplatonica sarebbe forte anche la presenza di Origene.
Scopo del contributo di John Dillon è quello di porre in luce le peculiarità della psicologia di Giamblico rispetto ai precedenti di Plotino e Porfirio: ad es. il rifiuto dell’anima non interamente discesa ( In Tim. fr. 87 Dillon), cui si aggiunge l’affermazione dell’ Unum in nobis ( In Phaedr. fr. 6 Dillon): Giamblico non si oppone alla presenza, nell’uomo, di un elemento capace di entrare in contatto con il divino, ma respinge l’idea che questo elemento possa essere considerato una parte dell’anima: di qui la citata dottrina dell’ anthos toy noy. Con esso è identificato l’auriga di In Phaedr. 247 c, il che porta Giamblico a pensare che l’iperuranio sia non già il mondo intelligibile ma quello dell’Uno. Un passo dello ps.Simplicio (In De an. p. 89, 33) pone ulteriormente in luce le divergenze fra Plotino e Giamblico: per quest’ultimo il modo per raggiungere l’unione col divino è esterno alla facoltà dell’anima e si identifica con la teurgia.
Gary Gurtler apre il proprio saggio con l’esame di Resp. 369 a 5-6 (“in che modo una città viene alla luce in parole”, cf. sotto), per poi passare alla dottrina dell’ idiopragia (374 a ss.; 406 c 1-5) come presupposto della giustizia: è proprio in questo senso che i poeti e quanti praticano un’arte mimetica non sono compatibili con un ordinamento giusto della città. Tuttavia anche la descrizione che Platone fornisce della città sembra distorta: la testa (i.e. la trattazione relativa ai guardiani) sarebbe troppo ampia, mentre, nel libro 10, la descrizione quasi pittorica dell’anima tripartita diventerebbe eccessivamente bidimensionale e statica: mentre si critica l’arte, la natura del logos (esso pure imitazione, cf. le metafore dei libri 6 e 7) porrebbe il filosofo nelle stesse condizioni di imitatore in cui si trova anche il poeta. Tutta l’impalcatura dell’articolo, a parere di chi scrive, è però minata alla base dalla traduzione che viene fornita di 369 a 5-6: sono ancora convinto che logoi (dativo strumentale) debba essere legato a theasaimetha.
Oiva Kuisma sottolinea le affinità che legano la valutazione di Proclo e di Hegel circa le arti. Nonostante le affermazioni di Platone, Proclo ( In Remp. 1, 178 e 190) si sforza di dimostrare che il filosofo attico non sta negando all’arte ogni valore cognitivo. Hegel, a più forte ragione, è considerato come il primo rappresentante di un approccio che enfatizza il valore cognitivo dell’arte. Il valore di universalità riconosciuto da Hegel all’arte come manifestazione di un popolo o di una cultura è posta a confronto con la riverenza di Proclo per la poesia sapienziale greca (da Omero ai versi orfici); a questo riguardo si prende in esame anche la prassi di allegoresi che Proclo riserva alla poesia come mystagogia. La dottrina del Diadoco è posta a confronto con la Fenomenologia dello Spirito, secondo cui, con l’avvento del cristianesimo, l’arte greca avrebbe perso il suo contatto vivo con l’immaginazione di tipo religioso.
Christina-Panagiota Manolea raccoglie gli esempi di allegoresi che si trovano nel commento al Fedro di Ermia in tre classi: 1. allegoria di elementi funzionali alla scena del dialogo; 2. allegoria delle caratteristiche di dèi e uomini; 3. allegoria di episodi mitologici greci. Le interpretazioni del testo platonico sono in genere introdotte da lessemi standardizzati ( ainittetai, semainei, deloi, hypodeloi etc.) o da frequenti paretimologie. Talvolta tali forme di allegoresi sono ricondotte agli interpreti precedenti ( hoi palaioi) identificabili con Porfirio ma anche con una fonte stoica. Ermia sarebbe quindi un allegorista che ben conosce la tradizionale esegesi platonica ma che anche non rifugge da un personale contributo; in questo senso egli sarebbe erede anche di Siriano, autore di un’opera ora perduta che spiegava l’unione di Zeus ed Hera sul monte Ida.
Martino Rossi Monti pone a confronto un passo della vita di san Bernardo di Goffredo di Clairvaux (PL 185, 303: importanti la redundatio della grazia spirituale che determina anche la bellezza fisica di Bernardo) con una serie di fonti plotiniane (II, 9, 17; I, 6, 1; Vi, 7, 22; V, 8, 2; Vita Plot. XIII), ponendo in luce affinità nella descrizione della bellezza esteriore come conseguenza della purezza interiore. Poiché, come l’autore ammette, “the Cistercians could not read Plotinus” sarebbe stato interessante cercare di determinare per il mezzo di quale tramite (agiografico? filosofico? medivale o tardoantico?) tale imagérie si sarebbe diffusa nei milieu della riforma monastica del XII secolo.
Dopo aver ripercorso l’importanza dell’opera di Schleiermacher nella riscoperta di Platone nel XIX secolo fino a Wilamowitz e Jaeger, Tomaz Mroz esamina la diffusione dei testi del filosofo attico, mediati quasi sempre dall’opera del traduttore ed interprete tedesco; esempi in questo senso sono Jozef Jezowski (1793-1855: particolarmente importante per lui fu la cronologia dei dialoghi come stabilita da Schleiermacher) e Feliks Kozlowoski (1805-1870, professore a Varsavia e traduttore di quasi tutta la prima tetralogia). Ma il più importante interprete e critico del pensiero di Schleiermacher risulta Stefan Pawlicki (1839-1916), autore di una storia della filosofia greca.
Michael Wagner apre il proprio contributo con l’analisi della problematica natura/arte in Plotino (principalmente Enn. V, 8; V, 9; VI, 7). L’autore giunge a distinguere due tipi di arte: un primo tipo sarebbe solo imitativo (poesia, musica etc.), un secondo sarebbe produttivo (ad es. architettura); l’arte della natura sarebbe quella di produrre nella materia immagini degli intelligibili. Un confronto con il testo di Arist. Phys. II 8, 198 b 10 avrebbe forse apportato elementi interessanti per il rapporto physis / techne nella filosofia antica, che poi innescherà una lunga querelle in età rinascimentale.
Da parte dei curatori manca qualsiasi tipo di prefazione o di indicazione che aiuti il lettore a comprendere quale sia il filo conduttore che guida la raccolta dei contributi. Non si fornisce alcuna indicazione su data, luogo o altri dettagli della conferenza di cui il volume raccoglie gli atti (il che sarebbe di non poco aiuto nel tentativo di datare e contestualizzare i singoli articoli). A fine volume si cercherebbe invano un indice di qualsivoglia natura che possa rendere più agevole la consultazione del libro. Quando, tolte le lenti da miope, si ripercorrono gli articoli, si ricava la stessa impressione, quella dell’assenza di un motivo unificatore dei singoli saggi, che infatti sono raccolti in base all’ordine alfabetico del cognome degli autori ma non aggregati intorno a temi conduttori comuni o disposti secondo l’autore antico di pertinenza (si comincia ad es. con Giamblico per poi passare a Plotino, si torna a Giamblico ma il quarto contributo è dedicato nuovamente a Plotino, il quinto a Porfirio e poi di nuovo Giamblico…).
Table of Contents
1. Crystal Addey, Ecstasy Between Divine and Human: Re-assessing Agency in Iamblichean Divination and Theurgy, pp. 7-24
2. José Baracat, Soul’s Desire and the Origin of Time in the Philosophy of Plotinus, pp. 25-42
3. Jean-Michel Charrue, Providence et liberté chez Jamblique de Chalcis, pp. 43-63
4. Bernard Collette, Sleep and Waking in Plotinus, pp. 65-81
5. Anna Corrias, The Spiritual Body. Porphyry’s Theory of the ochêma in Ralph Cudworth’s True Intellectual System of the Universe, pp. 82-105.
6. John Dillon, Iamblichus’ Doctrine of the Soul Revisited, pp. 107-113.
7. Gary Gurtler, The Distorted City in the Republic, pp. 115-134.
8. Oiva Kuisma, Proclus on the Cognitive Value of Mythic Poetry. A Hegelian Reading, pp. 135-147.
9. Christina-Panagiota Manolea, Neoplatonic Allegories in Hermias, pp. 149-165.
10. Martino Rossi Monti, The Splendor of Grace: Plotinus and the Cistercian Tradition, pp. 167-178.
11. Tomaz Mroz, The Reception of Schleiermacher’s View on Plato in 19th Century Poland, pp. 179-189.
12. Michael Wagner, The Nature of Art and the Art of Nature in Plotinus, pp. 191-204.