Ristampare l’edizione e il commento dell’ Ibis di Robinson Ellis significa offrire al lettore moderno una duplice prospettiva da cui osservare il componimento ovidiano: quella ottocentesca di Ellis appunto (Oxford, 1881) e quella attuale di Gareth Williams, il curatore della nuova introduzione (vii-xxiii), che si presenta come un’efficace sintesi critica. In essa vengono infatti illustrate le ragioni per la ristampa di un’edizione che i tuttora non numerosi lettori dell’ Ibis continuano a postporre a quella lapenniana, ma vi si trova anche un gustoso ritratto dello studioso. Spesso si dimentica che un’edizione è pur sempre figlia del suo editore e sicuramente l’ Ibis costituiva un testo invitante “to which Ellis was doubtless also drawn because its obscurities appealed to his own scholarly proclivities and temperament” (p. vi). Ellis, già compiaciuto commentatore oxoniense di Catullo (1876) e assiduo esploratore dei tesori della Bodleian Library, aveva senza dubbio tutte le carte in regola per cimentarsi in un commento all’ Ibis, ottimo banco di prova per il notevole spirito di competizione e la curiosità dello studioso (p. xi); spesso però con la conseguenza di ridurre il tutto a un eruditissimo lavoro fine a se stesso senza concreti risultati a beneficio del testo. Le raffinate speculazioni di Ellis finiscono per rendere il suo commento una sorta di alter ego del testo ovidiano: talvolta il commentarius sembra sfidare le ambages del poema piuttosto che delucidarle. A noi lettori ‘moderni’ lo sforzo del filologo non basta più: non si può non essere d’accordo con Williams quando segnala quale punto debole del commento (almeno, ripeto, per lettori di oltre un secolo più tardi) la mancanza di consapevolezza critica: “Ellis brings nothing fundamentally new to the interpretation of the Ibis as a work of literature” (p. xii).
Venendo ora all’edizione, questa riproduce l’originaria ripartizione in Praefatio (v-xvi), Prolegomena (xix-xliii), testo (1-41), Scholia (43-104), commento (105-170), più un excursus e un indice. Mi soffermo qui sotto su qualche aspetto più in dettaglio.1
Stupisce che proprio Ellis, editore e commentatore di Catullo, non si sia mostrato sensibile a una serie di presenze catulliane nell’ Ibis, a cominciare dal termine libellus che porta con sé tutta una serie di suggestioni catulliane (oltre che callimachee), soprattutto alla fine del poema: cf. v. 639 subito … libello che, in sede epilogica, credo rimandi proprio al prologico libellum di Cat. 1.1, senza considerare che l’epilogo dell’ Ibis esibisce un marcato contatto con Cat. 116, l’ultimo componimento della raccolta. Come Catullo si dichiara pronto a dar battaglia a Gellio (116.8), così Ovidio è pronto a sferrare l’invettiva giambica (644). In entrambi i poeti tali affermazioni seguono il simbolico ‘addio’ letterario a Callimaco (per Battiades cf. peraltro Cat. 116.2 e Ibis 53-56): il programma poetico annunciato ha un che di ironico, perché, se è pur vero che l’identità di Ibis non è stata resa nota, la veemenza della maledizione possiede già tutti i tratti dell’invettiva giambica (e questo vale in certa misura anche per il Gellio di Catullo, pesantemente bersagliato nei poemi precedenti).2 Notare un contatto testuale di questo tipo può far emergere nel testo risvolti semantici non trascurabili, di cui un commento (non puramente conferristico) deve in qualche modo tenere conto.
Per i vv. 81-82 vos quoque plebs superum fauni satirique laresque, / fluminaque et nymphae semideumque genus sarebbe stato forse opportuno un riferimento più esteso a Met. 1.192-193 sunt mihi semidei, sunt, rustica numina, nymphae / faunique satyrique et monticolae silvani (Ellis menziona rapidamente il v. 192 solo in rapporto a semideum), versi che l’ Ibis verosimilmente cita. Questa ‘plebe’ divina popola non di rado il testo ovidiano e tale aspetto meriterebbe di trovare maggiore spazio in un commento. Se la presenza di queste divinità minori non deve stupire nell’invocazione—alle ninfe spesso è rivolta la richiesta di rendere effettiva la maledizione3— nella quasi-citazione c’è sicuramente anche l’intenzione di riattivare la memoria del passo un po’ umoristico delle Metamorfosi, in cui Giove si prefigge di risparmiare i semidei dalle crudeltà del genere umano.4
In merito ai vv. 343-344 mens quoque sic Furiis vecors agitetur, ut illi / unum qui toto corpore vulnus habet, concordo con Ellis (che a sua volta segue l’interpretazione di Parrasio, p. ix e p. 127) nell’ipotizzare che qui si tratti di Aiace Telamonio e non di Marsia come invece sostiene La Penna5, che cita nel suo commento dei passi metamorfici non del tutto pertinenti ( Met. 6.387-388 e 15.528-529). La Penna stesso riporta peraltro dei passi in cui si parla dell’invulnerabilità di Aiace Telamonio fatta eccezione per una parte del suo corpo (l’ascella o il fianco). L’identificazione con Aiace Telamonio può giovarsi anche del fatto che il distico precedente introduce la pena dell’altro famoso Aiace, l’Oileo, e credo che questa ‘contiguità’ mitologica avvalori l’ipotesi di Ellis, senza considerare che vecors, ammiccando alla mani/a del corrispettivo sofocleo, è in qualche modo aggettivo più confacente ad Aiace che a Marsia (cf. e.g. Petr. 69 Aiax insanit; Apul. Met. 3.18 insanis … Aiacis). E si aggiunga che nella tragedia sofoclea Aiace prima di darsi la morte invoca inter alios anche le Erinni (cf. vv. 835 ss. e anche v. 1034). Il distico ci offre nel primo verso il dato mitologico per noi più tradizionale, quello cioè della follia di Aiace, mentre introduce nel secondo l’‘informazione’ relativa alla sua morte, poco importa se legata al suicidio o meno.6
Non solo la ricerca di un’identità per Ibis (pp. xix-xxvii) mi sembra un obiettivo poco allettante e piuttosto ozioso da una prospettiva letteraria moderna: anche l’insistenza sul dato biografico lo è. Si veda nello specifico p. xx: Ellis ricostruisce le origini ‘africane’ di Ibis sulla base dei vv. 221-222 qui simul impurae matriis prolapsus ab alvo Cinyphiam foedo corpore (“in Africa natus est, matre ignobili, et ut videtur Afra”) per poi aggiungere “habuit propinquos, fortasse uxorem et liberos” sulla base del v. 56 hoc ego devoveo teque tuosque modo. Un verso come il 56 spinge forse il commentatore moderno a tutt’altro genere di considerazioni. Per il teque tuosque anziché limitarsi a osservare “molto comune” (La Penna, ad loc.), suggerirei piuttosto un confronto con Cat. 64.200-201 sed quali solam Theseus me mente reliquit, / tali mente, deae, funestet seque suosque. “In quel modo … in tale modo”, parafrasando un po’ liberamente, è la conclusione della maledizione di Arianna che Ovidio recupera in Ibis 55-56, notoriamente sensibile com’è ai loci poetici strategici, quali sono quelli epilogici. Peraltro l’intertesto di Cat. 64 risulta operativo anche in altri punti: cf. Ibis 69 e Cat. 64.195; Ibis 79 e Cat. 64.193; Ibis 87 e Cat. 64.204; si noti poi come in modo imprevisto—ma molto ovidiano—il poeta si allontana dal modello della maledizione di Arianna traghettando i suoi versi verso quella di Teseo (!) contro Ippolito: vv. 89-90 quaeque precor, fiant, ut non mea dicta, sed illa / Pasiphaes generi verba fuisse putet.
La congettura Panthoides del v. 447 e relativo excursus (pp. 178-180) dimostrano esemplarmente come il commento di Ellis riesca talvolta a superare in complessità perfino il testo dell’ Ibis. Cf. invece R. Rosen, CQ 38.2, 1988, pp. 291-296.
La postilla bibliografica potrebbe essere integrata con: M. C. Garci/a Fuentes, ’Mitologi/a y maledicio/n en el Ibis ’, CFL 2, 1992, pp. 134-135; C. J. Gordon, Poetry of maledictions: A Commentary on the ‘Ibis’ of Ovid, Diss., Ann Arbor 1993; A. Schiesaro, ‘Dissimulazioni giambiche nell’Ibis’, in F. Bertini (ed.), Giornate Filologiche “Francesco della Corte” II, Genova 2001, pp. 125-136.
Si segnala infine un refuso minimo a p. XVI “lette-rario”.
Che senso ha offrire, in ultima analisi, a un pubblico di lettori moderni la ristampa di un’edizione (per inciso condannata da Housman) basata su dieci manoscritti dopo i progressi compiuti in questa direzione dai lavori di Lenz e soprattutto di La Penna? Al di là del fatto che questa scelta della Bristol Phoenix Press ha il merito di riscattare dall’oblio un lavoro molto meritevole in una veste editoriale decisamente gradevole, rappresenta forse anche un modo per insistere sulla necessità di non escludere l’ Ibis, come è stato fatto almeno fino agli anni ‘90, dal panorama degli studi ovidiani e dal ‘canone’ delle sue opere: e lo stesso principio credo possa valere anche per altri testi letterari un po’ peregrini quali le Heroides, l’ Aetna, l’ Achilleide. Il testo è certamente faticoso (tradizione scoliastica inclusa) e l’eruditissimo commento in latino di Ellis non aiuta a farlo uscire dal suo isolamento, ma l’iniziativa, in virtù anche dell’agile introduzione di Williams, costituisce senza dubbio un invito a ripensare il posto di questo poema tra le altre opere ovidiane, con cui condivide, mutatis mutandis, le stesse sofisticate, e ovidianissime, regole del gioco letterario.
Notes
1. Il testo dell’ Ibis è citato qui secondo l’edizione di Ellis.
2. Ulteriori dettagli in C. Battistella, Momenti intertestuali nell’Ibis, di prossima pubblicazione in SIFC.
3. Cf. E. Fantham, Latin Poets and Italian Gods, Toronto-Buffalo-London 2009, p. 14.
4. Cf. F. Bömer, P. Ovidius Naso, Metamorphosen, Heidelberg 1969, p. 85 e soprattutto A. Barchiesi, Ovidio. Metamorfosi, Volume I (Libri I-II), Milano 2005, pp. 185-186. Si noti peraltro che in entrambi i testi la menzione dei semidei è preceduta da quella dello Stige: Met. 1.188-189 … per flumina iuro / infera sub terras Stygio labentia luco; Ibis 77-78 quique per infernas horrendo murmure valles / inperiuratae laberis amnis aquae.
5. Publi Ovidi Nasonis, Ibis, Firenze 1957.
6. Ringrazio Darcy Krasne per avermi consentito di leggere il capitolo 2 della sua tesi di dottorato (di prossima discussione) sull’ Ibis. Nella nota 400 Krasne fornisce molti dettagli utili all’identificazione di Aiace Telamonio, cf. anche il rinvio a LIMC 1, Aias I, p. 135.