La monografia di Sabrina Mutino, inserita nella collana di studi ADRIAS, diretta da Ettore M. de Juliis, esce per l’editore Edipuglia di Bari. Il lavoro della giovane ricercatrice, che ha anche vinto il “Premio speciale Città di Potenza” nella XXXV edizione del “Premio letterario Basilicata”, ha vari pregi, ampiamente sottolineati dalle prefazioni di Marcello Tagliente, Sovrintendente ai Beni Culturali e Archeologici della Basilicata, e di Ettore M. de Juliis, dell’Università degli Studi di Bari.
Nata come tesi di specializzazione presso la Scuola Archeologica dell’Università di Bari, la ricerca della Mutino ha come scopo quello di presentare un sito archeologico ancora pressoché ignoto, attraverso il recupero, l’analisi e lo studio dei materiali provenienti dagli scavi effettuati in diverse occasioni e conservati sia nel Museo Provinciale di Potenza, sia nei depositi della Sovrintendenza Archeologica della Basilicata.
Come spiegato nella sua breve “Prefazione” (11), l’autorizzazione allo studio di questi materiali è stata concessa solo nel maggio del 2004 dall’allora sovrintendente, dott.ssa Maria Luisa Nava e grazie alla collaborazione di molte persone ed al patrocinio dell’Associazione Nazionale Archeologi, la ricerca ha avuto la fortuna di vedere la luce.
Nella sua “Introduzione” (13-18), l’autrice traccia gli obiettivi della sua ricerca ed espone i metodi utilizzati, non mancando di menzionare le poche pubblicazioni che fino ad oggi costituivano il misero corredo bibliografico a propria disposizione.1 Il materiale è suddiviso non secondo la cronologia, bensì in base all’epoca di ritrovamento. Le riproduzioni fotografiche di alcuni pezzi pubblicati da Ranaldi nei suoi articoli sono risultate utili ai fini della loro identificazione nei magazzini, anche se purtroppo alcuni di essi mancano all’appello. Alla fine dello scorso decennio inoltre, secondo un progetto di nuovo allestimento del Museo, è avvenuta una nuova catalogazione che ha complicato non poco il quadro della situazione.
Come fase preliminare, la Mutino traccia una “Storia della ricerca archeologica” (19-27) che interessa la collina di Barrata, a Km. 15 a N-E di Potenza, ed a m. 900 s.l.m. Il sito, nei cui pressi è stata rinvenuta traccia della presenza umana fin dal Quaternario, domina il corso del torrente Rivisco e della fiumara Tiera ed è delimitato da due profondi valloni: ad ovest il Vallone Corrado e ad Est il Vallone San Gerardo. Francesco Ranaldi, allora direttore del Museo Archeologico Provinciale di Potenza, compì fra il 1956 ed il 1959 una serie di campagne di scavo, dopo una segnalazione, secondo la quale una frana causata dalla pioggia, aveva riportato alla luce residui di vasi ed ossa umane. I risultati furono poco dopo pubblicati2 ma non fornirono tutte le risposte ai tanti interrogativi emersi. Egli individuò i resti di una chiesa medievale edificata sopra una necropoli antica. Antonio Capano, ispettore archeologo della Sovrintendenza della Basilicata (nata nel 1964), a seguito di scavi clandestini, eseguì tre saggi nel 1985 che portarono al ritrovamento della tomba B con corredi che si collocano dal VI al IV secolo a.C. Le ricognizioni effettuate nel 1991 e nel 1996 confermarono l’ipotesi secondo la quale il nucleo insediativo principale in cima alla collina, dall’ampio arco cronologico (VIII-VII sec. a.C. — età romana), sarebbe stato circondato da altri più piccoli e dalle relative necropoli. Nel luglio del 1998, la cooperativa Archè effettuò due saggi sul pianoro per approfondire la conoscenza delle strutture murarie rinvenute da Ranaldi. Sono state individuate dieci sepolture,3 i cui corredi hanno confermato l’ipotesi di Ranaldi dell’esistenza cioè di una necropoli che dall’età arcaica si protrae fino al tardo antico, e che è in seguito obliterata da una chiesa. Nel 1999, la cooperativa “Lucanìa Antica” aprì due saggi a ridosso dell’abside e permise così di trovare confronti planimetrici nella stessa Basilicata, per la chiesa di Barrata che viene datata nel periodo XIV-XV secolo.
Nel capitolo riservato ai “reperti” (29-58), questi ultimi vengono suddivisi in base alla loro funzione ed alla materia della quale sono costituiti (argilla, vetro, bronzo, ferro e pietra). Per la loro cronologia, sono state distinte tre fasi: età del Bronzo e del Ferro (F1), fine VII-inizi IV sec. a.C. (F2) ed età imperiale romana — tardo antica (F3). Le categorie presentate sono:
– Vasi in ceramica di tradizione anellenica (F1-F2) suddivisi in 5 sottogruppi.
– Vasi in ceramica d’imitazione e di tradizione greca (F2) suddivisi in 5 sottogruppi.
– Vasi in ceramica tardo-antica e medievale(F3) suddivisi in 2 sottogruppi.
– Vasi in bronzo (F2)
– Vasi in vetro (F3)
– Terrecotte architettoniche (F2-F3)
– Oggetti di ornamento personale (F2-F3)
– Armi (F2)
– Strumenti (F1-F2-F3)
Nel capitolo seguente sono distinte dodici tipologie d’argille e a cui segue la “Composizione dei gruppi ed il catalogo vero e proprio dei reperti” (59-90). Essi sono esposti in base al loro ritrovamento, in cinque gruppi (Corredo delle tombe, reperti editi del Museo Provinciale, reperti inediti del Museo Provinciale, reperti inediti della Sovrintendenza, reperti di probabile provenienza da Barrata). Per ognuna delle 10 tombe identificate è tracciata una breve scheda con i relativi dati (data di scavo, tipologia e misure, orientamento, resti ossei, corredo, cronologia) seguita dalle schede dei 55 pezzi rinvenutivi (provenienza, collocazione, dati tecnici, descrizione, decorazione, stato di conservazione, cronologia, bibliografia). Seguono i 15 reperti editi4 ed i 13 inediti5 conservati al Museo provinciale. I 54 reperti catalogati di seguito sono frutto degli scavi del 1985, 1998, 1999 e delle ricognizioni del 1991 e 1996 e perciò inediti. Chiudono il catalogo infine i 44 pezzi di probabile provenienza da Barrata.
Nelle sue “Conclusioni” (91-102), la Mutino esamina tre questioni sorte dalla sua ricerca:
1. L’identità dell’ethnos dell’Italia antica a cui appartengono i resti del sito di Barrata
2. Il rituale funerario
3. La tipologia insediativa.
Per quanto riguarda la prima questione, sulla scorta delle testimonianze di antichi scrittori greci6 e latini7, i cui riferimenti sono certo lontani nel tempo alla realtà storica indagata, si restringe il campo a due popoli, gli Enotri ed i Peuketiantes. A causa della differenza della pratica d’inumazione che a Barrata risulta essere rannicchiata, rispetto a quella Enotria, l’autrice esclude questa ipotesi senza adottare però in pieno l’altra perché manca un qualsiasi riferimento geografico per la collocazione dei Peuketiantes nel territorio italico, se non il fatto che in epoca storica essi forse avrebbero assunto i costumi dei “vicini” Peuketioi, come starebbe ad indicare il suffisso “-ant”.
Pur nell’esiguità delle testimonianze e grazie ad una serie di pertinenti confronti con altri siti noti nelle vicinanze, vengono formulate interessanti osservazioni sul rituale funerario che mostrano le tombe indagate. La presenza massiccia di vasi nelle sepolture non disgiunta da quella di oggetti personali, di ornamento o di riferimento al ruolo sociale del defunto, così come la loro posizione all’interno della tomba fanno credere alla presenza di rituale funerario per le sepolture più antiche.Le tombe rinvenute a Barrata infatti si possono suddividere in due gruppi: al primo appartengono le tombe B, 3, 4, 8, 9, 11, 12, (VI-IV sec. a.C.). Esse sono monosome, senza traccia di riutilizzo, prive di copertura lapidea, a fossa terragna di forma pressoché rettangolare, quasi tutte orientate in senso NW-SE. Di un secondo gruppo di tombe (VII secolo d.C.) invece, prive di segnacolo, con copertura in pietre di piccole dimensioni, fanno parte una bisoma (1) e due contigue (2 e 7).
Dall’analisi della tipologia insediativa nell’entroterra potentino, e dal confronto con le strutture restituite da altri siti viciniori, risulta che il sito di Barrata abbia vissuto almeno quattro fasi di vita. Una prima fase (VI sec. a.C.), che determina la nascita dell’insediamento della popolazione autoctona sul colle, è testimoniata dalla necropoli e dalle fortificazioni individuate e dalle tracce di capanne sul pianoro. Una seconda fase (IV-III sec. a.C.) dovuta alla nascita dell’ethnos dei Lucani, è testimoniata dai resti di muretti a secco di strutture abitative. Una terza fase (II-III sec. d.C.) mostra presenza di un insediamento rurale romano, testimoniato solamente dall’epigrafe latina, peraltro priva di contesto di rinvenimento.8 Una quarta fase (VI-VII sec. d.C.) di frequentazione sporadica, è testimoniata dalla ritrovamento delle tombe tardo-antiche.
In Appendice, l’autrice inserisce la “caratterizzazione archeometrica di cinque campioni ceramici” (103-112). Questo studio ha lo scopo di ricavare maggiori informazioni sulla provenienza dell’argilla e sulla tecnologia di produzione. I risultati confermano la sostanziale omogeneità dei campioni, già emersa dall’esame autoptico, e l’utilizzo di materie prime locali, sia per il corpo ceramico che per la decorazione. Non è però emerso nessun fattore determinante per l’uso del tornio. Due dei pezzi presentano ingabbiatura mentre in tutti i campioni la vernice è stata aggiunta prima della cottura.
Nelle “Tabelle cronologiche” (113-118) sono catalogati tutti i reperti esaminati con provenienza, numero di inventario, collocazione e numero di catalogo. L’aggiornata “Bibliografia” (119-130) conclude il volume, insieme all’indice delle fonti antiche citate (131). Nelle “Tavole” (133-197) sono illustrati sia il sito attraverso fotografie e carte topografiche (I-IV) che i materiali disegnati (V-XXX) e fotografati a colori (XXXI-LXIII).
Il volume, graficamente ben curato e con ottime fotografie a colori, si presenta in una buona veste tipografica, seppur privo di un qualsiasi estratto in lingua straniera (scelta forse da non addebitarsi all’autrice). In questa monografia viene ricostruita la storia di un doppio recupero: da un lato dei materiali dispersi fra il Museo e la Sovrintendenza e dall’altro degli stessi dati raccolti nel corso degli anni, da vari ricercatori. La sintesi che la Mutino offre al lettore non può che essere di giovamento per la migliore conoscenza della zona potentina in un periodo storico ancora oscuro e perciò così difficile da comprendere.
Notes
1. F. Ranaldi, Ricerche archeologiche nella provincia di Potenza (1956-1959), Potenza 1960, pp. 10-15, tav. III; A. Capano, “Recenti scavi in Basilicata”, in Klearchos, XXIX, (1987), pp. 65-73; A. Capano, “Potenza: note di archeologia”, in A. Capano (a cura di), Beni culturali di Potenza, Agropoli 1989, pp. 20, 28; A, Capano, T. Pedio, M. Restivo, La Valle dell’Alto Basento, Avigliano 1989, p. 28.
2. Ranaldi 1960, pp. 10-15, tav. III.
3. Delle dieci sepolture individuate solo sette sono recuperate: 1, 2, 3, 4, 7, 8 e 9.
4. Di sette di essi è riprodotta in miniatura l’unica fotografia edita da Ranaldi, poiché la loro collocazione non è stata rinvenuta.
5. Anche per cinque di essi è riprodotta in miniatura la fotografia perché la collocazione non è stata identificata.
6. Sugli Enotri, cfr. Strabo, VI, I, 14-15. Dionys. Hal., I, 11-13. Antiochus apud Dionys. Hal. I, 12, 3. Per i Peuketiantes, cfr. Steph. Byz. Fr. 89 Jacoby.
7. Varro apud Serv. ad Aen., I, 532.
8. Si tratta di un documento relativo ad un personaggio, morto all’età di trent’anni, appartenente alla gens Cania. Cfr. C.I.L., X.1, 384. Per l’attribuzione dell’epigrafe al sito di Barrata, cfr. M. Torelli, “Epigrafi latine potentine presso il Museo archeologico provinciale di Potenza”, in A. Capano (à cura di), Beni culturali di Potenza, Agropoli 1989, p. 52.