A lungo considerata la traduzione di età tardoantica di un’omelia di Basilio, grande padre della chiesa greca, in realtà, grazie all’ottimo lavoro realizzato da Álvaro Cancela Cilleruelo in questa ricca e documentatissima edizione, l’Epistula consolatoria, nota anche come De consolatione in adversis, appare come uno scritto redatto originariamente in latino e, con molta probabilità, realizzato in Gallia nel V-VI sec.
Si tratta di un ottimo esempio, nello stesso tempo, di ammirevole dottrina e di sagace metodo filologico e critico. Ne è prova la consistenza stessa di questo volume in cui spicca, a fronte di un testo nel complesso non particolarmente lungo (poco più di una cinquantina di pagine), l’ampia e dotta introduzione, di oltre 300 pagine, nella quale il curatore fornisce elementi nuovi tanto per la constitutio textus quanto per l’interpretazione generale dell’opera.
Entriamo più nel dettaglio. Dopo un iniziale Prólogo (pp. 5*-9*), nel quale Cancela Cilleruelo illustra genesi e finalità del suo lavoro, l’Introducción si articola in sei sezioni (a loro volta, a eccezione della quinta dedicata alle edizioni precedenti, suddivise in ulteriori sottosezioni tematiche): nella prima (pp. 11*-26*), l’attenzione è focalizzata in modo particolare sulla presentazione dello scritto e sulle numerose problematiche di attribuzione, origine e datazione. Cancela Cilleruelo discute analiticamente tutte le possibili attribuzioni di questo scritto: pur non escludendo a priori che possa trattarsi di una versione di un’opera perduta di Basilio (o eventualmente a lui falsamente attribuita: cfr. in particolare le pp. 21*-22*), lo studioso argomenta persuasivamente come in realtà una simile ipotesi risulti notevolmente labile, in particolare a fronte di una più minuziosa analisi dei contenuti che semmai dimostra che il modello seguito dall’anonimo autore è stato Cipriano e il suo ben noto De mortalitate. Ancora meno persuasive sono le attribuzioni al vescovo africano Vittore di Cartenna, a cui Gennadio di Marsiglia nel suo De viris illustribus attribuisce l’opuscolo Super mortem filii consolatorium indirizzato a un certo Basilio, visto che qui il solacium è offerto a conforto della malattia della lebbra e non per la morte di un figlio, oppure quella alla principessa franca Radegonda di Poitiers, che ebbe come biografo Venanzio Fortunato, il quale però non fa mai menzione di opere letterarie ascrivibili alla nobildonna, diventata poi monaca. Sulla base di nuove evidenze, che riguardano «(a) la tradición manuscrita; (b) la evidencia lingüística; (c) las fuentas empleadas por el autor, especialmente en las citas bíblicas» (p. 23*), Cancela Cilleruelo arriva, come detto, alla conclusione che l’opera abbia origine nella Gallia tardoantica e che sia uno scritto originale, non il frutto di una traduzione dal greco.
Seguendo l’elenco presentato dallo studioso (ma non rispettato però nell’organizzazione della materia), la quarta sezione (pp. 201*-278*) è dedicata alla tradizione manoscritta e all’elaborazione dello stemma codicum. Il merito dello studioso è stato quello di aver rintracciato (sulla scorta di una breve segnalazione del patrologo americano D. Brearley che però si occupava di altri testi contenuti in quel codice) e valorizzato un manoscritto di Angers (Bibliothèque municipale, 275), siglato A, del IX sec.: la particolarità di questo testimone consiste nel fatto che la maggior parte degli interventi sul testo ha la funzione di regolarizzare in forma più classica le numerose particolarità grafiche, fonetiche e morfologiche dell’opera, offrendo pertanto indizi a supporto della genesi dello scritto nella Gallia merovingia. Il codice di Angers, sottoposto a una minuziosa analisi paleografica e filologica, si rivela autonomo rispetto agli altri testimoni superstiti, come dimostrato in particolare alle pp. 234*-238*, dove si analizzano alcune citazioni bibliche riportate secondo la Vetus Latina, e non invece, come negli altri testimoni, normalizzate sul fondamento della Vulgata di Girolamo.
Nel lungo e minuzioso Estudio lingüístico che costituisce la terza sezione (pp. 89*-200*), Cancela Cilleruelo, con meticolosa e ammirevole puntualità, analizza a loro volta tutte le particolarità linguistiche e stilistiche, dal punto di vista della scrittura, della fonetica e della morfosintassi, sfruttando in particolare le novità fornite dal manoscritto di Angers. Non possiamo qui entrare nel dettaglio della massa di informazioni elaborate dallo studioso, di cui è davvero apprezzabile la sensibilità storica di fronte al fenomeno linguistico, mai ingabbiato in formule o modelli precostituiti. Sono, a mio giudizio, convincenti le conclusioni a cui arriva, formulate peraltro sempre con estrema chiarezza: si prendano in particolare le pp. 94-95, in cui la facies linguistica di questo scritto è accostata per somiglianza ad altre tipologie di testi del secc. VI-VIII, come i documenti diplomatici merovingi, le iscrizioni del medesimo periodo e la tradizione di testi collocabili con certezza proprio al medesimo periodo e allo stesso contesto storico. Ci troviamo, pertanto, «antes de la reforma carolingia» (p. 95*), e quindi ben prima del ritorno a un più formale classicismo di lingua e di stile; le particolarità che emergono inducono, pertanto, anch’esse a collocare l’Epistula consolatoria proprio in quell’area merovingia che, nel medesimo periodo, ha prodotto altri scritti in un latino assai simile con i quali anche il nostro testo dialoga in piena coerenza.
Nell’Estudio literario (pp. 27*-88*), che costituisce la seconda sezione, Cancela Cilleruelo si sofferma invece sulla struttura retorica del testo, con un’analisi dettagliata dei vari exempla di matrice biblica che, con la loro autorevolezza, sono portati a supporto dell’obiettivo di portare conforto al destinatario. Andava forse precisato con maggiore incisività che il genere consolatorio abitualmente ricorreva all’utilizzo di esempi che servivano a rendere più efficace il solacium che si intendeva offrire. Se nella tradizione classica gli exempla erano ricavati abitualmente dal mito o dalla storia, ora invece con il cristianesimo (e in particolare Girolamo testimonia questa innovazione nell’ep. 77: veterem materiam novam faciam) il bacino prediletto da cui attingere questi materiali è la Sacra Scrittura. Anche se formalmente questo testo non è ascrivibile alle tradizionali consolationes pagane, come quelle di Cicerone, Seneca o Plutarco, che avevano solitamente per tema la perdita di una persona cara, solitamente di giovane età, o l’esilio, ma può essere classificato più propriamente come un’epistola di esortazione alla pazienza durante la malattia (e non a caso il modello di riferimento è, come detto, il De mortalitate di Cipriano), non mancano, sul piano dello stile, elementi in qualche modo comune, a iniziare dalla metaforologia ricavata in gran parte dal lessico medico (si vedano in merito le pp. 39*-41*). In merito alle fonti letterarie, lo studioso si dimostra assai prudente, per non dire scettico, relativamente a un possibile influsso del De providentia di Seneca, ancorché quest’ultimo godesse di alto credito presso i cristiani (forse andava aggiunto in bibliografia anche il documentato P. Mastandrea, Lettori cristiani di Seneca filosofo, Brescia 1988), sostenendo, credo a ragione, che i presunti contatti si debbano in realtà «a fenómenos de poligénesis y a la existencia de una tradición filosófico-literaria extendida y común» (p. 47*). Resto altresì scettico che la menzione, ai rr. 271-274, dell’usanza degli Assiri di lasciare i cadaveri dei morti esposti alle bestie e agli uccelli possa derivare da fonti classiche (sono avanzati i nomi di Silio Italico e soprattutto di Cicerone nel I libro delle Tusculanae disputationes, come Cancela Cilleruelo pare ritenere, anche per la diffusione di quest’opera in area merovingia: cfr. p. 49): simili riferimenti, che servivano solitamente ad accentuare il color retorico, potevano circolare ampiamente anche in ambito scolastico, senza necessariamente essere ripresi di prima mano da una fonte classica.
La sesta e ultima sezione (pp. 297*-303*), incentrata sui criteri ecdotici seguiti nell’edizione, e un’imponente bibliografia (pp. 309*-346*) introducono il testo dell’Epistula (pp. 3-30: le pagine relative all’edizione vera e propria non portano asterisco), corredato da vari apparati: non solo quello “critico” propriamente detto, sempre positivo (e dove non manca qualche intervento diretto dello stesso Editore, come il carissime cum del r. 37), ma anche i fontes biblici e un repertorio di loci similes soprattutto con la letteratura patristica.
Copiosi Indices (pp. 31-49) chiudono questa ottima edizione che rimane, per ampiezza di documentazione e per rigore scientifico, un esempio di metodo per chiunque voglia occuparsi di questi testi solitamente poco frequentati, ma che sono testimoni significativi del definitivo passaggio alla cultura medievale.