La domanda di partenza del corposo volume di Justin Stover e George Woudhuysen è tanto semplice quanto fondamentale: che cos’ha scritto esattamente lo storico Sesto Aurelio Vittore? Una risposta da manuale è che Vittore sia l’autore del Liber de Caesaribus, una breve storia di Roma da Augusto al 360 d.C. tramandataci insieme all’Origo gentis Romanae e al De viris illustribus, due anonimi compendi storico-biografici che abbracciano complessivamente il periodo dalla fondazione della città ad Antonio e Cleopatra; dal Liber de Caesaribus deriverebbe la cosiddetta Epitome de Caesaribus, che ha una tradizione manoscritta indipendente ed estende la narrazione di Vittore fino al 395 d.C. Secondo Stover e Woudhuysen, tuttavia, il rapporto di Liber ed Epitome con l’opera di Vittore sarebbe di tutt’altra natura: nessuno dei due testi ci tramanderebbe infatti le parole dello storico, ma sarebbero entrambi epitomi di una perduta Historia paragonabile, per estensione e ambizioni letterarie, a quella del suo grande contemporaneo Ammiano Marcellino. Il titolo del volume riassume appunto in nuce questa ipotesi di lavoro e il dirompente mutamento di prospettiva che essa presuppone.
The lost history of Sextus Aurelius Victor consta di due parti, ciascuna di cinque capitoli, seguite da conclusioni generali, un’appendice critico-testuale, bibliografia e indici. La prima parte si propone di dimostrare l’assunto iniziale attraverso un riesame dei dati relativi alla figura e all’attività letteraria di Vittore; la seconda mette a frutto la “scoperta” dell’esistenza di una grande storia di Roma composta nel IV secolo d.C. ripercorrendo una serie di vexatae quaestiones alle quali questa nuova prospettiva permette di dare risposte radicalmente differenti rispetto a quelle sedimentate nel dibattito critico.
L’argomentazione sviluppata nella prima parte si fonda su tre capisaldi, sostenuti da un’ampia rete di considerazioni accessorie sulla pratica dell’epitomazione nell’antichità e sulla cultura letteraria che emerge dall’analisi di Liber ed Epitome. Il primo riguarda il giudizio degli antichi su Vittore e sulla sua opera storica: la brillante carriera politica del personaggio, che gli valse l’erezione di una statua in suo onore da parte di Giuliano e la carica di praefectus urbi sotto Teodosio, l’altissima considerazione in cui lo teneva Ammiano Marcellino e l’interesse manifestato da Girolamo per la sua Historia sono – insieme ai molti altri elencati e discussi dai due autori – elementi che appaiono inconciliabili con il piccolo Liber de Caesaribus, il quale difficilmente giustifica testimonianze tanto lusinghiere nei confronti del suo (presunto) autore.
Il secondo, fondamentale caposaldo è l’evidenza manoscritta. Da un riesame dei testimoni di Liber ed Epitome affiorano infatti importanti conferme in merito alla natura di entrambi i testi come “abbreviazioni” di un’opera più vasta: in questa direzione puntano innanzitutto i titoli con cui sono presentati nei codici, rispettivamente Historiae abbreviatae e Libellus breviatus, che Stover e Woudhuysen valorizzano al punto da sostituirli a quelli vulgati[1]; il Liber de Caesaribus ci è stato inoltre tramandato, come si è detto, come terzo elemento di un corpus comprendente altre due opere che sono l’evidente frutto di un lavoro di epitomazione da fonti più ampie, ragion per cui è ragionevole concludere che sia anch’esso il prodotto di un processo analogo; e ancora, il Liber presenta delle incongruenze che sono quasi incomprensibili se si parte dal presupposto che siano il risultato di una coerente volontà autoriale, mentre trovano immediatamente senso interpretandole come “effetti collaterali” della compressione e semplificazione di una preesistente narrazione storica di ampio respiro.
Il terzo (ma non meno importante) aspetto è l’esistenza di testimonianze come quelle di Giovanni Lido e degli Scholia Vallicelliana a Isidoro di Siviglia, le quali ci tramandano informazioni sull’opera di Vittore che non trovano riscontro né nel Liber né nell’Epitome: ancora una volta, la spiegazione più ovvia è che esse siano state tratte dalla sua Historia prima che quest’ultima venisse compendiata nella doppia forma in cui ci è giunta.
Nelle quasi duecento pagine che compongono la prima parte del volume l’argomentazione è condotta con rigore ed efficacia, qualità a cui si aggiunge la scelta di uno stile chiaro e preciso, tanto più apprezzabile alla luce della notevole complessità dei temi trattati. In generale, l’operazione sembra cogliere nel segno: la soluzione alla Victorfrage proposta da Stover e Woudhuysen è economica, elegante e ben supportata dai dati, e non sarà semplice in futuro espungerla dal quadro generale della storiografia in lingua latina del IV secolo. Con ogni probabilità il Liber de Caesaribus non è l’opera di Sesto Aurelio Vittore ma una sua riduzione, la quale presenta caratteristiche peculiari e ben distinte da quelle dell’Epitome de Caesaribus[2].
Non sempre altrettanto convincenti risultano invece le considerazioni sui moltissimi aspetti collaterali toccati nei primi cinque capitoli, dal background letterario di Vittore alle discrepanze strutturali tra Liber ed Epitome. Buona parte del capitolo IV è dedicata proprio a una ricostruzione delle letture di Vittore basata sul Liber de Caesaribus, che meglio si presta a un’operazione di questo tipo[3]. Alle caratteristiche già note – come la forte influenza sallustiana – Stover e Woudhuysen ne aggiungono molte altre, arricchendo considerevolmente il quadro relativo alla cultura letteraria di Vittore; in più di un’occasione, però, gli indizi su cui si basano appaiono labili. Si prenda il caso di Velleio Patercolo, discusso alle pp. 93-96. Basta davvero l’occorrenza di un nesso come antiquissimi moris a stabilire un rapporto tra Vell. 2.116.3 e Aur. Vict. 18.1[4]? E la maggiore frequenza dei composti di annus nei due testi dipenderà dalla consapevole ripresa di un tic lessicale dello storico tiberiano o dalla loro stessa natura, visto che entrambi trattano periodi molto estesi in una narrazione estremamente concisa? Esempi di questo tipo potrebbero moltiplicarsi; l’impressione è che, nel tentativo di fornire un quadro onnicomprensivo delle letture di Vittore, i pur numerosi risultati di sicuro valore siano diluiti in un “rumore di fondo” fatto di paralleli spuri o decisamente effimeri.
Problematica appare inoltre l’ipotesi formulata alle pp. 176-186, anche per le sue profonde ripercussioni sul seguito dell’argomentazione. Liber ed Epitome hanno, come si è ricordato, due punti di arrivo diversi, dal momento che la seconda estende il racconto del primo fino all’anno della morte di Teodosio. Come si concilia questa differenza strutturale con l’idea che le due opere siano epitomi di uno stesso testo di partenza? Stover e Woudhuysen ritengono che la risposta risieda nella vicenda editoriale dell’Historia di Vittore, che deve aver conosciuto due edizioni: una prima che si fermava al 360, come il Liber, e una seconda estesa dall’autore fino al 395, come l’Epitome. È giusto riconoscere che questa è una spiegazione possibile, ma è altrettanto importante sottolineare che non esiste alcun elemento oggettivo a sostenerla: elencare i casi di doppie edizioni nell’antichità, come avviene alle pp. 178-182, non prova nulla, e le caratteristiche dell’Epitome de Caesaribus – il fatto che essa si basi su più fonti oltre a Vittore, e che per le parti in cui si sovrappongono offra spesso dettagli aggiuntivi o non coincidenti con quelli che si trovano nel Liber – rende almeno altrettanto probabile l’eventualità che la narrazione dal 361 al 395 che lì si legge sia il risultato di una consapevole integrazione dell’epitomatore[5]. In ogni caso, l’idea di una doppia edizione doveva forse per cautela restare ai margini delle questioni affrontate nel seguito del volume; dopo averla formulata Stover e Woudhuysen sembrano invece darla per assodata[6] con tutte le conseguenze del caso, come quando utilizzano la testimonianza dell’ultima parte dell’Epitome, priva del riscontro del Liber, per ricostruire la ricezione dell’opera di Vittore[7].
La seconda parte del volume ha la dichiarata ambizione di riscrivere, a partire dai risultati della prima, la storia della storiografia tardoantica: Stover e Woudhuysen si confrontano così con (tra moltissimi altri) Alexander Enmann, Ronald Syme e Alan Cameron, riconsiderando e più spesso mettendo in discussione le loro conclusioni. Sul piano argomentativo, i capitoli VI-X possono essere considerati una sistematica applicazione del rasoio di Occam, peraltro esplicitamente invocato a p. 413: la “riscoperta” dell’Historia di Sesto Aurelio Vittore renderebbe superflua un’intera serie di idola più o meno inconsistenti chiamati in causa per spiegare i dati contraddittori in nostro possesso, dalla Kaisergeschichte di Enmann all’Ignotus di Syme.
Proprio il caso della Kaisergeschichte, al quale è dedicato il capitolo VI, offre l’esempio più significativo del modus operandi dei due autori. Questa ipotetica opera storica, la cui esistenza dovrebbe spiegare le somiglianze tra il Liber, l’Epitome, il Breviarium di Eutropio e l’Historia Augusta, è un monumento della Quellenforschung ottocentesca, che ha goduto di un successo tale da essere considerato ancora oggi un’acquisizione pressoché pacifica. Muovendo dalla storia degli studi su Vittore dal XVII secolo in poi, Stover e Woudhuysen mostrano innanzitutto come la loro ipotesi sul Liber de Caesaribus trovasse diversi precursori nel dibattito pre-enmanniano, e in secondo luogo come le conclusioni di Enmann avrebbero dovuto essere messe in discussione già a seguito degli studi di Hermann Dessau sull’Historia Augusta. Ben più importante, tuttavia, è l’effetto che i risultati della prima parte del volume producono sull’intera teoria della Kaisergeschichte: perché immaginare un testo di cui si ignorano l’autore, la datazione e l’estensione esatta, mai menzionato né citato dai contemporanei, quando l’opera storica perduta di Vittore possiede tutte le caratteristiche richieste per assolvere al medesimo ruolo? Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem: è proprio Vittore la matrice comune faticosamente cercata dagli studiosi, purché si accetti la premessa che il Liber de Caesaribus non sia la sua opera storica ma un’epitome della stessa.
In base allo stesso ragionamento, sotto i colpi di Stover e Woudhuysen cadono altri “fantasmi” appena meno sfuggenti della Kaisergeschichte come Mario Massimo (capitolo VII) e Nicomaco Flaviano (capitolo IX), e Vittore diventa imprescindibile per comprendere il Breviarium di Eutropio, la stessa Historia Augusta (capitolo VIII) e buona parte della storiografia tardoantica in lingua greca, a cominciare da Eunapio (capitolo X): la sua lost history si trasforma così, di fatto, in modello o fonte di quasi tutto ciò che è stato scritto in greco e in latino su una porzione considerevole della tarda antichità.
È lecito interrogarsi sui limiti di un’operazione di questa portata, e del resto gli stessi autori insistono sulla natura congetturale di molte delle loro proposte; bisogna intanto riconoscere che, nell’analisi di singoli passi e questioni minute, la seconda parte del volume condivide talvolta le debolezze della prima. Si consideri la discussione delle presunte coincidenze strutturali tra il Liber de Caesaribus e i libri VII-X del Breviarium, le quali dipenderebbero dal fatto che Eutropio avrebbe impiegato l’Historia di Vittore come sua fonte principale. Sostenere che il libro VII di Eutropio «opens a little before the beginning of Victor’s work, and yet the first words closely recall Victor’s own opening» sembra una presentazione tendenziosa della realtà: a chi scrive pare invece che faccia una grossa differenza cominciare con la piena affermazione di Ottaviano (come nel Liber) oppure con l’assassinio di Cesare (così nel Breviarium: ben più di «a little before»!), e che il presunto parallelo testuale tra gli incipit dei due testi sia – al pari degli altri elencati a p. 230 – piuttosto debole per stabilire una dipendenza diretta[8]. Un altro esempio è dato dalle pagine dedicate ai Caesares di Ausonio, che ancora una volta proprio da Vittore in larga parte dipenderebbero: in base a cosa a p. 236 Stover e Woudhuysen danno per scontato che il primo verso dell’Antoninus Heliogabalus (tune etiam Augustae sedis penetralia foedas) alluda all’erezione di una statua della dea Siria all’interno del palazzo imperiale, come narra il Liber a 23.1? È piuttosto l’indegno Eliogabalo a contaminare con la sua stessa presenza la sedes Augusta, un’idea ben più consona ai giudizi generici e moraleggianti dei brevi epigrammi ausoniani. Ancora, i due elenchi dei crimini dell’imperatore Carino che si leggono in Eunapio ed Eutropio – i quali avrebbero avuto Vittore come fonte comune – sono senz’altro molto simili, ma è falso che «they both begin with sexual misconduct […] then turn to the prosecution of innocents» (p. 395): questa è la sequenza che si legge nello storico greco, mentre in Eutropio la condanna degli innocenti viene prima e le violenze sessuali dopo. Perché forzare oltre il dato fattuale un parallelo già evidente? In tutti questi casi si ha l’impressione che, nel cercare le tracce della perduta Historia di Vittore nei testi più disparati, i due autori abbiano creduto di rinvenirle anche dove non sembrano esserci; e questa tendenza rischia di depotenziare l’impatto di quanto di buono e stimolante – moltissimo – c’è anche nella seconda parte del volume.
The lost history of Sextus Aurelius Victor è un libro estremamente ambizioso, per non dire provocatorio, e ha l’indiscutibile merito di aver gettato ben più di un sasso nello stagno del popolato ma ormai asfittico dibattito su Vittore. È importante ribadire che l’idea di partenza di Stover e Woudhuysen risulta, nel complesso, più che convincente; lo stesso non si può dire, però, di molte delle ipotesi collaterali che ne derivano. La speranza, comunque, è che anche le proposte più “spericolate” dei due autori possano arricchire la discussione negli anni a venire: lo meritano la loro innegabile ingegnosità e i molti misteri ancora gelosamente custoditi dal Liber de Caesaribus e dall’Epitome de Caesaribus.
Notes
[1] I due autori ricorrono più spesso alle sigle HAb e LB; in questa recensione si continuano invece a utilizzare, per chiarezza, i titoli di Liber de Caesaribus ed Epitome de Caesaribus con cui le due opere vengono più comunemente indicate.
[2] Nella fattispecie, secondo Stover e Woudhuysen il Liber ha conservato con maggior fedeltà le formulazioni e l’impronta “personale” dell’opera di Vittore, mentre l’Epitome ne ha rielaborato stile e contenuti in misura decisamente maggiore (è un fatto da tempo noto alla critica che essa presenti una pluralità di fonti oltre a Vittore; si veda a tal proposito anche il seguito della recensione).
[3] Cfr. la nota precedente; l’operazione è ripetuta su scala molto più ridotta anche con l’Epitome (pp. 127-131).
[4] Il nesso è effettivamente raro con l’aggettivo al superlativo, ma antiqui moris / moris antiqui è espressione comune anche «in describing an individual» (p. 93).
[5] A favore di questa spiegazione alternativa concorre il fatto non trascurabile che le testimonianze antiche sull’opera di Vittore sono cronologicamente inconciliabili con una conclusione della sua Historia al 395 (cfr. per esempio le pp. 144 e 178).
[6] Con affermazioni perentorie come quella di p. 416: «Of course, as we have demonstrated, Victor’s work appeared in more than one edition».
[7] Come avviene per esempio alle pp. 344-346, dove si ricorre all’Epitome per investigare il rapporto tra Ammiano Marcellino e Vittore per il periodo successivo al 360.
[8] Anche in questo caso, peraltro, da un’ipotesi quantomeno malferma si traggono conclusioni esorbitanti: «The fact that the beginning of Victor’s Historia, which must obviously represent the commencement of a book, also corresponds with a book division in Eutropius, strongly suggests that the others do as well» (p. 230).