Si tratta di un volume che si muove con intelligenza e sagacia sul confine, spesso sottile, tra analisi stilistica e ricerca storica. Il corpus tardoantico dei Panegyrici Latini, che raccoglie una serie di discorsi celebrativi di retori di area gallica tra III e IV sec. d.C. (sul fondamento del modello del Panegirico di Plinio il Giovane), da oltre mezzo secolo è tornato all’attenzione della critica (dai lavori di dissodamento testuale ed esegetico di Virgilio Paladini, poi continuati con risultati fecondi e duraturi dal suo allievo Domenico Lassandro, fino ad arrivare alla ricca messe degli studi attuali, tra cui spiccano i contributi di Roger Rees, Alan J. Ross e Nelu Zugravu). I risultati sono di sicuro interesse: spaziano tra l’approfondimento della sofisticata intelaiatura retorica di questi discorsi e la ricostruzione dei contesti storici di riferimento, in particolare delle dinamiche di relazione tra l’imperatore, la corte e i ceti dirigenti e delle prospettive di governo che i panegiristi, sotto le paludate volute delle loro orazioni, si sforzavano in qualche modo di indicare o suggerire ai loro principi o delle cui istanze si facevano zelanti portavoce.
In questa linea si colloca il volume di Massimo Lolli che qui dà sviluppo organico a riflessioni esposte in suoi precedenti articoli centrati in modo particolare sulla caratterizzazione della figura dell’usurpatore. Il punto di forza di questa ricerca, è giusto riconoscerlo fin da subito, consiste nella capacità del suo autore di porre in dialettica, senza forzatura, ma nel rispetto dei testi, l’analisi stilistica, imprescindibile con opere ad alto tasso retorico come i panegirici (peraltro oggetto di specifica trattazione nella manualistica scolastica del tempo, a iniziare da Menandro Retore), con la ricostruzione, sotto il piano storico-ideologico e della comunicazione propagandistica (di cui i panegirici sono indubbiamente espressione), della polemica contro quanti avevano tentato di impadronirsi del potere finendo però duramente sconfitti (ed eliminati) dai sovrani vincitori e oggetto dell’elogio.
Il gioco retorico consente di spostare facilmente il focus sulla dimensione morale e valoriale: gli usurpatori hanno costituito una minaccia verso l’ordine costituito, riportato nel suo assetto naturale dai vincitori, e i panegiristi non esitano a mettere in pessima luce vizi e difetti degli sconfitti, la cui narrazione, come ben precisa Lolli a p. 16, “di fronte a un pubblico, scelto e qualificato come quello che frequentava la vita di corte, diventa un espediente efficace per delegittimarne l’operato e le aspirazione, facendo di questi uomini dei tiranni a tutti gli effetti”.
L’autore, in giusta coerenza col suo lavoro, getta il suo sguardo in maniera esclusiva sui panegirici, ma forse sarebbe stato utile integrare la prospettiva con un richiamo più deciso alla letteratura coeva, dove è facile rintracciare riferimenti spesso duramente polemici contro questi tyranni, responsabili di guerre civili, rivolte e scissioni territoriali dell’impero: dall’Historia Augusta al geniale trattato De rebus bellicis, nel quale, con acume, le considerazioni non si concentrano sulle personalità degli usurpatori, che sono solo vagamente accennate, ma si aprono con lucidità alle conseguenze delle loro azioni sul corpo sociale, in termini di caos, anarchia politica, diffuso impoverimento economico (mi limito a rimandare alla penetrante introduzione di Andrea Giardina alla sua edizione per la “Fondazione Valla”, purtroppo non presente in bibliografia: Anonimo, Le cose della guerra, Milano, Mondadori, 20144).
Entriamo ora nel vivo del volume. A una densa Introduzione (pp. 13-20), che illustra metodo e obiettivi di indagine, oltre a fare il punto sulla discussione critica in tema di Panegyrici Latini, fanno seguito quattro capitoli incentrati sull’analisi dei ritratti di cinque usurpatori: Carausio e Alletto (pp. 21-50); Massimiano (pp. 51-77); Massenzio (pp. 79-119) e Magno Massimo (pp. 121-153). Il libro si chiude poi con un’essenziale Conclusione (pp. 155-158), una documentata Bibliografia (pp. 159-179), come detto quasi esclusivamente incentrata sui panegirici, e due Indici, rispettivamente degli autori antichi (pp. 180-184) e dei nomi e degli argomenti notevoli (pp. 185-188).
Lolli sa individuare bene, nella sofisticata prosa di questi testi, molti livelli di lettura e, con sensibilità critica e storica, riesce a coglierne i nessi, gli abili intrecci con cui i retori declinano i loro discorsi, in un abile mixage di biasimo degli usurpatori, elogio del vincitore, di adesione ideologica al sistema valoriale di cui quest’ultimo è espressione, di suggerimento di una progettualità politica che traduce, nel pieno rispetto del codice retorico e della “grammatica” della scolastica epidittica, il pensiero della classe dirigente, a più stretto contatto con la corte e col principe vittorioso e dominante.
L’abilità del retore consiste proprio nella dialettica tra una forma e uno stile chiusi da un rigido sistema di regole letterarie, che lasciano poco spazio all’inventiva e all’originalità, e le occasioni di celebrazione pubblica dell’imperatore che, a loro volta, rappresentano di necessità il fulcro su cui si incentra il panegirico. E in questo ristretto spazio di manovra una delle tecniche giustamente messe in rilievo da questo lavoro consiste nell’effetto prodotto dal contrasto tra le virtutes del vincitore e i vitia degli usurpatori. Come giustamente nota l’autore a p. 17: “il bonus princeps acquista una legittimità certa, poiché egli non solo dispone del canonico corredo di virtù, bensì trae linfa dalla diffamazione di chi ne contende il potere con la forza”. Non si tratta, quindi, solo del classico conflitto tra virtù e vizio, tra “bene” e “male”, che vanta una letteratura antica che i panegiristi dimostrano di saper utilizzare con efficacia (a iniziare dal Cicerone polemista di Verrine, Catilinarie e Filippiche, che offre un vero e proprio lessico del biasimo più volte riutilizzato, come pirata o archipirata, sulla cui analisi si rimanda alle pp. 27-32). La denigrazione dell’usurpatore, realizzata con colores stilistici che spaziano dal moralistico al sarcastico, è funzionale, come ovvio, all’esaltazione delle virtù del vincitore, ma diventa un vero e proprio elemento politico nel momento in cui il giudizio sprezzantemente negativo dell’avversario contribuisce a rinsaldare la legittimità dell’imperatore in carica e la piena sintonia con i cortigiani e la classe dirigente.
L’autore ha saputo poi ben valorizzare la diversità tipologica degli usurpatori oggetto di studio: sono chiaramente tutti tiranni, ma la costruzione dei loro ritratti, soprattutto nel rapporto tra tecnica retorica e finalità politica, non è affatto omogenea. Carausio e Alletto, ad esempio, sono, agli occhi degli autori dei Panegirici X (II), XI (III) e VIII (V), degli avventurieri, dei veri e propri “pirati” che hanno minato l’integrità dell’impero, costituendosi un dominio autonomo tra la Britannia e parte della Gallia. La loro sconfitta permette non solo di celebrare Costanzo, il vero artefice della vittoria, ma anche Diocleziano e Massimiano, insistendo in particolare, ed ecco il risvolto politico e ideologico, sul valore della concordia tra i due sovrani, a garanzia della ritrovata unità dell’impero.
Massimiano, così come il figlio Massenzio, rappresentano invece una diversa tipologia di tyrannus: entrambi avevano stretti legami con la famiglia imperiale e, soprattutto nel caso di Massimiano, è interessante la ricostruzione, messa ben a fuoco nelle pagine a lui dedicate, della sua parabola nella rappresentazione panegiristica: dagli “altari” della celebrazioni al tempo del suo regno alla “polvere” del biasimo e del vituperio, con la taccia di “ingratudine” figlia della sua cupiditas, a cui si contrappone la celebrazione della generosità e della liberalità di Costantino, virtù con cui può porsi in piena legittimità nel ruolo di garante dello stato e della sua salvezza, come emerge in particolare in Pan. VI (VIII). Il ritratto del figlio Massenzio si muove nella stessa linea: l’immediatezza dei discorsi, a ridosso della battaglia di Ponte Milvio del 312 a.C., contribuisce all’accentuazione della negatività del personaggio, sul quale si concentra l’intero repertorio dei vitia tipici del tiranno, come emerge in particolare da Pan. XII (IX), del 313, e anche da Pan. IV (X), successivo di qualche anno (è datato al 321). Oltre alla dimensione morale, sono presi di mira anche le origini del principe, di cui si avanza il sospetto di una nascita illegittima, e la stessa fisiognomica, a iniziare dal taeterrimum caput che esprime l’attitudine alla saevitia.
E in una linea analoga si muove anche Drepanio, autore del panegirico II (XII) dedicato a Teodosio, che nei confronti dell’immitis tyrannus Magno Massimo ricorre, accanto a violenti attacchi quali carnifex purpuratus, anche alla pratica della degradatio, che trasforma l’usurpatore in un brigante crudele, avido, ma anche insaziabile e rapace che compie i suoi atti spregevoli nel segno di un’ostentata empietà (mi chiedo se a monte non ci sia il ricordo del ritratto svetoniano di Vitellio, la cui ingordigia eguagliava la disumanità quasi bestiale, che qui pare, a mio avviso, in qualche modo richiamato).
Al netto di qualche refuso (soprattutto nella sillabazione delle parole) e di qualche circoscritto lapsus (come, a p. 17, “le sue agmina”), il volume, costruito con prudenza critica davvero meritoria, offre un contributo interessante su questi testi, col merito di indagarli non solo come meri documenti o di storia o di retorica, ma come strumenti di comunicazione insieme intellettuale e politica.