BMCR 2023.08.47

Building the countryside: rural architecture and settlement in Tripolitania during the Roman and late antique periods

, Building the countryside: rural architecture and settlement in Tripolitania during the Roman and late antique periods. London: The Society for Libyan Studies, 2021. Pp. xiv, 205. ISBN 9781900971775.

Se da sempre gli imponenti resti monumentali delle città romane del Maghreb hanno attirato l’attenzione di viaggiatori, eruditi e studiosi, assai più recente ma non meno vivo è l’interesse per i paesaggi rurali, la loro multiforme organizzazione e le implicazioni socio-economiche che da questa derivano, come ampiamente dimostrato dalle sempre più numerose schede che annualmente dedica al tema la Bibliographie analytique de l’Afrique antique[1].

Non è rimasta esclusa da questa corrente di studi la Tripolitania, dove inizialmente l’attenzione si era focalizzata sulle strutture militari e difensive (grazie soprattutto al lavoro di ricercatori italiani e francesi) e dove più recentemente gli studiosi si sono concentrati sugli insediamenti produttivi: fra i tanti lavori, non possiamo non ricordare il pionieristico volume di Brogan e Smith dedicato a Ghirza, l’instancabile e variegata attività di Mattingly, le prospezioni dell’Institut National du Patrimoine de Tunisie per la Carte Archéologique de la Tunisie e del gruppo di ricerca coordinato da Musso dell’Università di Roma Tre “Tor Vergata” intorno a Lepcis Magna, il progetto UNESCO Libyan Valleys Archaeological Survey, da ultimo le indagini di Ahmed sull’altopiano di Tarhuna, che hanno portato ad identificare numerosi centri dediti alla produzione di anfore[2].

Cerca di riordinare e rendere omogenea questa enorme ma eterogenea massa di dati la canadese Nichole Sheldrick nel volume Building the Countryside, rielaborazione della sua tesi dottorale discussa a Oxford nell’ambito di EAMENA (Endangered Archaeology in the Middle East and North Africa), progetto che si propone di identificare attraverso il telerilevamento i siti archeologici e di registrarne eventuali criticità. L’obiettivo di Sheldrick è quello di effettuare il monitoraggio sistematico delle strutture rurali ancora visibili in Tripolitania e, su questa base, di ricostruire i modelli regionali di sviluppo degli insediamenti rurali, le tecniche edilizie impiegate, la relazione fra edificio e attività produttiva, fra economia, società, cultura ed eventi politici, individuare i differenti attori che parteciparono all’articolata gestione di questo vasto e multiforme territorio (la fertile costa con le grandi e ricchissime città, il piovoso Gebel, il più arido predeserto).

Nell’impossibilità di condurre indagini sul campo per il perdurare della guerra civile che dal 2011 insanguina la Libia, sfruttando le sue competenze nell’interpretazione fotogrammetrica e grazie alle immagini satellitari ad alta risoluzione scaricate da Google Earth e Bing Maps, Sheldrick individua e cartografa circa 2400 siti fra la regione di Gabès (Tacape), nella Tunisia meridionale, Ras al-A’alia (Arae Philenorum) in Libia, che delimitava il territorio di influenza punica da quello legato a Cirene, e a Sud sino ai margini settentrionali del Fezzan. Gli insediamenti sono stati opportunamente raggruppati in nove sub-regioni, alcune delle quali (come il distretto di Syrte) in gran parte trascurate dalle indagini del passato[3]; lo studio, che non ha l’ambizione di ricoprire tutta la Tripolitania, non prende in considerazione quei contesti che, come sull’isola di Djerba, pur avendo restituito abbandonate materiale ceramico, non mostrano evidenze architettoniche nelle campagne. Con un lavoro paziente Sheldrick ha georeferenziato molti siti che in passato erano stati indagati senza l’ausilio di un GPS, ha determinato con maggior precisione i contorni delle strutture emergenti, e ne ha individuato alcune che erano sfuggite a surveys precedenti.

I dati ricavati con questa tecnica, particolarmente adatta alle caratteristiche geomorfologiche della Tripolitania e che è auspicabile trovi più ampia applicazione anche in altre regioni dell’impero, vengono incrociati da Sheldrick con quelli provenienti dagli studi tradizionali, normalizzati e raccolti in un GIS, un’attività certosina testimoniata dalle ben 22 pagine di bibliografia finale che, finalmente senza preclusioni linguistiche, ha il merito di mettere a confronto i risultati di lavori di non sempre facile reperimento, evidenziando differenze o assonanze fra siti non necessariamente limitrofi. In questo modo il dato architettonico può essere correlato (ove presente) con quello stratigrafico o proveniente dai rinvenimenti anforici e ceramici, permettendo così a Sheldrick di proporre ricostruzioni cronologiche che altrimenti sarebbe state alquanto deboli in assenza di un’autopsia diretta delle strutture. Invero, come con onestà intellettuale riconosce la stessa Sheldrick, questo rimane un punto debole del lavoro, basato più su verosimiglianza e assonanza formale che su elementi sistematicamente verificati; di conseguenza mancano quei riscontri diretti che in questa fase storica non è stato possibile realizzare ma che si spera di compiere in un futuro non lontano.

L’indagine dunque si presenta complessa e non definitiva, ma con il merito di produrre decine di carte tematiche, piante e immagini, grafici e tabelle. Queste sono analiticamente commentate da Sheldrick, che nel dettaglio ragiona sulle caratteristiche della presenza antropica nelle campagne della Tripolitania, si sofferma sulla differente tipologia degli insediamenti, sulla loro cronologia, sul rapporto con le attività economiche e cerca di individuare i presupposti culturali e ideologici che hanno portato a questo tipo di organizzazione del paesaggio. Non mancano i confronti con altre realtà del Medio Oriente e dell’Africa, in particolare con gli studi condotti da Hitchner, Carlsen e De Vos in differenti regioni della Tunisia.

Se il Capitolo 4 tenta di fornire una panoramica generale sugli insediamenti militari (forti e fortini, campi di addestramento, fortezze, posti di guardia, avamposti) sparsi in Tripolitania e in particolare a ridosso di Tacape e Turris Tamalleni, con un approccio forse troppo tradizionale e che in ogni caso non sembra apportare novità sostanziali[4], il vero focus del volume è rappresentato dai capitoli successivi, dove Sheldrick si concentra sulle villae, databili approssimativamente fra I secolo a.C. e VII secolo d.C. In contrasto con l’uso tradizionale ma troppo generico del termine villa, Sheldrick, propone di identificare almeno tre tipologie di insediamento: fattorie non fortificate, distinte a loro volta in fattorie a corte e open complexes (Capitolo 5), e fattorie fortificate (Capitolo 6). Le prime, riconducibili a un ricco dominus, molto estese, confortevoli e lussuose, costruite con tecniche che rimandano all’ellenismo punico, erano caratterizzate da bassi muri perimetrali e da ambienti aperti su un cortile centrale; le seconde si presentano come una serie di edifici autonomi disposti in successione anche per centinaia di metri, con in comune uno spazio aperto (forse un’aia destinata ad alcune attività agricole e al ricovero degli animali), presumibilmente occupate non da un proprietario ma da famiglie o gruppi umani che preferivano condividere gli spazi destinati alle attività produttive; infine le terze, più tarde e con mura altissime, torri, piccole finestre, porte strette, un fossato, erano prive di grandi spazi interni.

Come è facile intuire da questi sommari accenni, Sheldrick non si limita a una semplice descrizione tassonomica delle strutture ma, confrontando queste tipologie con i dati provenienti dalle già ricordate tradizionali indagini sul terreno, tenta di ricostruire i complessi scenari in cui sarebbero sorti questi edifici. Così la concentrazione delle fattorie più antiche lungo la costa sarebbe una conseguenza della maggiore autonomia economica raggiunta dalle élites residenti nei vicini centri urbani dopo la caduta di Cartagine e dei loro rapporti sempre più intesi con i mercati italici[5]: viceversa l’instabilità politica delle aree interne avrebbe precluso la diffusione di questi insediamenti sino alla metà del I secolo d.C. Solo con la pacificazione della regione, le fattorie non fortificate si sarebbero diffuse in tutta la regione e in particolare nell’entroterra di Lepcis Magna, non a caso in parallelo allo sviluppo urbanistico della città (e, aggiungiamo noi, all’inclusione precoce di alcuni dei suoi notabili fra cavalieri e senatori).

In questo scenario, le fattorie open complexes, diffuse nel distretto di Syrte e a Sud (dove più rare erano le eleganti fattorie a corte), erano forse abitate dai discendenti delle tribù locali, che volontariamente si sarebbero sedentarizzati e sarebbero entrati a far parte dei circuiti commerciali ad ampio raggio tipici dell’impero romano, pur continuando a praticare la pastorizia: in effetti, in linea con la visione anglofona sui processi di acculturazione, Sheldrick sottolinea l’assenza di indizi che facciano pensare ad interventi manu militari dell’autorità provinciale per costringere queste popolazioni a stabilirsi in un sito.

Sempre secondo Sheldrick la struttura degli edifici a corte e la loro frequente associazione a batterie di giganteschi frantoi, farebbero invece presupporre una redditizia economia fondata sulla produzione di un abbondante surplus di olio e vino, tale da giustificare le ricche strutture architettoniche e gli ambienti individuati in queste strutture. Il passaggio fra III e IV secolo alle fattorie fortificate non sarebbe necessariamente determinato da un cambiamento climatico o da un endemico stato di insicurezza politica ma potrebbe essere spia dell’affermarsi di nuove forme della rappresentazione del potere:  non a caso solo in questi edifici, a imitazione di quelli militari, appaiono iscrizioni che celebravano il proprietario e il suo ruolo sociale[6]. Le nuove strutture, infatti, non sembra abbiano comportato una trasformazione o impoverimento dell’economia, né pare ci sia stato il totale abbandono degli impianti produttivi del passato: la riduzione dei frantoi (se reale e non riconducibile a indagini archeologiche incomplete e comunque non sistematiche) potrebbe essere sinonimo di una ricchezza non più diffusa ma concentrata nelle mani di pochi, che controllavano le terre e potevano garantire sicurezza a quanti vi operavano. Rimane per altro da chiarire, caso per caso, quando le fattorie non fortificate furono abbandonate o riconvertite ad altri usi.

Sono queste solo alcune delle seducenti riflessioni proposte da Sheldrick, in perfetta sintonia con le linee di indagine promosse per decenni dalla scuola britannica. Dal punto di vista dello storico è questa forse la parte più interessante del volume, anche se talvolta Sheldrick non tiene conto del vivace dibattito che si è sviluppato intorno a questi temi e ha considerato come assodati enunciati che in realtà sono ancora oggetto di discussione (ad es., la differenza fra economia agricola e pastorale, il concetto di seminomade, il declino o la trasformazione dei centri urbani in età tarda, la presunta fuga verso le campagne dei notabili, l’articolato dibattito sui processi di sedentarizzazione e il significato politico e culturale a questo connesso).

Con questo non si intende sminuire un lavoro che invece si rivela di grande interesse, ricco di documentazione, che certamente ha bisogno ancora di approfondimenti e di verifiche mirate ma che può stimolare ulteriori riflessioni e aprire nuove prospettive di ricerca anche in settori scientifici non prettamente archeologici. E per tutto questo non possiamo che salutare con favore il volume di Nichole Sheldrick. Ad maiora!

 

Notes

[1] https://books.openedition.org/efr/7797# .

[2] Una sintetica storia degli studi nel Capitolo 2 del volume, pp. 11-16.

[3] Le aree indagate: 1) la costa occidentale intorno alla colonia di Tacape; 2) il contiguo Gebel occidentale intorno al municipio adrianeo di Turris Tamalleni; 3) l’area del Sud-Ovest dominata dall’accampamento di Tillibari; 4) la costa centrale intorno alla colonia traianea di Lepcis Magna; 5) il Gebel centrale dipendente dalla stessa città; 6) il predeserto settentrionale; 7) il predeserto meridionale, chiuso a Sud dal forte di Gheriat el Garbia; 8) la Syrte occidentale; 9) la Syrte orientale.

[4] Si veda p.e. l’accenno sommario alla recente interpretazione dei centenaria di M. Munzi, G. Schirru, I. Tantillo, Centenarium, LibStud 45, 2014, 49–64, sulla quale forse valeva la pena soffermarsi più a lungo per le conseguenze economico-sociali che ne derivano e che sono al centro delle attenzioni di Sheldrick.

[5] P.e. già É. Deniaux, Recherches sur les propriétés foncières des amis de Cicéron en Afrique, in L’Africa Romana, 12, Sassari 1998, pp. 143-153; A. Wilson, A. (2012a). Neo-Punic and Latin inscriptions in Roman North Africa: function and display, in A. Mullen, P. James (eds), Multilingualism in the Greco-Roman Worlds. Cambridge 2012, pp. 265–316.

[6] Sul ruolo dei domini e sull’ideologia che anima questi testi, cfr. A. Ibba, Ex oppidis et mapalibus. Studi sulle città e le campagne dell’Africa romana, Ortacesus 2012, pp. 42-43; Id., Roma e le tribù nell’Africa tardo-antica in Studia et Documenta Historiæ et Iuris, LXXX, 2014, pp. 717-718, con ampia rassegna bibliografica. Utile in questo senso il parallelo con il mosaico del dominus Iulius a Cartagine e il confronto con alcuni passi di Agostino dedicati proprio a questi notabili.