Questo libro dà un contributo importante alla conoscenza della zoologia e delle scienze naturali in età ellenistica. Lo fa attraverso lo studio di una serie di testimonianze artistiche che hanno, secondo l’autore, una base proprio nella zoologia ellenistica. Il libro è metodologicamente accorto ed è stato pensato nella consapevolezza del carattere artificiale delle demarcazioni disciplinari e nella consapevolezza del rischio di proiettare sull’antichità immagini della scienza che sono soltanto nostre; da questo punto di vista, per l’autore è stato, comprensibilmente, fondamentale lo studio di Marquis Berrey.[1] Molto meno comprensibile è l’assenza di una serie di studi sulla zoologia e sulla scienza ellenistiche che l’autore evidentemente non conosce. Si parte prendendo per assodate le conclusioni di un ormai vecchio, e sicuramente importante, articolo di James G. Lennox[2] sulla scomparsa del programma di ricerca zoologica di Aristotele, che sarebbe riapparso soltanto nel XIII secolo col De animalibus di Alberto Magno. Tuttavia, nonostante quell’articolo che ha fatto molto discutere, si è continuato a studiare la ricezione degli studi zoologici aristotelici nell’età ellenistica e oltre, e si è cercato di dimostrare che non è vero che le riflessioni di Aristotele sugli animali siano state completamente dimenticate subito dopo la sua morte (non compaiono in bibliografia né lo studio di Cristina Cerami e Andrea Falcon del 2014,[3] né gli studi raccolti da Maria Michela Sassi in un volume collettaneo del 2017).[4] Certo, le riflessioni di Aristotele hanno finito con l’occupare un posto marginale nell’agenda filosofica successiva, ma per nulla marginale nella cultura in generale.
Questo libro, che quindi si inserisce in modo originale in un ambito di studi comunque già avviati, mostra l’importanza di alcune testimonianze artistiche nella ricostruzione di aspetti fondamentali della zoologia e delle scienze naturali ellenistiche. Il libro è corredato di decine di illustrazioni e ciascun capitolo è dedicato a una specifica opera d’arte in un ordine sostanzialmente cronologico. Dopo una parte introduttiva e di contestualizzazione, e prima di una parte conclusiva, si prendono in esame: il mosaico del Nilo a Palestrina (cap. II); la tomba di Apollofane (cap. III); il papiro di Artemidoro (cap. IV); alcuni mosaici di Alessandria e Pergamo (cap. V); alcuni mosaici dell’Italia tardo-repubblicana (cap. VI); alcuni dipinti provenienti dal Lazio e dalla Campania (cap. VII).
Nel capitolo II l’autore cerca di dimostrare che il mosaico del Nilo a Palestrina sia una versione di una precedente opera d’arte proveniente dall’Alessandria tolemaica e che sia stato modellato su un singolo archetipo tolemaico. Verrebbero, da questo punto di vista, in soccorso le raffigurazioni di analoghi animali nella tomba di Apollofane, analizzata nel capitolo III: diversamente da quanto accade nel mosaico del Nilo, gli animali sarebbero qui correttamente etichettati. La decorazione pittorica di Marissa, confrontata col mosaico del Nilo, dimostra che l’uso di rappresentare animali accompagnati da didascalie identificative è precedente al II sec. a.C.
L’analisi del papiro di Artemidoro, condotta nell’interessante capitolo IV, parte dal presupposto che sia davvero antico; cerca di mostrare il contributo del papiro alla nostra comprensione della scienza naturale e della tassonomia durante l’età ellenistica. Pur non addentrandosi troppo nella dibattutissima questione dell’autenticità o meno del reperto, l’autore ricorda le posizioni di Luciano Canfora, che, com’è noto, si è a tal punto appassionato alla tesi secondo la quale sarebbe un falso da esporla in un numero spropositato di libri che gli devono essere costati un’immane ma forse non lodevole fatica. Tuttavia l’autore sottolinea opportunamente il crescente consenso sul fatto che il papiro – la cui editio princeps si deve a Claudio Gallazzi, Bärbel Kramer e Salvatore Settis, con la collaborazione di Gianfranco Adornato, Albio Cesare Cassio e Agostino Soldati[5] – debba essere considerato un’eccezionale sopravvivenza antica. Secondo l’autore, le illustrazioni di animali con didascalie identificative sul verso del papiro riecheggiano il programma alessandrino, in materia di tassonomia e classificazione degli animali, che è stato discusso nei capitoli precedenti. Sostiene che il disegnatore ha adottato un sistema classificatorio basato sugli habitat degli animali piuttosto che su classi, ordini ecc., e che, come nel caso del mosaico del Nilo, le illustrazioni non sono basate sull’osservazione diretta di esemplari vivi. Si tratta di illustrazioni che attestano, fra le altre cose, la coesistenza nel pensiero antico di animali reali e fantastici, l’esistenza di molteplici tradizioni in relazione a particolari specie, la circolazione di topoi sull’inimicizia tra creature diverse, la convinzione che uccelli e animali terrestri avessero analoghi acquatici.
L’uso di rappresentare animali, accompagnati da didascalie identificative in greco, conviveva nel mondo ellenistico con la moda di raffigurare particolari specie con uno spiccato realismo. Lo si vede bene in alcuni mosaici di Alessandria e di Pergamo analizzati nel capitolo V: ad esempio nel mosaico del cane ad Alessandria, città in cui venivano abitualmente prodotte rappresentazioni dettagliate di particolari animali, o in quello del parrocchetto a Pergamo, uno dei più bei mosaici dell’antichità. Si tratta di testimonianze che presuppongono un’osservazione ravvicinata di specie reali. Del resto c’è evidenza del fatto che nei principali centri reali del mondo ellenistico particolari specie di animali fossero tenute in cattività (celebre la processione di Tolomeo II Filadelfo). L’interesse reale per il mondo animale era di vario tipo: le rappresentazioni tassonomiche di animali esotici nel contesto di spedizioni in territori stranieri (di cui si parla nel capitolo II) stavano a indicare l’estensione del potere, mentre i mosaici esaminati in questo capitolo V alludono ad altri aspetti come i passatempi reali o i lussi gastronomici.
Ai mosaici di pesci nell’Italia tardo-repubblicana è dedicato il capitolo VI. L’autore analizza una serie di rappresentazioni scientificamente accurate di un consistente numero di creature marine, spesso raffigurate in modo quasi identico in due o più mosaici. Anche in questo caso, come in quelli del capitolo precedente, siamo di fronte a un’evidente osservazione diretta di esemplari reali. La fruizione poteva prestarsi a usi differenti: se nel caso dei triclini pompeiani i mosaici esibivano i costosi frutti di mare consumati in quelle stanze, il mosaico dei pesci di Palestrina, posto in un edificio pubblico, sembra aver avuto uno scopo espositivo. L’autore ipotizza la derivazione dei mosaici italiani da una precedente opera d’arte dell’Oriente ellenistico, da un archetipo che avrebbe avuto il compito di trasmettere dettagliate conoscenze scientifiche.
Questo gusto italico per la raffigurazione scientificamente accurata delle diverse specie animali è ravvisabile anche nelle generazioni successive. L’autore chiude la sua rassegna, nel capitolo VII, con le “pitture da giardino” presenti nel Lazio e in Campania, cioè con dipinti murali o da soffitto che hanno come tema una combinazione di alberi, piante, uccelli e ornamenti tipici dei giardini. L’autore rinuncia alle frequenti interpretazioni simboliche e insiste sul gusto per i giardini ornamentali, ereditato dall’Oriente ellenistico, tipico del periodo tardo-repubblicano, e sul piacere visivo che queste composizioni erano in grado di offrire; così, ad esempio, nel caso della Villa di Livia a Roma o della Casa del Bracciale d’Oro a Pompei.
Il volume si conclude, prima di una ricca anche se non ricchissima bibliografia, con un capitolo in cui si sottolinea l’importanza attribuita allo studio e alla raffigurazione del mondo naturale nel mondo ellenistico. La concentrazione di animali ad Alessandria e a Pergamo corrisponde alla concentrazione di libri e intellettuali. L’acquisizione di svariati esemplari di specie animali era una chiara manifestazione di potere e di influenza.
In conclusione, vengono studiate in un unico lavoro, di sicuro interesse, diverse composizioni artistiche che sono state spesso analizzate isolatamente le une dalle altre; il lavoro illustra in modo convincente le conquiste scientifiche dell’Alessandria tolemaica, col suo gusto per la classificazione e la catalogazione, il debito nei confronti di Aristotele e dell’aristotelismo, e l’importanza che i re tolemaici conferivano al regno animale.
Notes
[1] M. Berrey, Hellenistic Science at Court, Berlin-Boston, De Gruyter, 2017.
[2] J.G. Lennox, “The Disappearance of Aristotle’s Biology: A Hellenistic Mystery”, Apeiron, XXVII, 4 (1994), pp. 7-24 (ristampato in J.G. Lennox, Aristotle’s Philosophy of Biology. Studies in the Origins of the Life Science, Cambridge, Cambridge University Press, 2001, pp. 110-125).
[3] C. Cerami-A. Falcon, “Continuity and Discontinuity in the Greek and Arabic Reception of Aristotle’s Study of Animals”, Antiquorum philosophia: an international journal, VIII (2014), pp. 35-56.
[4] M.M. Sassi (a cura di), La zoologia di Aristotele e la sua ricezione, dall’età ellenistica e romana alle culture medioevali, Pisa, Pisa University Press, 2017.
[5] Il Papiro di Artemidoro (P. Artemid.), edito da C. Gallazzi, B. Kramer e S. Settis, con la collaborazione di G. Adornato, A.C. Cassio e A. Soldati, Milano, LED, 2008.