L’autrice, qualificata studiosa di storiografia latina di età imperiale, offre in questo ricco e documentato volume una rassegna sulle modalità di rappresentazione degli imperatori sul fondamento delle narrazioni di Tacito e Svetonio (la comparazione è soprattutto relativa alla dinastia giulio-claudia e alla triade Galba, Otone, Vitellio).
Come si precisa nell’Introduction, lo scopo di questo lavoro nasce sostanzialmente dall’intento di analizzare il dinamismo del racconto storiografico, non solo nella raccolta e valutazione delle fonti, ma anche nella rielaborazione complessiva della narrazione. Non a caso a p. 12 la studiosa ricorre alla metafora dell’ “échaffaudage” per precisare l’obiettivo della sua ricerca: non si tratta della semplice ripresa da altro autore o di valutazioni soggettive degli storici, ma della volontà, egualmente riscontrabile in Tacito e in Svetonio, di costruire in maniera articolata e dinamica il loro racconto, non sempre nell’ottica della verità, ma più prudentemente, e spesso volutamente, del verosimile.
La scelta di procedere alla comparazione tra i due autori è finemente argomentata alle pp. 12-13: Tacito e Svetonio non sono solo vicini cronologicamente, ma frequentano gli stessi ambienti (a iniziare dal comune amico Plinio il Giovane) e convivono “dans le même milieu intellectual” (p. 13). Tuttavia le differenze, soprattutto nel riflesso dell’analisi della società romana, non mancano tra la prospettiva senatoriale di Tacito e quella equestre di Svetonio, elemento che, pur senza creare necessariamente un conflitto, si trasforma, come l’autrice precisa sempre a p. 13, in “une source de nuances intéressantes”, che verranno poi colte e argomentate nel prosieguo del volume.
Vorrei però qui inserire preliminarmente una considerazione di metodo che è riscontrabile non solo qui, ma in tutto il libro. La studiosa si muove con buona competenza sul piano della discussione storiografica, ma non sembra dimostrare analogo interesse per l’analisi retorica e più propriamente letteraria. Per quanto non manchino riferimenti opportuni allo specifico letterario dei due autori (in particolare nel capitolo La question du genre pratiqué), si ha tuttavia l’impressione che per l’autrice non sussista, o se esiste ha un’incidenza non significativa, una relazione dinamica tra i contenuti e la strumentazione formale con cui le narrazioni storiche sono costruite. Penso, in particolare, alla pratica dell’intertestualità che aveva la funzione di potenziare al lettore la prospettiva dell’autore finendone, in qualche modo, per orientarne il giudizio e la valutazione. Non dobbiamo, infatti, dimenticare che Tacito e Svetonio non solo avevano in comune una profonda preparazione retorica, ma anche contavano su lettori colti e quindi abili a cogliere, attraverso anche minimi richiami ad autori ampiamente noti (Cicerone, Virgilio, Orazio), il potenziale di senso che l’allusione poteva stimolare.
Chiarisco con qualche esempio: il ritratto di Vitellio si caratterizza, come noto, per la sua dispendiosa ghiottoneria oltre che per la crudeltà spesso così gratuita (forse a danno della propria stessa madre come narra Svetonio in Vit. 14, 5) da farne un vero e proprio tiranno. Questa caratterizzazione è ben articolata da Svetonio nel cap. 13 della biografia di Vitellio, dove l’analisi intertestuale consente di cogliere, all’interno del ritratto artatamente degradato dell’imperatore, allusioni non solo alla figura di Antonio nel celebre e scabroso ritratto offerto da Cicerone nella II Filippica, ma anche all’archetipo epico di Polifemo. Questo permette di conglobare insieme gli elementi tipologicamente tirannici di Vitellio: dissipazione dei patrimoni, incontinenza e amore smodato per le luxuriae saevitiaeque, mancanza di rispetto per tutto quello che è umano e divino.
Per quanto riguarda Tacito, invece, la studiosa a p. 179 ricorda l’atteggiamento misurato, al limite dell’indifferenza, manifestato da Tiberio in occasione della morte del figlio Druso e ben evidenziato da Tacito (Ann. 4, 8, 2). Tuttavia manca nell’analisi di questo episodio ogni riferimento alle modalità di gestione del lutto tipiche delle consolationes; qui Tiberio, forse con l’intento di rimarcare il modello etico austero e severo in occasione della morte di un figlio tipico della tradizione arcaica, adotta la reazione tipica dello stoicismo ortodosso che annullava ogni manifestazione esteriore di dolore a favore di un contegno rigorosamente impassibile che facilmente poteva essere scambiato per indifferenza.
Proseguendo nell’analisi del libro, il primo capitolo (Tacite et Suétone dans leur narration) si sofferma sugli interventi in prima persona dei due autori che vengono diligentemente catalogati e analizzati in ragione della loro funzione nei rispettivi testi (messa in evidenza della struttura dell’opera; commento sul lavoro di storico; pronuncia di un giudizio autoriale): si veda il preciso schema offerto a p. 25. Mi chiedo, anche alla luce di un interessante dibattito che sta attualmente animando soprattutto in Italia gli studi di storia contemporanea, se l’ “io” dello storico non possa avere anche l’obiettivo di “rafforzare” il coinvolgimento del lettore come a voler garantire, col ricorso al pronome di prima persona che assume un ruolo quasi “testimoniale”, la veridicità della narrazione, tenuto poi conto che tanto Tacito quanto Svetonio sono entrambi autori di storia “grosso modo” contemporanea o, almeno, inquadrabile in una fascia temporale che non ha ancora pienamente superato la netta demarcazione tra “cronaca” e “storia”.
Nei capitoli successivi (Mentions des sources dans la narration e Interventions directes et mentions de sources: étude de la constitution progressive de certains épisodes), la studiosa dà buona prova di attenta analisi dell’utilizzo delle fonti da parte dei due autori e si muove con sicurezza di metodo e di risultati. Sulla scorta di una linea interpretativa in auge soprattutto in area francese (penso, in particolare, ai pregevoli lavori di Olivier Devillers), Duchêne è particolarmente attenta al riuso in chiave politica, da parte di Tacito e Svetonio, di notizie reperite da altre fonti, siano esse di altro autore ora perduto, documentarie o anche rumores di tradizione orale, spesso di dubbia attendibilità, ma indicativi di un voluto orientamento o espressione di una manipolazione, se non addirittura di una falsificazione. Forse, a mio parere, non tutti gli elementi riportati devono necessariamente essere declinati in una prospettiva del genere, anche per evitare il rischio di un certo meccanicismo critico. Si veda l’esempio della celebre storia di Nerone, salvato in età infantile dagli assassini inviati da Messalina grazie a un serpente: è di certo attendibile, come precisa la studiosa a p. 95, che un simile intervento divino sia stato legato, a un certo punto, “à une tentative de manipulation à des fins politiques”. Tuttavia, visto che tanto Tacito quanto Svetonio qualificano questo episodio come fabula, dimostrando di prenderne chiaramente le distanze dal punto di vista della veridicità, non è da escludere che si tratti, da parte di entrambi gli autori, dell’intento di inserire un elemento dall’evidente carattere romanzesco al puro scopo di vivacizzare la narrazione, senza necessariamente dover ipotizzare motivazioni politiche.
Cuore del volume, e vero sostegno dell’ “échaffaudage”, sono i capitoli centrali: La trame et le motif: reprise des précédents et élaboration personnelle e L’élaboration du portrait de chaque empereur. Qui Duchêne propone una lettura meditata e circostanziata della costruzione della figura dei vari imperatori: i risultati sono, al netto di qualche inevitabile forzatura e sovrainterpretazione, quasi sempre convincenti e persuasivi (in particolare nei ritratti, davvero felici, di Nerone e di Galba, qualificato a p. 208 come “empereur paradoxal” per la sua incapacità a esercitare quel potere a cui il consenso unanime lo chiamava, secondo il ben noto giudizio tacitiano di Hist. 1, 49, 4: omnium consensu capax imperii nisi imperasset). In modo particolare sono molto apprezzabili le riflessioni conclusive alle pp. 234-235, in cui la studiosa sottolinea come le modalità di rappresentazione, in particolare nelle “scene chiave” che volutamente dovevano colpire il lettore e rimanere impresse nella sua memoria, esprimano la “manière particulière d’incarner la fonction impériale, ainsi que ses répercussions sur l’ensemble du corps social” (p. 235).
Una ricca bibliografia, che segue una meditata Conclusion, chiude questo bel libro, che ben si colloca nella prestigiosa collana degli Scripta Antiqua di Ausonius, documentato, argomentato, meditato (anche se talora eccessivamente analitico) che forse avrebbe tratto ulteriore giovamento da una più attenta considerazione anche dello specifico letterario e retorico di Tacito e Svetonio.