L’opera recensita rappresenta lo sviluppo della tesi di dottorato elaborata da Clément Bur sotto la guida dello storico francese Jean-Michel David e difesa nel 2013. Essa contiene un ampio studio sulla magistratura della censura, in particolare sulla funzione ad essa attribuita di controllo dei costumi (il regimen morum) e sul tema connesso dell’infamia (o ignominia), una sanzione contro la dignitas, l’onore, il prestigio e la reputazione (fama o existimatio) di un individuo. Tale sanzione, in origine a carattere solo morale e informale, acquisterà in seguito una connotazione più pienamente giuridica dapprima grazie ai censori, in seguito ad opera del pretore, di varie leggi e della giurisprudenza. Di tale sanzione viene qui indagata la complessa natura e la particolare rilevanza sociale, culturale, politica e giuridica nel mondo romano. L’arco temporale lungo il quale si sviluppa l’indagine ha come estremi due date particolarmente significative: il 312 a.C., coincidente con la censura di Appio Claudio Cieco, è l’anno della riforma del sistema di censimento da parte del plebiscito Ovinio, che affidò ai censori anche l’importante funzione di determinazione della composizione del senato (lectio senatus); il 96 d.C. è invece l’anno della morte di Domiziano, che, ricevuta la potestas censoria nell’84 d.C., la detenne in perpetuo integrandola definitivamente tra i poteri del princeps.
A differenza degli studi dedicati in passato al tema dell’infamia da vari studiosi (da von Savigny[1] a Mommsen[2], da Greenidge[3] e Pommeray[4] a Kaser[5], per citare solo i più rilevanti), i quali ponevano maggiormente l’accento sull’afflizione dell’onore e sulle limitazioni della capacità giuridica, la prospettiva scelta da Bur per indagare gli effetti di tale sanzione è quella della cittadinanza: oggetto centrale dell’indagine è difatti lo status del civis Romanus colpito da infamia, il quale subiva una vera e propria ‘degradazione’ sotto numerosi aspetti, soprattutto sociali, politici e giuridici. È la stessa gerarchica struttura sociale e politica della civitas, a giudizio di Bur, a suggerire questo taglio: “La hiérarchie civique reposait sur le principe de l’égalité géométrique qui associait droits et devoirs en fonction de la fortune et de la dignitas. Le citoyen indigne était rejeté de son rang et relégué avec les humillimi, les affranchis et les citoyens de fraîche date dont la parole était suspecte” (p. 145). Nel produrre un declassamento (metaforico o anche concreto), l’infamia creava al tempo stesso, secondo Bur, una nuova identità sociale del cittadino (p. 260).
L’opera è principalmente divisa in tre parti e articolata in 20 capitoli. La prima parte è dedicata alle origini dell’infamia e al fondamentale ruolo svolto inizialmente dai censori e dal loro regimen morum nello svilupparne i tratti (“L’actualisation de l’infamie: une cérémonie de degradation”, pp. 19-265); la seconda parte ricostruisce il processo di giuridicizzazione dell’infamia (“L’infamie: une construction juridique?”, pp. 267-458), mentre la terza (“Les infâmes”, pp. 459-593) prende in esame la condizione degli infames, tracciando un profilo biografico, sociale e politico dei personaggi colpiti da tale sanzione. Il volume è chiuso da un ampio indice bibliografico (comprensivo di un’utile ‘sitografia’), da un indice delle illustrazioni (tabelle e grafici) che corredano l’opera, da un indice delle fonti e da un indice dei nomi e dei temi di maggior rilievo.
Nell’introduzione sono anzitutto passate in rassegna, soppesate e criticate le tesi e i modelli elaborati in passato dagli studiosi in relazione all’infamia, costruita – a torto, secondo Bur e anche secondo la dottrina più recente – come una categoria concettuale unitaria, omogenea, articolata sistematicamente. Bur sottolinea invece l’importanza di un approccio che, nel ricostruire una storia dell’infamia, tenga conto della pragmaticità romana e di tutti i possibili aspetti costitutivi: non solo di quello giuridico, solitamente privilegiato, ma anche di altri fattori meno evidenti. Bur rinnova dunque l’approccio al tema indagato attraverso l’impiego di un ampio ventaglio di fonti e di metodi, accordando rilevanza anche a quello prosopografico (nel cap. 18 sono forniti degli elenchi di viri infames, che costituiscono peraltro la base per un utile ‘catalogo prosopografico degli infami’ realizzato dallo stesso Bur e reso disponibile online: “Infames Romani” at PoolCorpus).
L’indagine ha inizio con l’esame dell’infamia c.d. arbitraria e prende le mosse da una prospettiva insolita: quella della disciplina militare e delle sanzioni militari infamanti, qui descritte da Bur nel dettaglio. Queste erano decise dal comandante e inflitte con una cerimonia (un vero “spettacolo del disonore”) finalizzata a colpire nell’onore, umiliare, stigmatizzare e ‘degradare’ il colpevole, arrivando anche a determinarne la cacciata dall’esercito (missio ignominiosa). Sin da tali applicazioni, accanto a una funzione certamente afflittiva le sanzioni infamanti dovevano svolgere, secondo Bur, anche una funzione esortativa (a compiere il proprio dovere) e dissuasiva (dal tenere i comportamenti sanzionati), e dunque esemplare verso il resto della comunità militare. Questa funzione esemplare rimarrà un tratto costante di tale sanzione, certamente grave ma che costituiva un’alternativa meno afflittiva rispetto alla pena capitale. Vi sarebbe dunque la disciplina militare, a giudizio di Bur, all’origine della valutazione dei censori, nonché delle sanzioni infamanti da questi inflitte ai cittadini Romani.
Alla censura repubblicana, alla sua sorveglianza sui costumi dei cives (che, a giudizio di Bur, avrebbe contribuito a ridefinire la cittadinanza e la stessa città di Roma), alle procedure dell’esame censorio (che l’autore ritiene avere un carattere eminentemente politico e differire a seconda della categoria esaminata: p. 90), alle misure ‘degradanti’ inflitte dai censori e ai comportamenti da essi sanzionati sono dedicati i capp. 2-5, nei quali Bur conduce una disamina accurata dei mezzi di controllo sociale a disposizione dei censori. L’affidamento del regimen morum a una magistratura della civitas sarebbe conseguenza, da un lato, del venir meno del controllo sociale all’interno di una comunità cittadina in costante espansione; dall’altro lato, della necessità di selezionare le forze più virtuose per il governo dell’Urbe. È in particolare la classe senatoria ad essere maggiormente sotto osservazione e ad essere giudicata con più rigore, in fondo anche per legittimare i privilegi di cui la stessa godeva. Nel cap. 6 sono presentati alcuni casi concreti, testimoniati nelle fonti, di esercizio del regimen morum tra Cesare e Domiziano, mentre nei capp. 7-8 si analizzano in particolare le conseguenze dell’indegnità pronunciata dai censori in termini di impedimento sia a partecipare alle elezioni per le magistrature civiche, sia a far parte del senato (a seguito di una procedura di auto-epurazione). Un’analisi delle fonti porta poi Bur a concludere che l’‘infamia consolare’ di cui parlava Mommsen fu solo raramente applicata (p. 249).
Nei capp. 9-16 sono invece individuate e affrontate le tappe della progressiva assunzione di veste giuridica da parte delle sanzioni afflittive della reputazione, nonché del passaggio all’infamia ‘normativa’, cioè fondata su testi normativi e conseguente alla pronuncia di tribunali. Questo passaggio, datato da Bur alla fine del II sec. a.C. e che appare già compiuto nella Tabula Heracleensis, sarebbe il risultato della sinergia fra tre fattori: l’affanno della censura, il conflitto tra optimates e populares e lo sviluppo di nuovi delitti per la cui repressione l’infamia sembrava costituire lo strumento migliore. L’ambito processuale – civile e penale – è il luogo nel quale la condizione giuridica e sociale e, in primis, la reputazione e la connessa affidabilità della parola[6] assumono decisiva rilevanza, atteso il carattere non egualitario del diritto romano, mentre le sanzioni afflittive della reputazione vi trovano la loro attuazione.
All’intervento del pretore e al ruolo svolto dal suo editto in questo processo evolutivo dell’infamia sono dedicati in particolare i capp. 9 e 16. In quella sede si analizza anche l’apporto dell’arcaica intestabilitas, nell’accezione di ‘incapacità a prestare testimonianza’ (di per sé una forma d’infamia, secondo Bur), alla costruzione del fascio di incapacità caratterizzanti la condizione dell’infamis. Una particolare attenzione è dedicata, com’è comprensibile, alle c.d. actiones ignominiosae o famosae: a proposito della loro evoluzione, Bur intravede un nesso causale tra il progressivo malfunzionamento della censura alla fine del I sec. a.C. e l’intervento di leggi specifiche contenenti la previsione di conseguenze infamanti nel caso di condanna per certi delitti.
Nei capp. 10-11 si analizza quindi il contributo decisivo apportato dalle leggi repressive dei reati di concussione e corruzione – anche elettorale –, nonché istitutive dei rispettivi tribunali (quaestio de repetundis, q. de ambitu), mentre nel cap. 12 s’indaga l’irrogazione dell’infamia anche nelle quaestiones competenti a giudicare di altri reati, come il falso, il peculato, i delitti sessuali etc. L’ipotesi (plausibile) avanzata da Bur (p. 328) è che nel turbolento periodo di fine repubblica fosse stato demandato ai tribunali quel controllo dei costumi e della morale che la censura non esercitava ormai più. Nel cap. 13 si esaminano in particolare le incapacità del soggetto infamis rilevanti sul piano processuale, nella fase di passaggio dal processo delle quaestiones al iudicium publicum. Nei capp. 14-15 si analizzano la progressiva costruzione della categoria del cittadino infamis e le sempre più numerose restrizioni ed esclusioni dalla vita pubblica (a Roma così come nelle altre comunità cittadine), mentre il cap. 16 è dedicato in particolare alla c.d. infamia pretoria, di cui si indagano cause e motivi.
Nell’ultima parte dell’opera (capp. 17-20) Bur si concentra maggiormente sugli aspetti personali degli infames, e quindi sulle categorie sociali più colpite dall’infamia – da un lato legata all’esercizio di mestieri ritenuti infimi, dall’altro lato irrogata a persone di rango elevato –, nonché sulle sue conseguenze sociali dirette e indirette (limitazioni, riprovazione, esclusione, isolamento), tutte di grande peso nel contesto di una società, come quella romana, fondata sull’onore e sul rango. Il cap. 20 è infine dedicato alla riabilitazione del soggetto infamis.
Quella di Bur è una trattazione sull’infamia ponderosa, curata, matura e ricca di tesi originali. Ogni aspetto dell’infamia è stato fatto oggetto di analisi e verifica sulle fonti, alle quali Bur preferisce aderire (a seguito di valutazione critica) evitando, anzi superando, i rigidi schematismi ricostruttivi del passato. Lo studio è ben documentato, basato su una rigorosa ricostruzione del contesto storico e su una vasta bibliografia[7] maneggiata con padronanza. Esso parte da una radicale revisione, e spesso rigetto, delle teorie e delle ricostruzioni di Mommsen, che aveva modellato il regimen morum sul processo penale romano. Al contrario di Mommsen, Bur ritiene che non esistesse una procedura valutativa identica per tutti i cittadini, ma che l’assenza di regole formali non ponesse limiti all’arbitrio dei censori nel modellare di volta in volta il processo valutativo.
Le critiche e le tesi di Bur appaiono dotate di solide argomentazioni, e anche lo storico del diritto troverà delle utili messe a punto. Va però rilevato che, nel solco della communis opinio, anche Bur ritiene che un concetto omogeneo e unitario di infamia avrebbe visto la luce solo con Giustiniano: una proposizione che di recente è stata doverosamente messa in discussione.[8] Nella seconda parte dell’opera, forse quella più tecnica sotto un profilo storico-giuridico, Bur dimostra di saper maneggiare concetti ed istituti con proprietà. Uno degli aspetti di maggior pregio è però costituito dalla individuazione e presentazione dei numerosi casi concreti di applicazione dell’infamia tramandati dalle fonti storiografiche: una caratteristica che distingue quest’opera dalle passate trattazioni, per lo più teoriche, dedicate al tema e che le conferisce concretezza e plasticità.
Dalla scrupolosa ricerca di Bur esce un quadro dell’infamia quale forma di esclusione sociale del cittadino dalla città e di diminuzione della stessa cittadinanza, considerata a Roma un onore. Più che la punizione di una condotta illecita, essa ne è la conseguenza (p. 595) e contribuisce alla costruzione dell’identità sociale del cittadino. Forse un risalto maggiore poteva essere dato nella trattazione alla fides e alla sua fondamentale importanza nella vita sociale, politica e giuridica romana. L’opera di Bur può senz’altro costituire una base solida e affidabile per la prosecuzione delle ricerche sul tema dell’infamia nelle epoche successive.
Notes
[1] F.C. von Savigny, System des heutigen Römischen Rechts, vol. 2, Berlin 1840, 170-223; 516-559.
[2] Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig 1899 (rist. Graz 1955), 993-998 e passim.
[3] A.H.J. Greenidge, Infamia. Its place in Roman Public and Private Law, Oxford 1894 (rist. Aalen 1977).
[4] L. Pommeray, Études sur l’infamie en droit romain, Paris 1937.
[5] M. Kaser, Infamia und ignominia in den römischen Rechtsquellen, in ZRG rom. 73 (1956) 220-278.
[6] L’espressione testium fides contenuta nel passo di Callistrato riportato a p. 275 va più correttamente tradotta come “affidabilità dei testimoni” piuttosto che “buona fede”, come propone invece Bur.
[7] Dalla quale manca, tuttavia, il recente studio di N. El Beheiri, Das regimen morum der Zensoren. Die Konstruktion des römischen Gemeinwesens, Berlin 2012.
[8] Si vedano in particolare gli studi sull’infamia di L. Atzeri, Die infamia in der Rechtssetzung der Soldatenkaiser, in U. Babusiaux / A. Kolb (a c. di), Das Recht der Soldatenkaiser – rechtlicher Stabilität in Zeiten politischen Umbruchs?, Berlin 2015, 127-159; Ead., L’infamia nei rescritti di Diocleziano, in Fontes Minores 12 (2014) 1-68; nonché P. Riedlberger, Prolegomena zu den spätantiken Konstitutionen. Nebst einer Analyse der erbrechtlichen und verwandten Sanktionen gegen Heterodoxe, Stuttgart-Bad Cannstatt 2020, 353-393 (‘Die spätantike Infamie’).