A cura di José Carlos Martín-Iglesias, e con una prefazione storica a firma di Roger Collins, è apparsa al numero LXIX C della Series Latina del Corpus Christianorum la prima edizione critica completa delle opere attribuite a Bachiarius, personaggio dai contorni non ben definiti, ma che solitamente si ritiene fosse un monaco di provenienza ispanica, forse galiziana, e la cui acme pare vada collocata in un periodo immediatamente successivo alle invasioni germaniche del 409 nella penisola iberica. Contemporaneo, dunque, di Gerolamo e di Agostino. Il lavoro filologico riguarda la constitutio textus delle due opere sicuramente attribuibili a Bachiarius, ovvero il De fide (CPL 568) e l’Epistula ad Ianuarium seu De lapso (CPL 569), e di altri due scritti, dal titolo generico di Epistulae II (CPL 570), che talvolta, e in maniera discontinua, sono state attribuite alla stessa sua penna, e la cui paternità Martín-Iglesias ritiene possa essere confermata. Procedo adesso a una descrizione sintetica delle opere di Bachiarius, mettendo in luce le posizioni di Martín-Iglesias che, come si vedrà, divergono in più punti, alcuni veramente fondamentali, rispetto alle conclusioni cui è pervenuto Collins nella sezione storica della prefazione.
L’editore spagnolo, specialista di letteratura latina tardoantica e medievale di area iberica, nella sua sintesi relativamente al De fide (primo editore Ludovico Antonio Muratori nel 1698, ultimo José Madoz nel 1941): 1. afferma che esso sarebbe indirizzato ad un’alta autorità ecclesiastica (l’Autore lo chiama beatitudo tua e beatissime frater), che potrebbe essere identificata con Innocenzo I (401-417) o con qualcun altro dei pontefici eletti nei primi decenni del V sec., intervallo di tempo al quale andrebbe pertanto datato; 2. non escluderebbe che tale alto prelato presieda un’assemblea di vescovi (Bachiarius usa a un certo punto il plurale nei pronomi e nelle forme verbali), davanti alla quale il monaco galiziano sarebbe stato chiamato a discolparsi per un’accusa di eresia; 3. ritiene che tale eresia sarebbe il priscillianismo che aveva in quel periodo ampia diffusione in area ispanica e cominciava ad apparire particolarmente pericoloso agli occhi della Chiesa ufficiale, come si deduce dalla necessità che ci fu di convocare il concilio di Saragozza già nel 380, seguìto da quello di Bordeaux nel 384 e dal II di Toledo nel 400. In tutti e tre il priscillianismo fu condannato, ma continuò a diffondersi almeno fino al concilio di Braga del 563, dopo il quale perse completamente virulenza. I temi che Bachiarius tratta al fine di difendersi dalla (ipotetica) accusa di priscillianismo sono: l’incarnazione del Figlio, negata dal docetismo con cui la dottrina eretica di Priscilliano aveva punti di contatto; la perpetua verginità di Maria, prima, durante e dopo il parto, probabilmente in opposizione alle teorie di Elvidio; la resurrezione della carne; l’origine dell’anima, che egli afferma essere il frutto della volontà di Dio. Il tutto esposto in un latino complesso, astruso, di difficile interpretazione anche per l’inedita esegesi di diversi passi scritturistici. L’esiguità della tradizione manoscritta (solo quattro testimoni organizzabili in due redazioni), come messo in luce da Martín-Iglesias, non facilita il lavoro dell’editore, che appunto per questo risulta essere ancor più meritorio. Come meritoria certamente è l’analisi dettagliata e capillare della tradizione indiretta che egli conduce da Gennadio sino alla Confessio fidei attribuita a Jean de Fécamp (XI sec.).
Segue l’Epistula ad Ianuarium, incentrata sul peccato, sulla penitenza e sulla redenzione, la cui data di composizione si dovrebbe aggirare, secondo l’editore, intorno al 409/410. Essa si divide in due parti ben precise: dal cap. 1 al cap. 12 Bachiarius si indirizza a Ianuarius, il superiore di una comunità ascetica, al cui interno si è verificato un grave scandalo, in quanto uno dei confratelli ha avuto una relazione carnale con una vergine consacrata; dal cap. 13 al cap. 23 l’Autore invece si rivolge direttamente al peccatore, la cui identità rimane taciuta. Lungi dall’essere un testo di condanna e di riprovazione, esso ruota intorno ad un concetto cardine del cristianesimo, la misericordia, alla quale Bachiarius invita Ianuarius, affinché redima il peccatore e lo riaccolga nella comunità. Esempi scritturistici o tratti dal mondo militare e medico rendono ancora più vivido il percorso di penitenza che il peccatore dovrà intraprendere. Punti fermi, però, saranno il divieto del matrimonio tra i due colpevoli e la loro reimmissione nelle rispettive comunità, perché è solo ritornando nell’alveo della vita consacrata che si potranno recuperare quella dignità e quella purezza che sono andate smarrite. Per quanto riguarda il retroterra dottrinale, Martín-Iglesias concorda con quanto già Anscari Manuel Mundó e Ursicino Domínguez del Val avevano affermato, ossia che nell’Epistula ad Ianuarium l’influenza priscillianista risulta ancora più evidente rispetto al De fide, e dunque essa andrebbe collocata cronologicamente prima del trattato. L’editore passa poi all’analisi sistematica della tradizione manoscritta, molto più rappresentata rispetto al De fide, con ben ventidue testimoni utilizzati ai fini della constitutio textus, e altri quattordici citati e descritti più brevemente; quindi all’analisi comparativa delle varianti più significative; alla discussione della tradizione indiretta, dal Liber de paenitentia dello Ps. Efrem Siro sino al De damnatione Salomonis di Philippe de Harveng del XII sec. Traccia, infine, come aveva già fatto per il De fide, uno stemma codicum che permette di visualizzare con un colpo d’occhio la discendenza dei manoscritti.
Conclude l’opera l’edizione critica delle Epistulae II, delle quali la prima è una risposta scritta da una donna a una giovane vergine che le aveva spiegato passi oscuri dell’Antico e del Nuovo Testamento; la seconda si presenta come opera di Hieronimusindirizzata a Marcella uidua, con evidente, ancorché falso, riferimento allo Stridonense e a una delle più note tra le fedeli donne del suo seguito. Tale Marcella è intenzionata a trascorrere le settimane che intercorrono tra la festività del Natale e quella dell’Epifania osservando un rigido digiuno, pratica che Martín-Iglesias identifica con quella espressamente vietata dal canone n° 4 del I Concilio di Saragozza (380), al quale la lettera deve essere certamente anteriore. L’editore trova un’ulteriore conferma di datazione nel fatto che, a suo ragionevole modo di vedere, il canone n° 1 del medesimo I Concilio di Saragozza prevedeva che alle donne fosse consentita la lettura e la spiegazione della Bibbia solo tra donne, con divieto assoluto di promiscuità con uomini estranei alla loro famiglia. Martín-Iglesias si dichiara sicuro della paternità di Bachiarius di queste due lettere, sulla base soprattutto delle somiglianze stilistiche con le opere di certa attribuzione, di cui fornisce lunga e dettagliata esemplificazione. Scarta così le ipotesi di altri studiosi, che avevano ritenuto che gli autori potessero essere due e che della Epistula I l’autrice fosse la giovane vergine stessa.
A una cospicua, ben documentata bibliografia segue il testo critico delle quattro opere, ottimamente condotto e corredato di quattro apparati: il primo dei testimoni diretti, che non sempre riportano l’opera per intero; il secondo dei loci biblici; il terzo dei loci paralleli di altri autori cristiani antichi; il quarto, quello consueto delle varianti. Completano l’opera tre utilissimi indici, l’Index locorum S. Scripturae, l’Index auctorum antiquiorum e l’Index codicum manuscriptorum.
Tratto alla fine, anche se nel volume si presenta in posizione iniziale, l’introduzione storica a cura di Roger Collins, studioso della Tarda Antichità e dell’Alto Medioevo. E inizio subito col ribadire che le chiavi di lettura proposte dallo storico, nonché le conseguenti sue posizioni in merito alla figura di Bachiarius in generale e alle opere a lui attribuite, divergono radicalmente rispetto a quelle avanzate dal filologo. Lungi dall’essere un elemento di criticità del volume, questo concerto a due voci è espressione della problematicità cui siamo adusi in relazione alle nostre discipline, ed è tanto più apprezzabile in quanto non presenta la questione Bachiarius come granitica e di immediata soluzione. Anzi, al contrario, la lascia aperta, a dimostrazione dell’onestà intellettuale da parte dell’editore principale del volume. Con lunga e dettagliata analisi, Collins si sofferma: 1. sulle testimonianze di natura indiretta da cui ricaviamo notizie sull’autore; 2. sul suo nome; 3. sulle sue origini; 4. sul suo statusecclesiastico (è un asceta? un vescovo? un monaco?); 5. sulla sua cronologia; 6. sulla tradizione manoscritta delle due opere certamente attribuibili a lui, e sulla loro sorte diversa (il De fide ben presto vide scemare l’interesse nei suoi confronti, anche perché troppo legato a una difesa dall’accusa di dottrine che col tempo non furono più al centro di particolari attenzioni, mentre l’Ad Ianuarium continuò a interessare, forse anche per il suo contenuto più scabroso e comunque sempre attuale); 7. sul suo rapporto col priscillianismo e le varie posizioni assunte dai principali studiosi nel tempo, tra cui soprattutto Florio (1748), Berger (1893), Morin (1928), Duhr (varie pubblicazioni dal 1928 al 1937). Quindi, con lo scetticismo tipico dello storico, arriva alle seguenti personali conclusioni: 1. le origini spagnole di Bachiarius non riposano su di una certezza incrollabile, anzi non vi è sicurezza che esse corrispondano al vero («… the case for a Spanish origin is not proven. This does not mean that he definitely was not born in one of the Spanish provinces. It is just that the existing evidence is not strong enough to prove it beyond all reasonable doubt, pp. 32*-33*)». D’altra parte, come sottolinea Collins (p. 7*), l’unica fonte indipendente su Bachiarius, ossia Gennadio, non fa assolutamente menzione delle sue origini, il che significa, per lo storico inglese, che già alla sua epoca non si avevano chiare informazioni a riguardo. Di fatto, argomenta Collins, il primo a parlare di origini spagnole, e specialmente galiziane, di Bachiarius, fu Francesco Florio (1705-1792), il quale basò tale ipotesi sulla presunta impostazione (a suo dire) antipriscillianista del De fide; 2. non è nemmeno provato il priscillianismo di Bachiarius, come invece volevano studiosi quali Berger e Duhr, ma si tratterebbe di congetture che potrebbero poggiare solo sulla comune temperie spirituale del periodo (il che significa che Collins non mette in discussione la datazione cronologica dell’opera, ma la sua eventuale destinazione); 3. se è argomentabile che il De fide si possa datare tra il 400 e il 418, per l’Ad Ianuarium, invece, non abbiamo dati sicuri che ci permettano di arrivare a una cronologia certa; 4. le Epistulae II, infine, non sono ascrivibili a Bachiarius, in quanto mancano elementi definitivi in tal senso. Come si vede, due posizioni, quella di Collins e quella di Martín-Iglesias, completamente differenti, che ci dimostrano, pur nella preziosità di avere uno strumento di lavoro scientifico di alto valore, quale questa pregevole edizione critica della Series Latina del Corpus Christianorum, come la quaestio relativa a Bachiarius rimanga vexatissima e attenda, si spera, nuove scoperte che possano meglio rischiararla.