BMCR 2019.05.37

L’arte della parola: tra antichità e mondo contemporaneo. Mnemata, 3

, , L'arte della parola: tra antichità e mondo contemporaneo. Mnemata, 3. Canterano: Aracne Editrice, 2017. 311. ISBN 9788825501926. €18,00 (pb).

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I dodici saggi raccolti nel volume sono la rielaborazione delle relazioni tenute durante il convegno omonimo promosso dall’AICC cuneese nel 2014. L’argomento allora scelto era volutamente in controtendenza rispetto alla situazione culturale italiana (ma anche, direi, più generale): infatti, a fronte dei settorialismi e tecnicismi dilaganti, l’arte della parola rappresenta per i curatori il punto di convergenza di molteplici campi d’indagine (in particolare, alcuni dei contributi sono d’argomento giuridico) e consente una visione olistica.

Come si desume dal titolo (“Potere e parola nella cultura dei sofisti”), il saggio di Nasi si concentra sul nesso che lega parola e potere, considerato il perno del pensiero sofistico. Poiché esso ha influenzato tutta la cultura greca non solo filosofica, l’autore accenna alla parodia di Aristofane ( Nuvole) e alla polemica di Platone ( Teeteto) prima di affrontare le implicazioni politiche delle indagini linguistiche e retoriche di Prodico e Gorgia: nello specifico, la sinonimica del primo, alla ricerca della definizione più esatta di ogni termine, si riverbererebbe nell’analisi tucididea (cf. in particolare Th. III 38, 5-7; 39, 2; 82, 2-4). Per quanto riguarda il secondo, infine, accantonata l’idea di una presunta apoliticità, Nasi richiama l’attenzione sulla svalutazione del νόμος nell’ Epitafio, da un lato, sull’esaltazione della parola e della sua forza persuasiva, che incide sulla realtà nell’ Encomio di Elena, dall’altro.

Premessa fondamentale del lavoro di Cuniberti (“La retorica nascosta e smascherata: Senofonte e l’arte socratica delle domande retoriche”) è la consapevolezza di Senofonte dell’importanza della ricezione e della possibilità di orientare il destinatario sia attraverso la selezione dei fatti, sia attraverso strategie narrative e retoriche. Pertanto, l’Autore intende esaminare l’uso delle interrogative retoriche nella produzione senofontea. Il primo dato che emerge è che il numero delle domande dirette, non solo retoriche, è molto alto, soprattutto nelle opere “socratiche” (e in quelle storiche d’impronta socratica), per ovvie ragioni: un confronto con Tucidide, in cui tale mezzo espressivo risulta raro, lascia supporre che Senofonte abbia concepito l’interrogativa come uno strumento stilistico particolarmente efficace. Sono quindi esaminate la Ciropedia, le cui interrogative sembrano ribadire i valori cari a Senofonte, e l’ Anabasi, dove l’uso delle domande retoriche appare finalizzato all’autodifesa. Le Elleniche segnano un cambiamento: le interrogative retoriche diventano anche interventi autoriali grazie ai quali Senofonte anticipa le riflessioni e soprattutto le obiezioni del lettore operando una sottile deformazione degli eventi. Significativa è anche la distribuzione: assenti nei primi due libri, si concentrano nelle coppie III-IV e VI-VII, esprimendo aspetti essenziali del pensiero politico dell’autore. Analogamente, nell’ Agesilao e nella Costituzione degli Spartani, le valutazioni di Senofonte sono espresse in una forma che vuole comunicare certezze, secondo strategie retoriche più che secondo un metodo storiografico oggettivo.

Nel suo contributo “L’ἠθοποιία bifronte in Lisia”, Cresci si sofferma su un aspetto dell’etopea lisiana che ancora merita di essere esplorato, ovvero la possibilità di conoscere la natura delle corti giudicanti a partire dalla capacità del logografo di adeguare il discorso alle piccole manie e ai pregiudizi dei giudici. In effetti, rileggendo con la dovuta cautela i testi di Lisia alla luce delle testimonianze sui processi desumibili da Aristofane e Aristotele, emergono gli aspetti salienti della mentalità dei giurati: la consapevolezza del proprio ruolo di difesa non solo della legge, ma dell’intera politeia; la predisposizione a condannare, che il logografo tenta di neutralizzare avviando un processo di identificazione con una delle parti in causa; l’apprezzamento per pudore e ritrosia; la comprensione mostrata verso l’ira come possibile movente di un crimine. In generale, appare rilevante il ruolo delle emozioni: l’appello alla pietà, il tentativo di suscitare il riso o una sorta di complicità. In conclusione, Lisia si muove con sicurezza nell’ampio spazio che la natura non specialistica delle corti ateniesi, nonché le argomentazioni prevalentemente fondate sull’ eikós lasciano alla retorica, conformando il carattere e i discorsi dei suoi clienti alla mentalità e alle aspettative dei giudici.

Nel mondo attuale, in cui numeri e immagini dettano legge e la parola appare manipolata e compromessa, diventa fondamentale recuperare una buona retorica. In effetti, proprio il XX secolo, che ha conosciuto la enfasi vuota e reboante dei totalitarismi, ha avviato una riflessione su tale disciplina, grazie soprattutto all’opera di Perelman.1 Questo premesso, in “La buona retorica e il λόγος ἡγεμών di Isocrate”, Casarino suggerisce un ritorno ad Isocrate, affrancato da alcuni pregiudizi critici,2 come esempio di fede in una parola utile alla comunità, non divisiva, che sollecita il confronto dialettico ed è alla base della democrazia: spunti utili provengono dal Panegirico (in particolare il concetto di logos come rivelatore di libertà: cap. 49), dal Nicocle ( logos come vettore di paideia : cap. 8) e, infine, dal Panatenaico, in cui Isocrate rivendica di essersi sempre dedicato a quei discorsi che potessero essere utili per la sua città.

La sistemazione data alla retorica in ambito romano da Cicerone e lo stretto rapporto tra forma e insegnamento che caratterizza le sue opere retoriche hanno fatto di lui un maestro della disciplina. A ciò ha forse contribuito la rappresentazione che Cicerone dà di sé: pertanto, il saggio di Raschieri “Cicerone come maestro di retorica” intende mettere alla prova tale ipotesi, esaminando i termini pertinenti all’area semantica dell’insegnamento nel De inventione. In effetti, emerge una notevole consapevolezza: Cicerone attribuisce grande importanza al magistero retorico per la formazione del cittadino, ma non ne nasconde le difficoltà (ne conseguono la necessità di rifarsi alla tradizione e il legame con la filosofia); ancora, la strutturazione degli argomenti, il gioco di rimandi, le esemplificazioni rivelano notevole sensibilità pedagogica; infine, si segnalano l’attenzione a delimitare gli ambiti di retorica e filosofia e la rielaborazione in chiave romana dei precetti greci.

Come si può desumere dal titolo (“Il mezzo e il messaggio. Le tecnologie della parola nella storia della ricerca sulle tradizioni sinottiche”), Grosso compie una ricognizione storica degli studi sulla composizione dei Vangeli sinottici, in funzione del mezzo comunicativo utilizzato. Dopo alcuni cenni a Lessing, Schleiermacher e Lachmann, l’attenzione si posa su Herder, per l’importanza da lui conferita all’oralità. Più ampia la trattazione delle tesi novecentesche: mentre Bultmann ipotizza una progressiva stratificazione e cerca di recuperare le forme primitive via via inglobate nella narrazione, pur rimanendo legato ad una visione letteraria, Gerhardsson appare più sensibile alle sollecitazioni derivanti dagli studi sull’oralità e suppone una trasmissione controllata, scritta o mnemonica, dei materiali relativi alla predicazione di Gesù secondo il modello rabbinico (ma nei Vangeli non c’è testimonianza di ciò). Per quanto riguarda il panorama tra XX e XXI secolo, sono considerati sia gli studi oralistici (nel testo di Marco, il legame con la tradizione orale è riconoscibile tanto nelle modalità di costruzione del racconto, quanto nelle scelte sintattiche) sia il performance criticism (la dinamica tra esecuzione e ricezione consente di prospettare una situazione in cui il testo plasma il pubblico e ne è contemporaneamente plasmato).

In “Hermann Broch e i diversi fini dell’arte della parola: Virgilio versus Augusto” Giuliani si concentra su alcuni passi della terza sezione del romanzo La morte di Virgilio, in cui Augusto e il poeta si confrontano sul destino dell’ Eneide : mentre l’imperatore si ostina a considerare la letteratura in funzione della celebrazione di un sistema politico, Virgilio/Broch, influenzato dalla rivoluzione scientifica novecentesca (in particolare il principio di indeterminazione di Heisenberg) e dal pensiero heideggeriano, ritiene che essa debba tendere verso l’infinito e il trascendente, anche se può solo offrire una pallida idea della verità. Virgilio, dunque, diviene il pretesto per esprimere una concezione dell’arte liberata, autonoma.

Il saggio di Fenoglio (“Tra parola e azione: la lezione di Leonardo Ferrero, filologo e partigiano”) rievoca la figura di Ferrero, studioso e uomo impegnato nella vita civile: da un lato, si ricorda il suo contributo ad una migliore comprensione della definizione ciceroniana della storiografia come opus oratorium; dall’altro, si sottolinea la sua consapevolezza che, se la conoscenza del presente offre chiavi d’interpretazione del passato, lo studio del passato può aiutare a vivere con maggiore lucidità il presente. Negli anni del fascismo questo si è tradotto in un magistero di libertà e impegno morale, prima, nella scelta di aderire alla Resistenza, poi. Infine, in opuscoli successivi sull’esperienza antifascista, compare il forte legame tra cura della parola e rettitudine dell’azione, da cui nasce la buona retorica.

In “Aristotele chiama Obama”, Desderi propone un’interessante analisi del discorso indirizzato dal Presidente USA ai giovani raccolti a Bruxelles il 26 marzo 2014, alla luce dell’insegnamento retorico antico, pur nella consapevolezza delle specificità delle diverse epoche. Dopo alcune indispensabili avvertenze sulla “macchina della comunicazione del Presidente” (p. 207), sul fatto che i discorsi sono scritti da suoi collaboratori e sull’opportunità di studiare l’originale inglese, Desderi esamina il testo: di genere deliberativo, può essere suddiviso nelle quattro parti canoniche (anche se il passaggio da narrazione ad argomentazione non è netto); i precetti e i mezzi retorici sono applicati con efficacia, dimostrando la loro attualità.

È pressoché ovvio che la retorica intesa come mera arte della persuasione trovi applicazione nell’ambito del diritto. Tuttavia, poiché nella storia della giurisprudenza si sono avvicendate (anche se talora coesistono) due diverse concezioni di essa, quella logico-deduttiva (che vorrebbe offrire la certezza del diritto) e quella logico-argomentativo retorica (che tende a muoversi sul terreno del ragionevole), quest’ultima può ricevere un utile contributo, come sostiene Sicardi (“Retorica e diritto. Spunti introduttivi”) anche dalla retorica come tecnica dell’argomentazione, soprattutto come ars inveniendi di ragionamenti su cui fondare il convincimento dell’uditorio, tanto più in una realtà complessa come l’attuale, in cui si possono verificare situazioni non ancora disciplinate dal codice.3

Nel saggio “Circolo ermeneutico e autorità della tradizione: tentativi di ricostruzione tra diritto e letteratura” Cavino distingue tra circolo interpretativo (dal caso concreto alla norma e di nuovo al caso) e circolo ermeneutico (dalla pre-comprensione alla comprensione piena) e riflette sulle possibilità di applicazione di questo al diritto. In particolare, individua due importanti limiti: la difficoltà di valutare quando si sia giunti alla piena comprensione e la solitudine dell’interprete, che mal si addice al giudice il quale deve invece entrare in contatto con il vissuto di altri soggetti.

Negli ultimi decenni la cura dell’immagine ha investito non solo l’ambito politico, suscitando un ampio dibattito, ma anche la sfera privata; viceversa, si tende a considerare che il diritto, soprattutto nella sistemazione novecentesca, ne sia immune e si fondi esclusivamente sulla parola razionale. In realtà, come il contributo di Heritier (“Tra umanesimo e postmodernità. La politica, l’uso normativo dell’immagine e la retorica processuale”) evidenzia, non solo nella storia del diritto l’immagine è spesso stata utilizzata con funzione normativa, ma si può tentare di individuare “tratti normativi dell’immagine” (p. 287) accettabili nella concezione giuridica attuale.

I contributi proposti, sebbene tutti ricchi di spunti di riflessione, appaiono disomogenei: alcuni, più profondamente radicati nella realtà culturale italiana, rivelano maggiormente le finalità di difesa e promozione della cultura classica; altri, invece, sono più nettamente destinati alla fruizione specialistica. Ciò mi sembra si riverberi anche nelle bibliografie dei singoli studi, caratterizzate da opere prevalentemente in lingua italiana i primi, internazionali i secondi.

L’edizione è complessivamente curata e pochi sono i refusi: in particolare, correggerei, a p. 60 r. 9 ἠθοποϊία con ἦθος. In tale quadro generale, stupisce la trascuratezza formale dell’ultimo saggio, che avrebbe meritato un’ulteriore rilettura.

Authors and titles

Indice
Premessa
S. Nasi. Potere e parola nella cultura dei sofisti
G. Cuniberti. La retorica nascosta e smascherata: Senofonte e l’arte socratica delle domande retoriche
L. R. Cresci. L’ἠθοποιία bifronte in Lisia
S. Casarino. La buona retorica e il λόγος ἡγεμών di Isocrate
A. A. Raschieri. Cicerone come maestro di retorica
M. Grosso. Il mezzo e il messaggio. Le tecnologie della parola nella storia della ricerca sulle tradizioni sinottiche
S. Giuliani. Hermann Broch e i diversi fini dell’arte della parola: Virgilio versus Augusto
S. Fenoglio. Tra parola e azione: la lezione di Leonardo Ferrero, filologo e partigiano
E. Desderi. Aristotele chiama Obama
S. Sicardi. Retorica e diritto. Spunti introduttivi
M. Cavino. Circolo ermeneutico e autorità della tradizione: tentativi di ricostruzione tra diritto e letteratura
P. Heritier. Tra umanesimo e postmodernità. La politica, l’uso normativo dell’immagine e la retorica processuale
Gli autori

Notes

1. C. Perelman – L. Olbrechts-Tyteca. Trattato dell’argomentazione. Torino 1966 (ed. or. 1958).

2. In particolare il giudizio di A. Lesky. Storia della letteratura greca. Milano 1980 (ed. or. 1957-1958), pp. 724s.

3. Mi sembra utile precisare che la tradizione giuridica a cui Sicardi fa riferimento è quella fondata sul diritto romano, che pone al centro il codice.