BMCR 2019.01.57

Per advocatum defenditur: Profili ricostruttivi dello status dell’avvocatura in Roma antica. Abbrivi. Nuova serie, 4

, Per advocatum defenditur: Profili ricostruttivi dello status dell’avvocatura in Roma antica. Abbrivi. Nuova serie, 4. Napoli: Jovene Editore, 2017. xvii, 215. ISBN 9788824324878. €22.00 (pb).

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Il volume si inserisce all’interno della Collana Abbrivi. Nell’introduzione, dal titolo ‘Prospettive di ricerca’ (pp. XIII-XVII), lo studioso spiega che suo intento è fornire una ricostruzione dell’avvocatura a Roma focalizzando l’attenzione non sui giuristi o sulla figura dell’ orator, come avviene nella linea di studi tradizionale, ma sugli advocati.1 La prima e la seconda parte del volume si occupano, attraverso l’analisi delle fonti, dell’ orator e dell’ advocatus, intesi come attori fattivi del diritto romano (dall’epoca arcaica a quella imperiale), alla luce del mutuo scambio che essi intrattengono con i giuristi. La terza sezione si occupa del problema della retribuzione forense.2

Nelle commedie di Plauto e Terenzio il termine advocatus è utilizzato con accezione semitecnica; gli advocati avrebbero un’imprecisata funzione assistenziale a favore di più categorie di soggetti, dagli amici ai patroni (ad esempio si veda Plaut. Cas. 563-569); Giumetti è contrario all’ipotesi del Fraenkel,3 secondo il quale in Plauto l’ advocatus era un semplice testis; a suo parere, l’ advocatus è chiamato ad affiancare la parte con funzioni eterogenee. Come emerge dal Poenulus (vv. 519-520; 531), gli advocati sono dipinti come semiloschi individui tuttofare che, con raggiri e inganni, vengono chiamati in soccorso dal patrono Agorastocle per ingannare l’avversario.

Anche in Terenzio l’utilizzo del termine advoco acquisisce una portata semantica afferente alla dimensione processuale; l’ advocatus nelle commedie terenziane sembra assumere, però, caratteri identitari più strettamente giuridici rispetto alle commedie di Plauto. Attraverso l’analisi di passi dell’ Eunuchus (vv. 335-338; 759-763), del Phormio (vv. 348-349; 407) e dell’ Adelphoe (vv. 643-646; 675-678), Giumetti arriva alla conclusione che il termine advocatus in Terenzio si colloca appieno in contesti indiscutibilmente forensi; esso mantiene tuttavia un’oscillazione semantica che va dal significato di consigliere a quello di aiutante in giudizio esercente attività difficili da precisare, fino ad arrivare a quello di testimone.

Non mancano nella tarda repubblica esempi di donne capaci di svolgere in casi particolari un’attività oratoria non ritenuta, evidentemente, in se stessa contrastante con le caratteristiche del loro sesso.4 La preclusione fatta alle donne nei processi criminali è una particolarità distinta dal divieto, a loro imposto, di esercitare la funzione giudicante e l’avvocatura. Nella letteratura di età imperiale mancano notizie a sostegno di una generalizzata preclusione della donna ad agire di fronte ad una quaestio perpetua. Dalla lettura di D. 48.2.1 emerge chiaramente che la donna in casi circoscritti poteva esercitare l’accusa, e ciò in deroga alla norma di carattere generale prevista in D. 48.2.8.

Analizzando le occorrenze di advocatus, patronus ed orator nel corpus retorico di Cicerone,5 Giumetti arriva alla conclusione che, se il patronato giudiziale si caratterizzò per un sempre maggiore tecnicismo, emancipandosi dall’originario rapporto clientelare, le funzioni svolte dall’ advocatus restarono per lungo tempo difficilmente definibili, poiché questi svolge a volte mansioni solo sensu lato riferibili al mondo del diritto. Nel Brutus (288-289) gli advocati sono intesi come consiglieri pronti a fornire agli oratori il necessario supporto tecnico al fine di scongiurare errori dettati dalla diffusa ignorantia iuris da parte di coloro che manipolavano la parola ma non possedevano una solida conoscenza del ius civile. Non c’è dubbio, però, che Cicerone si sentisse a pieno titolo orator o patronus e che non avrebbe gradito il declassamento al livello inferiore di advocatus, come testimonia il parco utilizzo del termine da parte dell’Arpinate.

Per una più matura rappresentazione della figura dell’ advocatus, svincolata, almeno parzialmente, dalla dimensione del patrono, bisogna attendere l’età imperiale. Quest’ultima rimodellò la figura del difensore in giudizio, anche a causa del lento declino dell’oratoria giudiziaria. Lo scadimento dell’ ars rhetorica era dovuto anche alla sua minore utilità per l’ascesa nel cursus honorum; l’esercizio dell’avvocatura, inoltre, cominciò ad essere esercitato dalle classi meno elevate. Il difensore in giudizio non viene più chiamato patronus ed orator, ma advocatus, causidicus; si utilizzano anche altre espressioni, alcune delle quali dispregiative (ad esempio i termini clamator e rabula, già utilizzati in Cic. de orat. 1.202, per indicare rispettivamente l’avvocato che grida come un pubblico banditore risultato molesto e chi declama senza avere l’ ingenium oratorium, o latrator, che compare in Quint. inst. 12.9.12).

Quintiliano, con la pubblicazione dell’ Institutio oratoria, pur proponendo Cicerone e il suo ideale di retore come modello, ridisegna i confini dell’istruzione retorica, intesa come processo di acculturamento. Giumetti, inoltre, analizza la differente accezione, anche se non sempre evidente, con cui il retore utilizza i termini orator ed advocatus. Secondo Quintiliano l’ advocatus non può essere privo di un’imprescindibile moralità, ritenendo che la scissione tra probità morale e capacità sia ancora più impensabile nel caso dell’ orator, che, scevro dei boni mores, non potrebbe essere neanche inteso come tale ( inst. 12.1.23). L’ advocatus, quindi, sarebbe un orator che si è allontanato dalle norme di comportamento elevato. In antitesi con le più nobili figure sussiste, infatti, nella realtà forense, la figura del causidicus. Questo termine, pur mantenendo la sua matrice etimologica, aveva acquisito una coloritura denigratoria nel I secolo d. C.

Giumetti analizza poi l’opera di Plinio il Giovane, che fu, come noto, anche un rinomato avvocato. Dall’epistolario emerge la tendenza pliniana a concepire l’esercizio dell’oratoria forense nel rispetto di un codice deontologico. Plinio, inoltre, si astenne dall’attività forense quando rivestì una carica pubblica, pur ritenendo l’ advocatio un dovere quotidiano importante del civis, e patrocinò gratuitamente, laddove l’Arpinate, come altri oratori, non disdegnò quei generosi donativi che esprimevano gratitudine per il servizio reso ( ad Att. 1.20.7).

Uno dei punti di forza del volume è di certo la terza parte, in cui l’autore compie un’analisi complessiva delle tappe fondamentali che portarono all’emersione e alla lenta accettazione dell’onorario forense.6 Se le artes illiberales potevano essere retribuite con una merces, l’avvocatura, in quanto ars liberalis, rimaneva priva di contropartita contrattualmente esigibile. L’oratore remunerato, quindi, subiva un discredito da tutta la collettività. Lo stesso Quintiliano giustificava la percezione di un compenso, a fronte del patrocinio prestato, esclusivamente in caso di indigenza del patronus. I vari passi discussi di Gellio ( Noct. Att. 12.2-4) e Cicerone ( ad Att. 1.20.7; Phil. 2.40) fanno, quindi, comprendere che, nonostante vigesse il rispetto formale del plebiscito Cincio, che impediva che gli avvocati venissero pagati, erano diffuse molteplici consuetudini idonee a remunerare l’esercizio dell’attività forense. Vari erano i modi per aggirare la lex Cincia : gli advocati potevano farsi dare una cautio, una concessione di denaro antecedente al processo, o ottenere un lascito testamentario, o ottenere dei prestiti che, per tacito accordo, non venivano poi rimborsati. Si comprende che la lex Cincia risultava imperfecta per il fatto che non esistevano azioni idonee da adottare in caso di sua violazione. L’onere della prova, inoltre, gravava sul patrocinato.

Augusto, tuttavia, istituì una specifica actio metus in caso di sua violazione. Il rimedio pretorio poteva essere invocato dal cliente che avesse corrisposto un compenso alle pur antigiuridiche richieste del legale, per effetto della situazione psicologica ingenerata dall’incombere del giudizio. Si può datare all’età giulio-claudia l’emersione del licitum honorarium, grazie a due senatus consulta, che si resero necessari per le continue liti che si generavano per la violazione pressoché impunita della lex Cincia. Dopo un’accesa discussione in senato, riportata da Tacito ( ann. 11. 5-7), Claudio, infatti, fissò in diecimila sesterzi il limite massimo che ciascun patrocinatore in giudizio poteva ricevere dal proprio assistito a processo concluso a titolo di donativo; superata tale somma, sarebbe incorso nella violazione della lex Iulia repetundarum. Nel 54 d. C. Nerone fece emanare un senatus consultum che aveva di mira il divieto di corresponsione di denaro o di dona prima dell’attività processuale, colmando una probabile lacuna di previsione.

Nell’ultimo capitolo del saggio sono analizzati tutti i passi del Digesto dedicati all’ honorarium degli avvocati. La remunerazione forense era divenuta, infatti, sotto la dinastia dei Severi, una controprestazione socialmente accettata, oggetto di rigida disciplina da parte del legislatore imperiale. Ciò si riflette nell’istituto del licitum honorarium, di cui si trova cenno in D. 50.13.1.10, dove è configurato come una tariffa esigibile legittimamente, purché richiesta nel rispetto del modus legislativamente prefissato. In D. 50.13.1.9 viene stabilito che, qualora fossero sorte delle liti per iniziativa dei clienti contro gli avvocati relativamente agli onorari da questi richiesti, veniva attribuita ai praeses provinciae la relativa cognitio.

In D. 50.13.1.10-11 la preoccupazione del giurista è quella di fornire all’organo giudicante dei parametri cui attenersi nella valutazione da effettuare in merito all’ammontare degli honoraria dovuti agli avvocati, qualora il cliente ne avesse eccepito la legittimità. Questi erano i canoni individuati nel fissare la retribuzione: l’entità della lite; il prestigio riconosciuto al difensore; la prassi vigente nel Foro dove si era radicata la causa, da valutare insieme a quella valevole per quel tipo di processo.7 Da D. 50.13.1.12 si viene a sapere che l’onorario forense era divenuto, nell’impero avanzato, non solo lecito ma altresì coercibile.8 Lo scopo del provvedimento era quello di scoraggiare forme di societas tra patrocinatore e patrocinato che potessero condizionare l’operato del primo nello svolgimento del processo. D. 2.14.53 è così interpretato da Giumetti (pp. 186-187): se è onesto per un avvocato anticipare le spese processuale al proprio assistito, ed è lecito il patto con cui si prevede che quest’ultimo le rimborsi con gli interessi, non è consentito il pactum con cui il professionista difenda il cliente con l’intesa che gli verrà corrisposta, alla conclusione della lite, la pars dimidia di quanto quest’ultimo avrà eventualmente conseguito. In D. 19.2.38.1, infine, si legge che gli advocati avevano il diritto di trattenere gli honoraria versati dal cliente qualora un giudizio già radicato non fosse giunto a conclusione per causa a loro non imputabile.

Il volume, che si segnala per la ricchezza di documentazione prodotta e la precisa analisi delle fonti, riesce nell’intento dichiarato dall’autore (p. xiii) di spostare l’oggetto d’indagine, che solitamente è rappresentato dall’apporto dei giuristi nell’edificazione dell’ordinamento giuridico romano, sugli advocati, il cui operato e le cui funzioni sono prese in esame lungo l’arco della storia di Roma; il volume, che offre un utile e complessivo quadro d’insieme sull’avvocatura a Roma, si correda di un Indice degli autori (pp. 195-201) e di un Indice delle fonti (pp. 203-215).

Tavola dei contenuti

Indice (ix-xi)
Prospettive della ricerca (pp. xiii-xvii)
Parte prima
Le origini della figura del difensore in giudizio nelle commedie di Plauto e di Terenzio (pp. 3-16)
L’attività di rappresentanza processuale in età repubblicana (pp. 17-35)
Advocatus, patronus ed orator nel corpus retorico ciceroniano (pp. 37-75)
Parte seconda
Agli albori della difesa tecnica: l’età imperiale (pp. 79-106)
Le Institutiones Oratoriae di Quintiliano (pp. 107-122)
L’epistolario di Plinio il Giovane (pp. 123-138)
Parte terza
Una laboriosa accettazione sociale: origini e alterne fortune dell’onorario forense (pp. 141-155)
I senatus consulta di Claudio e Nerone in tema di onorario forense (pp. 157-173)
Spigolature giustinianee: l’ honorarium forense nella compilazione (pp. 175-193)
Indice degli autori (pp. 195-201)
Indice delle fonti (pp. 203-215)

Notes

1. L’autore fa giustamente riferimento, tra l’altro, a proposito dell’attività retorica dell’ advocatus e delle sue strategie difensive, ad A. Bellandi Ansaloni, L’arte dell’avvocato, actor veritatis. Studi di retorica e deontologia forense, Bologna 2016, pp. 5 ss.; A. Palma, Il luogo delle regole. Riflessioni sul processo civile romano, Torino 2016; U. Vincenti, Giustizia e metodo. Contro la mitologia giuridica, Volume 1. Nuova edizione, Torino 2005.

2. Sul problema si veda il fondamentale A. Dimopoulou, La remuneration de l’assistence en justice. Ètude sur la relation avocat-plaideur à Rome, Athens 1999.

3. E. Fraenkel, Elementi plautini in Plauto, trad. it. di F. Munari, Firenze 1960, pp. 152-153.

4. Una di queste figure è Carfania (o Afrania, o Carfinia), cui si fa cenno in D. 3.1.1.5 (si veda a proposito E. Cantarella, Afrania e il divieto di avvocatura per le donne, in R. Raffaelli (a c. di), Vicende femminili in Grecia e a Roma, Ancona 1995, pp. 527 ss.); Valerio Massimo elogia due donne che esercitarono l’avvocatura, Mesia Sentinate (8.3.1) e Ortensia, figlia di Ortensio Ortalo (8.3.3).

5. Si vedano le analisi fornite da C.F. Kubitschek, Advocatus, in Paulys Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, I, Stuttgart 1894, pp. 436 ss.; E. De Ruggiero, Advocatus, in Dizionario epigrafico di antichità romane, Roma 1895, pp. 116 ss.; alla bibliografia citata dall’autore si possono aggiungere due studi molti utili dedicati alla figura di Cicerone avvocato: G. Broggini, Cicerone avvocato, in Jus 37 (1990), pp. 143-166; G. Sposito, Il luogo dell’oratore. Argomentazione topica e retorica forense in Cicerone, Napoli 2001.

6. L’autore fa riferimento in particolare al già citato saggio di Dimopolou e a M. Pani, La remunerazione dell’oratoria giudiziaria nell’alto principato: una laboriosa accettazione sociale, in Id., Poteri e valori a Roma fra Augusto e Traiano, Bari 1992.

7. L’autore concorda con l’analisi fornita da A. Dimopoulou, cit., p. 458

8. Sul passo si veda anche P. Garbarino, Il lavoro intellettuale nel mondo romano, Index 28, 2000, pp. 520 ss.