Il volume è il risultato della revisione di una tesi di dottorato difesa all’Università di Friburgo in Svizzera nel 2012. Si tratta di un contributo di ottima qualità intorno al dibattutissimo tema della ‘separazione’ tra le forme e i particolari nel pensiero di Platone.1 Pitteloud ritiene che il problema attraversi l’intera carriera filosofica di Platone. I sei capitoli sono perciò dedicati a opere che la datazione tradizionale degli scritti del filosofo attribuisce a fasi diverse della sua produzione: l’ Ippia Maggiore e il Liside (cap. 1), il Fedone (cap. 2), il Fedro (cap. 3), la Repubblica (cap. 4), il Parmenide e il Sofista (cap. 5), il Timeo (cap. 6). Pitteloud difende la tesi secondo cui è possibile riscontrare una certa unità concettuale nel modo di impostare il problema della separazione tra le varie fasi della produzione platonica, benché la versione più matura di tale rapporto sia da ricercare nel Timeo. La ‘separazione’ delle forme rispetto ai particolari non deve essere intesa nel senso dell’esistenza indipendente delle prime rispetto ai secondi.2
Pitteloud argomenta molto bene la sua premessa metodologica, secondo la quale dobbiamo evitare sia una comprensione del pensiero di Platone che rifiuta ogni evoluzione interna, sia uno rigido schema evolutivo secondo cui l’ipotesi delle forme è introdotta nel Fedone senza essere stata anticipata altrove in alcun modo. Da questa premessa metodologica si può dedurre che sia legittimo attendersi anticipazioni della teoria delle forme già nei cosiddetti dialoghi socratici, che sono tradizionalmente associati alla prima fase della produzione filosofica di Platone.
Pitteloud si concentra in particolare sull’ Ippia Maggiore, dialogo aporetico sul ‘bello’. Dopo un breve excursus in cui difende l’autenticità del dialogo con buoni argomenti (pp. 30-1),3 Pitteloud nota che l’opera ha l’abituale andamento delle ricerche aporetiche dei cosiddetti ‘dialoghi giovanili’. Lo stesso concetto di cui si cerca la definizione, il ‘bello’, ha pure una connotazione etica in greco, come Pitteloud mette bene in luce. Dall’analisi dialettica condotta da Socrate, emerge che il ‘bello’ ha anche una connotazione metafisica. Pitteloud osserva che numerose scelte linguistiche di Platone (cf. p. 42) sottolineano il fatto che il ‘bello’ sia una ‘causa’ delle cose belle. Il ‘bello’ può dunque essere inteso come una ‘qualità’ delle cose belle (p. 43), rispetto alle quali è distinto (pp. 44-5). Il ‘bello’ e le cose belle devono perciò essere intesi entrambi come ‘oggetti esistenti’ (p. 45). Pitteloud conduce una analisi molto raffinata, ma forse è da lamentare il fatto che non sottolinei che la lettura metafisica è solo una delle interpretazioni possibili dell’analisi dialettica condotta nell’ Ippia Maggiore : in fin dei conti, Platone potrebbe parlare di una ‘causa esplicativa’ che si colloca soltanto a livello linguistico e, se è vero che occorre postulare l’ esistenza del ‘bello’, tale ‘esistenza’ potrebbe anche significare semplicemente che il termine ‘bello’ significa qualcosa —non è necessario dedurre da questa premessa che il ‘bello’ significhi qualcosa di esistente in ipsa rerum natura. Il Liside conduce a conclusioni analoghe, pur portando sulla analisi delle ‘cose amate’. Per Pitteloud le conclusioni a cui conducono i due dialoghi sono quindi di ordine metafisico, anche se Platone non introduce ancora la dottrina dei ‘gradi dell’essere’ (cf. p. 56) che sarà l’oggetto di dialoghi successivi.
Nel secondo capitolo, dedicato al Fedone, Pitteloud si interroga sulla analogia tra la ‘separazione’ che sussiste tra l’anima e il corpo e la ‘separazione’ delle forme rispetto ai particolari. Pitteloud distingue due sensi di ‘separazione’ dell’anima rispetto al corpo: (1) l’esistenza indipendente (l’anima sopravvive al corpo, dunque può esistere quando il corpo non esiste) e (2) la separazione dell’anima rispetto alle influenze del corpo nel contesto della ricerca filosofica. Secondo Pitteloud le forme sono ‘separate’ dai particolari in nessuno di questi due sensi: non è possibile che siano separate nel senso della esistenza indipendente, perché le forme servono a ‘spiegare’ certe caratteristiche dei particolari (la cui esistenza deve quindi essere supposta); ma non è nemmeno possibile pensare le forme in senso psicologico, attribuendo ad esse una ‘assenza di influenza’ da parte dei particolari nel momento in cui le forme farebbero filosofia. La scelta terminologica di descrivere il rapporto tra forme/particolari e tra anima/corpo con termini analoghi non è però senza motivo —e questo credo sia una delle intuizioni più suggestive del libro di Pitteloud. Una delle piste per individuare questa analogia consiste nel rilevare che l’anima è indipendente (nel senso 2) rispetto al corpo quando si avvicina alle forme. Le forme sono dunque la causa della separazione (psicologica) dell’anima dal corpo. Le forme possono quindi essere intese come autosufficienti rispetto ai particolari, proprio come l’anima è autosufficiente rispetto al corpo. La conclusione di questa osservazione porta a postulare due categorie distinte del reale: le forme e i particolari.
Nel terzo capitolo, Pitteloud analizza il Fedro, che sembra sviluppare il problema formulato nel Fedone : se esistono due categorie del reale, come è possibile per noi conoscere la dimensione intelligibile? Platone introdurrebbe la dottrina della reminiscenza per rispondere a questa domanda.
Un ulteriore tentativo di soluzione si incontra nella Repubblica (capitolo 4), in cui non compare più la dottrina della reminiscenza, ma emerge, almeno implicitamente, la tesi dei ‘gradi d’essere’: esiste una certa continuità tra il sensibile e l’intelligibile, perché la conoscenza intellettuale è vista come analogica rispetto alla conoscenza sensibile. Platone adotta la metafora del modello e dell’immagine per descrivere la relazione che intercorre tra intelligibile e sensibile – una metafora che consente di giustificare la tesi epistemologica avanzata nel dialogo, ma che non chiarisce l’ambiguità dello statuto metafisico delle forme e dei particolari. La tesi secondo cui il Bene sommo è ‘al di là’ dell’essere ribadisce ancora una volta la tesi della ‘separazione’ dell’intelligibile rispetto ai particolari.
Il quinto capitolo dell’opera è dedicato al Sofista e al Parmenide ed è la sezione probabilmente più complessa del volume. Anche in questo caso emerge con chiarezza la lettura ontologizzante di Pitteloud: le otto ipotesi del Parmenide sono lette in chiave puramente metafisica. Come è noto, esistono molti modi di intendere Parm. 137b1-4 (cf. pp. 169-70). Pitteloud opta per la lettura secondo cui Platone si chiederebbe quali sono le conseguenze delle tesi secondo cui l’uno esiste e quali le conseguenze della tesi secondo cui l’uno non esiste. La tesi difesa da Pitteloud è che il reale (sensibile) diverrebbe inintelligibile. Questo spiega quindi in che senso va intesa la autosufficienza delle forme: esse sono conoscibili in virtù di se stesse, mentre il sensibile è conoscibile solo in virtù delle forme.
L’ultimo capitolo, dedicato al Timeo, vorrebbe sciogliere l’aporia che si è andata delineando nei dialoghi precedenti: in alcune opere forme e particolari sono due ‘categorie’ distinte, in altre si sostiene la tesi secondo cui esistono diversi gradi dell’essere, le forme sono il grado più alto e i particolari sensibili sono il grado più basso (non è chiaro perciò dove si collocherebbe esattamente la separazione che consentirebbe di avere due categorie ontologiche distinte). L’introduzione del ricettacolo come luogo in cui le forme si presentano giustifica l’esistenza del sensibile (il sensibile esiste in quanto è nel ricettacolo) e spiega in che modo le forme, pur essendo una categoria distinta dal sensibile, possano risultare presenti nel ricettacolo, per fare del sensibile ciò che esso è. Nel ricettacolo troviamo quindi ‘immagini’ delle forme (come sostiene la teoria dei ‘gradi dell’essere’), ma le forme in sé e per sé restano distinte dal sensibile (come vuole la tesi secondo cui forme e particolari sono categorie ontologiche distinte).
Uno dei pregi maggiori dell’opera di Pitteloud è la sua struttura argomentativa: benché l’autore non sottolinei molto questo aspetto, i capitoli trattano di dialoghi che sono tradizionalmente posti in successione cronologica (non necessariamente in progressione drammatica). Pitteloud mostra che tale successione può essere anche intesa come il tentativo di sciogliere una difficoltà che la soluzione provvisoria avanzata dal dialogo precedente aveva implicitamente sollevato. Questa lettura ‘teleologica’ del pensiero di Platone vede inevitabilmente le riflessioni della maturità piena—che si incontrano nel Timeo —come il culmine della riflessione del filosofo ateniese: in quel dialogo tutte le aporie trovano una soluzione soddisfacente. Questo schema interpretativo è affascinante, anche se non nascondo di avere alcune riserve circa la sua attendibilità: chi scrive tende a pensare che Platone abbia praticato con coerenza il metodo dialettico nei dialoghi discussi da Pitteloud (con la probabile eccezione del Timeo e della Repubblica). Ciò non significa che la conclusione a cui perviene il filosofo ateniese sia inevitabilmente aporetica: al contrario, Platone senz’altro inferisce conclusioni, che però conservano un carattere ‘dialettico’. Esse sono perciò attendibili nel particolare contesto del gioco dialettico che ha avuto luogo, date quindi certe premesse e certi interlocutori. Inoltre, tali conclusioni, spesso espresse in forma assai generica, ammettono una estensione analogica in tutti i contesti in cui il gioco dialettico può essere ragionevolmente ripetuto. Questo significa, per esempio, che Platone non comprende il bello necessariamente come una ‘causa’ ontologica nell’ Ippia Maggiore, ma innanzi tutto come una ‘spiegazione linguistica’; ma dato che l’argomento platonico potrebbe ragionevolmente essere ripetuto attribuendo un valore ontologico al contesto della discussione, è ragionevole dedurre, come Pitteloud propone, che il bello in quanto causa sia anche una causa reale, ossia esistente in ipsa rerum natura. La lettura ‘ontologizzante’ di Pitteloud, benché sia inevitabilmente derivabile dalla sua ermeneutica ‘teleologica’, non è—a modesto parere di chi scrive—la sola lettura possibile del gioco dialettico condotto da Platone nei suoi dialoghi maggiori. Ciò nulla toglie al valore della interpretazione di Pitteloud, che ripropone in maniera originale e ben argomentata, con puntuali analisi testuali, un approccio in fin dei conti tradizionale al pensiero di Platone.
Il libro è molto ben curato dal punto di vista tipografico4 ed è piacevole da leggere: deve senz’altro essere raccomandato senza alcuna riserva a tutti gli studiosi del pensiero metafisico di Platone.
Notes
1. Il libro di Pitteloud è uscito poco prima della monografia di F. Forcignanò, Forme, linguaggio, sostanze. Il dibattito sulle idee nell’Accademia antica (Milano, Mimesis, 2018) (si vedano specialmente le pp. 250 ss.), che difende una tesi in parte diversa – un segnale incoraggiante che indica un interesse persistente fra gli studiosi per il nocciolo metafisico del pensiero di Platone. Secondo Forcignanò, la separazione introduce anche l’esistenza indipendente degli elementi separati, come avevano compreso sia Aristotele che gli accademici della prima generazione.
2. Esistono due modi di intendere la “esistenza indipendente” delle forme rispetto ai particolari: (1) in un senso, una forma esiste indipendentemente da ogni particolare, se non cessa di esistere qualora non esista alcun particolare a lei correlato; (2) in un secondo senso, una forma esiste indipendentemente dai particolari se esiste indipendentemente da questo o quel particolare, benché sia sempre correlata ad almeno un particolare di cui è forma. Pitteloud riassume il celebre dibattito tra G. Fine e D. Morrison circa la separazione alle pp. 20-5, sottolineando che sia per Fine che per Morrison le forme, di norma, non sono separate dalle loro istanze particolari (salvo casi eccezionali). Le loro interpretazioni differiscono nella definizione di ‘separazione’ (secondo Morrison, X è separato da Y se X è al di fuori dei confini ontologici di Y).
3. Pitteloud rileva giustamente che i dubbi sulla autenticità dell’ Ippia Maggiore nascono dal fatto che non dovremmo attenderci allusioni alla teoria delle forme in un dialogo giovanile. Dato che tali allusioni esistono, il dialogo non può che essere l’opera di un falsario. È del tutto evidente che queste non posso essere basi ragionevoli per respingere l’autenticità del dialogo in questione.
4. A p. 82 n. 183: Seldey > Sedley; a p. 95, linea 10 dal fondo, forse si deve intendere “intelligible” al posto di “sensible”; a p. 298: Sontinuity > Continuity. Non ho trovato altro.