L’ultima fatica di Otto Zwierlein è l’edizione critica dei Carmina profana di Draconzio, un poeta estremamente interessante, non soltanto per gli aspetti critico-testuali, che attirano da tempo l’attenzione dei filologi, ma anche per l’audace sperimentalismo che si riscontra nei suoi componimenti, sia a livello contenutistico (per le versioni innovative delle leggende), sia sul piano strutturale e stilistico (per l’intreccio dei generi letterari e la contaminazione di elementi eterogenei, alcuni dei quali attinti finanche dalla cultura di consumo). I Carmina profana sono stati pubblicati da Baehrens (Lipsiae, 1883) e, insieme con quelli cristiani, da Vollmer (Berlolini, 1905; 2 a ed. Lipsiae, 1914); poi da Jean Bouquet ed Étienne Wolff, con un’elegante traduzione francese e note di commento, nella collezione dell’IUF (voll. I-II, Paris, 1995-1996). La Medea ( Rumul. 10) è stata pubblicata anche da Helen Kaufmann (Heidelberg, 2006); mentre l’edizione con traduzione italiana e commento curata da Fabio Gasti (Milano, 2016) non comprende la revisione critica del testo. I due epitalami ( Rumul. 6 e 7) sono stati pubblicati da Angelo Luceri (Roma, 2007) e poi da Lavinia Galli Milić (Firenze, 2008). Un’edizione dell’ Orestis tragoedia si deve invece alle cure di Antonino Grillone (Bari, 2008).
In questa edizione, Zwierlein mette a frutto un cospicuo lavoro preliminare, pubblicato in un volume a sé stante ( Die Carmina profana des Dracontius. Prolegomena und kritischer Kommentar zur Editio Teubneriana, Berlin-Boston, 2017). Come è noto, la raccolta dei Romulea è tramandata unicamente dal Cod. Neapolitanus IV E 48 (XV secolo), in cui si trovano due stesure della Medea : una “di prima mano”, indicata come N; l’altra vergata da Giorgio Galbiato e denominata G da Zwierlein. Questi afferma che le due stesure derivino ex uno eodemque hyparchetypo; tuttavia Loriano Zurli ha dimostrato che G è copia di N ( A proposto di collazioni novecentesche. Il caso della Medea di Draconzio, RIFC 126, 1998, 364-377), come anche Kaufmann ammette, chiamandola Zweitversion ( ed. cit. 25). Zwierlein discute il lavoro di Zurli nei Prolegomena, 6-8.
L’ Orestis tragoedia è tramandata invece, in forma anonima (ma l’attribuzione a Draconzio si può considerare sicura), in due manoscritti: il Bernensis Bongarsianus 45 (B) del secolo IX e l’ Ambrosianus O 74 sup. (A) del secolo XV; una ventina di versi sono conservati anche in alcuni florilegi dei secoli XIII e XIV. B e A condividono molti passi corrotti: è evidente che derivano dal medesimo archetipo; tuttavia i filologi sono divisi in merito al loro rapporto. Se alcuni ritengono infatti che A sia copia di B, Zwierlein li considera piuttosto indipendenti, seguendo Bouquet e soprattutto Grillone, che argomenta ampiamente a riguardo ( ed. cit. 20-27).
Non è possibile, in questa sede, entrare nel merito delle singole scelte testuali operate da Zwierlein: scelte talvolta condivisibili, talaltra discutibili, ma quasi sempre interessanti. Inutile dire che la sua edizione appare complessivamente apprezzabile e che, anche quando non coglie nel segno, fornisce comunque utili spunti di riflessione. Su pochi passi intendo però soffermarmi, non soltanto per segnalare un motivato dissenso, ma soprattutto per tentare di stimolare il progresso del dibattito intorno alla constitutio textus.
I versi 65-71 della Medea compaiono in questo ordine nelle due stesure manoscritte e nelle edizioni precedenti a quella di Kaufmann:
…licet immemor extet 65
religionis amor timeant nec fulmen amantes,
te solam putet esse deam, te numen adoret,
te metuat metuenda deis, te iudicet unam,
quam mare quam tellus quam numina cuncta fatentur
imperio subiecta tuo per templa per aras, 70
esse uoluptatum dominam.
Tuttavia Zwierlein segue Kaufmann nella trasposizione del v. 70 dopo il v. 66, in modo da riferire il participio subiecta non ai numina del v. 69, ma alla medesima Medea quale soggetto sottinteso: si darebbe così un senso accettabile all’espressione per templa per aras (la donna, sottomessa al potere di Venere, ne frequenterà i templi e gli altari), che sarebbe invece incongruente se riferita agli altri dei. Un intervento così invasivo non mi sembra però giustificato, in quanto il passo manoscritto non è privo di senso. L’espressione in questione ( per con l’accusativo) può indicare l’oggetto su cui si pronuncia un giuramento (in questo caso, il riconoscimento del potere di Venere), come traduce perspicuamente Wolff: “toutes les divinités confessent par leurs temples, leurs autels, qu’elles sont soumises à ton pouvoir”. È vero che generalmente gli dei formulano i loro giuramenti in nome di divinità primordiali quali Stige, Gea, Urano, come sostiene Kaufmann; ma una consuetudine non può essere considerata una regola ineludibile, tanto più che qui non vi è un giuramento vero e proprio, ma una solenne ammissione. Una variazione su una convenzione religiosa e/o letteraria non suscita sorpresa, da parte di un poeta originale come Draconzio. In alternativa, l’espressione per templa per aras può avere valore locativo, come sostiene Fabio Gasti: “solo tu sei quella che il mare, la terra e ogni divinità, sottomessa al tuo volere, professa nei templi e agli altari come signora del piacere”.
Sempre nella Medea, vale la pena di soffermarsi su un passo considerato un locus desperatus dai principali editori, a partire da Vollmer. Si tratta dei versi 171-175, ricostruiti così da Zwierlein:
Horrida per Scythicas glacies stat barbara Colchis,
et iam bruma rigens Arctoi tristior axis
torpebat concreta gelu < ...……………
………………….. > et pinniger audax,
et magis accessu pueri plaga maesta serenat
aduentum testata dei. 175
Il poeta descrive l’arrivo di Cupido in Colchide. Un primo problema si pone all’inizio del v. 171: la lezione manoscritta nondum sembra creare una contraddizione col verso seguente (il v. 171 dice che non è ancora inverno, mentre il v. 172 parla di un freddo glaciale) ed è corretta, perciò, da Zwierlein in horrida. In realtà, gli opposti concetti espressi dai versi 171 e 172 non sono incompatibili: tra l’uno e l’altro occorre però un nesso avversativo; di qui la proposta (degna di attenzione) di Buecheler, che conserva nondum, ma sostituisce et con set all’inizio del v. 172. Tuttavia, a ben guardare, neppure questa garbata correzione è necessaria: la congiunzione et può avere infatti valore avversativo, come si riscontra finanche in autori classici quali Cicerone ( Cato 28, et uidetis annos) e Ovidio ( Trist. V, 12, 63, nec possum et cupio). Il passo manoscritto si può quindi interpretare così: “la barbara Colchide non è ancora coperta dai ghiacci invernali della Scizia e già il freddo rigido proveniente, più acuto, dal polo nord intorpidiva il paesaggio” (con tristior in posizione predicativa). Alla medesima bruma si riferisce anche l’espressione manoscritta coacta gelu, che però è metricamente incongruente: Vollmer la completa con la congiunzione enclitica: torpebatque coacta gelu, distinguendo due frasi e sottintendendo il verbo essere nella prima. D’altra parte, anche la correzione proposta da Buecheler e accolta da Zwierlein, concreta per coacta, è interessante: il significato del lemma è pressoché lo stesso, ma la frase resta una sola, più lunga e pesante.
Veniamo al problema più complesso, che si trova nel secondo emistichio del v. 173, et pinniger audax : “l’audace fanciullo alato” è il soggetto di un verbo scomparso; ciò ha spinto Vollmer a porre una crux desperationis e Kaufmann a indicare una lacuna, come fa anche Zwierlein. Forse si può trovare una soluzione. Infatti Buecheler ha intuito, secondo me giustamente, che il verbo mancante si nasconde nella corrotta congiunzione et; tuttavia la sua congettura, it, apprezzabile per il senso, implica uno iato in cesura, che non sarebbe un caso unico nella poesia tardoantica e neppure nella produzione del medesimo Draconzio (si può richiamare De laud. II, 60, dove però il fenomeno ricorre in sillaba chiusa), ma che sarebbe meglio evitare in occasione di una correzione. Per la stessa ragione, non accetterei neppure la congettura en, pur economica e paleograficamente ammissibile, formulata da Paola Paolucci nella sua recensione all’edizione di Kaufmann (ExClass 11, 2007, 497-514). Propongo allora di sostituire il verbo adfuit alla congiunzione et, in modo da guadagnare un senso compiuto (“sopraggiunse l’audace fanciullo alato, al cui arrivo quella triste terra si andava man mano rasserenando”) e da ripristinare una struttura metrica regolare.
Per il testo della Orestis tragoedia, Zwierlein accoglie con profitto alcune congetture proposte da Carlo Lucarini nella sua recensione all’edizione di Grillone (GIF 60, 2008, 313-318). Per esempio: v. 20, sanantque per sanare (già interpretato poco credibilmente come “infinitif de but”, dipendente dal precedente quatiunt, da Bouquet); v. 73, persoluis in luogo del persoluens di Buecheler (per colmare una breve lacuna dopo il prefisso per, nel manoscritto); v. 669, orta per quarta, in riferimento all’ablativo di tempo luce.
Tuttavia, Zwierlein si distacca da Lucarini in merito al v. 934, Pyrrhus erat raptor, uindex post bella rapinae (nell’autodifesa di Oreste), su cui dissento da entrambi. Lucarini riferisce uindex al medesimo Pirro, che sarebbe definito prima “rapitore” ( scil. di Ermione) e poi “difensore del diritto alla rapina”. Per inciso, non penso sussistano dubbi sul fatto che i bella siano la guerra di Troia, dopo la quale il figlio di Achille è stato ucciso da Oreste. L’interpretazione di Lucarini è impeccabile rispetto alla sintassi; ed è veramente difficile vedere Oreste nel uindex (come fanno altri filologi, compreso Grillone) nell’attuale assetto testuale. Eppure penso che il uindex sia proprio Oreste, che giustifica l’uccisione di Pirro come vendetta per il rapimento di Ermione. Un argomento, questo, perfettamente coerente con la strategia difensiva adottata da Oreste, che si presenta come vindice del padre per giustificare l’omicidio della madre. Peraltro, nel poemetto, Oreste è definito più volte uindex (v. 674, uenturus erit uindex; v. 690, uindice nato; v. 845, Inachius uindex); il termine si riferisce sempre a una vendetta di sangue e non ha mai il senso tecnico-giuridico di “difensore dei diritti”.
Per attribuire legittimamente a Oreste la rivendicazione di “vindice”, Zwierlein traspone il v. 934 tra i versi 924 e 925, rifacendosi a Schenkl, che ipotizzava uno spostamento ancora più invasivo (inserendo la sequenza 934, 925, 926 dopo il v. 916). Zwierlein lega così il secondo emistichio del v. 934 al primo del v. 925, iustior inuenior, producendo una frase chiara e coerente: “Pirro era un rapitore; io posso ben essere ritenuto innocente, quale vindice del rapimento”. Non occorre però ribadire la necessità di evitare, se possibile, interventi di questo tipo. Per di più, il secondo emistichio del v. 925 ( dum matrem uindicat ultor), strettamente legato al primo sul piano sintattico, forma col verso seguente un’unità di senso che non ha bisogno di essere completata o ampliata dal v. 934; quest’ultimo esprime anzi un concetto diverso, anche se va nella stessa direzione (la rivendicazione dell’innocenza di Oreste). Mi sembra quindi preferibile lasciare il v. 934 al suo posto, correggendo però il passo, in modo da riferire a Oreste il secondo emistichio e in particolare il termine uindex. Si potrebbe cercare un pronome come ego o ipse nascosto in un lemma corrotto, nel v. 934 o nel verso seguente: arguit unus iners quem comprobat ordo deorum. Ma forse è preferibile correggere il verbo arguit, in modo economico e paleograficamente plausibile, in argui et (con la congiunzione in funzione asseverativa): l’errore può essere stato indotto dalla sinalefe, oltre che dalla struttura della frase, in cui Pirro sembra di primo acchito l’unico soggetto. Una possibile interpretazione: “Pirro era un rapitore; dopo la guerra, io l’ho accusato, da solo, senza sotterfugi, da vindice del rapimento (in modo da vendicare il rapimento), con l’approvazione degli dei”.
L’edizione di Zwierlein si chiude con due utili indici, dei nomi e dei passi degli autori citati nell’apparato critico.