Se anche si volesse dubitare – come da più parti oggi avviene – che Aristotele abbia progettato di costruire una vera e propria teologia, certo per i teologi Aristotele è stato un punto di riferimento. Ne parla, in questo volume, il saggio di Pantelis Golitsis sui teologi bizantini. Quanto agli altri saggi, essi vertono piuttosto sull’insieme, eterogeneo in apparenza, ma in vari modi coerente, di ciò che in qualche modo può dirsi divino secondo il lessico di Aristotele – con speciale riferimento a una certa parte intellettiva dell’anima, e ai corpi celesti. Invero, i due temi, che pure hanno una parte definita nel volume, corrispondono assai parzialmente a ciò che oggi si intenderebbe per ‘teologia’. Secondo quanto spiegano i curatori, si tratta tuttavia di una sorta di passaggio dalla potenza all’atto: “Restituée au mouvement de la tradition, aux vicissitudes de ses relactures, la théologie aristotélicienne voit s’actualiser les potentialités qu’elle portait en son sein, et qu’Aristote lui-même, déjà, commençait d’explorer”. In questa prospettiva, si dirà che è allora proprio nello scarto significativo fra potenzialità e attualità che si radica la ricchezza delle riletture e delle analisi in sede di ricezione, cui il volume è dedicato, su un arco cronologico di quasi quindici secoli: “da Aristotele a Michele di Efeso”, non senza riferimenti a bizantini del XIV secolo come Gemistio Pletone e Trebisonda.
I saggi in effetti si situano variamente rispetto al tema proposto, e anche rispetto alle fonti in esame. Alcuni, infatti, si dichiarano più o meno apertamente collaterali. Così non tutti i saggi portano sulla ‘ricezione’ di Aristotele, ma nemmeno tutti su qualche forma di teologia: per esempio Jean-Joël Duhot, in apertura del suo saggio “La Révolution théologique stoïcienne”, dichiara che non c’è una teologia stoica propriamente intesa, e che comunque, nella misura in cui ve ne è una, essa non si muove nel solco della ricezione di quella aristotelica, anzi la ignora totalmente. Il saggio di Clara Auvray-Assayas conferma quanto si ritiene sovente, cioè che Cicerone, seppur conosceva argomenti aristotelici e il dialogo giovanile Περὶ φιλοσοφίας di Aristotele, ne ignorava però i trattati, in specie la Metafisica. Il saggio di Michalewski parla sì della ricezione di Aristotele, non in quanto teologo, però, bensì in quanto ‘ateo’ (il termine compare più volte) – in quanto cioè manca ad Aristotele una dottrina della provvidenza individuale.
I saggi, inoltre, si collocano in modi diversi di fronte alla difficoltà maggiore che attraversa un volume di questo tipo: distinguere ciò che precisamente dice Aristotele da ciò che gli fanno dire gli esegeti. Ciò induce alcuni autori a disamine testuali precise e a distinzioni sottili che denotano e richiedono aderenza ai testi; altri citano piuttosto letteratura secondaria preesistente.
Ricchissimo di riferimenti testuali è il saggio preliminare di Crubellier, che delinea, prima della ricezione, la stagione dei ‘prodromi’. Crubellier infatti illustra una relazione dialettica e un superamento nelle teorie di Metafisica Lambda di Aristotele rispetto a quelle delle Leggi e del Sofista di Platone; e magistralmente mostra una delle anime del volume: acribia di rimandi e documentazione puntuale. In specie Lambda 8, 1074b, può leggersi come unico residuo aristotelico del progetto di riforma religiosa che a tratti animava in Platone sia la Repubblica che le Leggi. Così, confrontando puntualmente i due, Crubellier restituisce elementi di un quadro teorico aristotelico originario in concorrenza (vincente) con le teorie accademiche dei principi (Speusippo e Senocrate, principalmente).
Baghdassarian paragona i capitoli Lambda 7 e Lambda 9 dedicati da Aristotele al problema dell’intelletto, sia umano che divino; li paragona, contro la proposta di trasposizione di Sandbach e ne trae la conclusione, condivisibile indubbiamente, che davvero Lambda 7 viene prima di Lambda 9; e che Lambda 9 costituisce da parte di Aristotele “la recezione di se stesso” (p. 35), poiché Aristotele ivi sviluppa i problemi sull’intelletto già presenti in Lambda 7. In tutto questo, Baghdassarian esamina dall’interno gli interrogativi di una interpretazione alquanto tradizionale, senza misurarsi sistematicamente con i problemi di testuali di questo libro controverso; così, per esempio, l’intelletto per Baghdassarian non è ‘in atto’ (dativo), ma ‘atto’ (nominativo) se non anzi ‘atto puro’ (sulla scia, invero, del parziale parallelo di De anima Γ.5. 430a18, letto dopo l’emendamento di Torstrik). In effetti la tradizione manoscritta (che su questo libro è stata molto studiata da più parti) si presta al frainteso, e in casi siffatti gioverebbe motivare analiticamente scelte critiche così determinanti : talora infatti la tradizione più antica sottintende lo iota sottoscritto, talora però lo esprime chiaramente, indicando con il dativo ἐνεργείᾳ il modo di essere del motore ovvero intelletto in atto – lettura nota anche ad Alessandro di Afrodisia. D’altronde, come sottolinea Enrico Berti di recente,1 dire che il principio aristotelico è ‘pensiero’ cioè atto dell’intellezione, presuppone che ci sia un pensiero senza il soggetto che pensa, e questo è un concetto non aristotelico, bensì neo-platonico.
David Lefebvre pone al centro il problema epistemologico del discorso aristotelico sul ‘divino’: il problema preoccupò gli allievi diretti di Aristotele, Teofrasto e Stratone: i quali, come egli mostra, lo ereditarono a loro volta dal maestro. In risposta, essi intesero e definirono l’ambito delle ricerche sui principi in senso soprattutto fisico e cosmologico, intendo la fisica in senso lato, come coestesa alla natura, inclusiva dunque della regione celeste, considerata divina. Così, sulla scorta di luoghi isolati ma significativi di Aristotele, Lefebvre mostra che anche per Teofrasto la conoscenza di ciò che è ‘divino’ riguarda in effetti in primis la regione dei principi cosmologicamente intesi. Tale regione, per Aristotele, è divina nel senso che è perenne e identica a sé, oggetto assiologicamente distinto, di una diversa filosofia, ovvero di una ‘teoria’ che si occupa dei corpi divini ovvero primi : tali si dicono in ragione della funzione di principio che esercitano rispetto al mutamento del cosmo sublunare. Il problema gnoseologico dunque è già ben marcato in Aristotele, che a più riprese, come Lefebvre ricorda, mostra di considerare un tale ambito di conoscenza come difficilmente attingibile. Nondimeno, la θεωρία dei corpi divini, ovvero primi ovvero del corpo ‘primo’, completa e integra virtualmente lo studio dei principi della fisica ( ibid.). Lefebvre dunque segue la fortuna nel primo Peripato di questa parte del sapere, trovando sul percorso occasione per una pregevole analisi del De igne di Teofrasto. Ne risulta un saggio stimolante. Se si volesse continuare nella stessa direzione, forse si otterrebbe un approccio efficace ai problemi che animano uno dei più importanti trattati di scuola aristotelica, come la cosiddetta Metafisica di Teofrasto (citato da Lefevbre in nota per significativi paralleli lessicali). Al problema epistemologico della teologia aristotelica in Alessandro di Afrodisia si dedica Guyomarc’h. La sua domanda di partenza è infatti: “comment le premier moteur, en tant que principe premier, peut-il faire l’objet d’une science?”. Nella Quaestio 1.1, Alessandro definisce il metodo per giungere a definire il primo principio dimostrazione per analisi (δεῖξις κατὰ ἀνάλυσιν). Questo uso di ἀνάλυσις è interessante, ma lessicalmente problematico, come spesso ho sottolineato, ed è assente nella corrispondente sezione del De principiis di Alessandro trasmesso in arabo. Appoggiandosi su luoghi paralleli in Simplicio e Filopono, Guyomarc’h interpreta il concetto alessandrista di ‘analisi’ come dimostrazione a partire, o dagli effetti, assunti come testimonianza (p. 168), o dai segni (p. 169 e n. 52). Lo scopo dello studio si capisce meglio se si tiene presente l’interrogativo già ricorrente in precedenti scritti di Guyomarc’h: quello della demarcazione, o assenza di demarcazione, in Alessandro, fra fisica e metafisica, come partizioni interne della filosofia teoretica. Le due questioni sono collegate, perché per Alessandro, specie secondo le testimonianze di Simplicio ( in Phys. 20.31-21,5, 49.16-23 Diels, non senza una parte di approvazione) e di Averroé ( Tafsir maba’da- at-tabi’at = Alessandro in Metafisica Lambda fr. 4a Freudenthal, non senza una parte di dissenso) alla metafisica come scienza dei principi spetta il compito di determinare i principi della fisica – il che lascia aperta, da risolvere, la questione epistemologica dei principi della metafisica. Il saggio di Riccardo Chiaradonna costituisce un avanzamento nello stato degli studi. Esso si addentra in territorio obbiettivamente fra i più difficili e oscuri quanto alla documentazione, quello del medioplatonismo di età imperiale. Egli perviene alla proposta di postdatare il Didaskalikon, il primo testo di scuola platonica che mostra chiare tracce dei libri della Metafisica e in specie del libro Lambda, e che nella storiografia corrente, in modo effettivamente opaco e discusso, è spesso avvicinata a quella di Attico e a un medioplatonismo nettamente antecedente la scuola di Afrodisia per Chiaradonna è persino possibile, se non anche probabile, che vada collocato dopo Alessandro e prima di Plotino. Questa conclusione ha l’enorme pregio, credo, di concordare con una datazione tarda, al tempo di Alessandro, dell’ ‘emergenza’ della Metafisica di Aristotele come collezione di trattati culminante nel libro Lambda. Fra le prime fonti non aristoteliche ma puntualmente aderenti, a tratti, al dettato dei testi di Aristotele, e della Metafisica in specie, spicca Plotino, il cui corpus costellato di riferimenti soprattutto a Metafisica Lambda, come già indicano gli indici degli editori. Dunque uno dei saggi più centrati sul tema della raccolta è sicuramente quello di Sylvain Roux, “Intellection et simplicité. La critique de Métaphysique Λ 9 dans le Traité 38 (VI 7) de Plotin”. Plotino assorbe e mutua da Aristotele Lambda 9 la nozione di intellezione di sé, ma proprio in coerenza e continuità con la discussione aristotelica, che ivi porta sulla possibilità o meno di attribuire un assoluto primato assiologico a un tale intelletto impegnato nel pensiero di sé, che Plotino assegna al Bene, platonicamente inteso (si pensa indubbiamente alla Repubblica), ma identificato con una nozione di ‘Uno’ originariamente platonica ma già parzialmente predisposta da Aristotele, seppure appiattita da quest’ultimo sulla nozione di Ente. Aristotele stesso identifica il principio come assolutamente semplice, e Plotino riprendendo questo argomento lo usa per superare l’ontologia aristotelica nel corso dell’ Enneade VI 7 (38).
Verte sulla relazione, ‘teologica’ in effetti, fra primo motore e sfere celesti il saggio multilingue di Elisa Coda sull’esegesi di Temistio. Vi si mostra nei dettagli, in accordo con altri studi di settori (inclusi i precedenti della stessa Coda) l’attitudine di Temistio ad armonizzare le opinioni di Aristotele e Platone, fondandosi però sull’esegesi di Alessandro, che peraltro andò perduta. L’eco non manca né in Averroé né in Tommaso di Aquino. Il saggio non ha solo il merito di porre diverse tradizioni a confronto ma anche quello di problematizzare, anche con la consulenza di Mauro Zonta, la costituzione di almeno uno dei testi trasmessi in ebraico e in latino.
Il saggio già menzionato di Pantelis Golitsis porta sulla recezione della teologia aristotelica presso i commentatori tardoantichi e bizantini, con al centro la causalità de motore immobile. L’alternativa fra causa finale e causa efficiente si poneva fin dal tempo di Alessandro, che l’aveva risolta non senza difficoltà, postulando una causalità finale e un desiderio di imitazione dell’immobile da parte del primo mobile. Golitsis però fa notare – ed è un punto di vista interessante, da tener presente in futuro – che il dilemma ha senso solo nella prospettiva dell’eternità dell’universo, non invece in una prospettiva creazionista quale quella che si fa strada fra i commentatori neoplatonici del VI secolo.
È naturale che un volume su tema così vasto registri delle assenze: manca ogni ricostruzione di insieme, sia di quella ‘teologia in potenza’ che sarebbe la teoria del libro Lambda congiunta alla noetica del De anima; sia dell’interpretazione gerarchica e teologizzante della Metafisica ad opera di Alessandro e della scuola di Afrodisia. Spicca per assenza anche la cosiddetta Teologia di Aristotele che prende forma in arabo ben prima dell’epoca di Michele di Efeso ed è oggetto di un grande progetto europeo.
Pregevole anche l’ index locorum generalmente accurato, cui molto contribuiscono soprattutto i più eruditi fra i saggi qui commentati. Esso può essere valorizzato come utile rassegna dei luoghi notevoli, aristotelici ma non solo, nei quali nozioni aristoteliche siano mobilitate in materia di teologia.
Notes
1. Enrico Berti, “Potenza e atto in Aristotele: concetti assoluti o relativi?” Aquinas LIX (2016), pp. 13-25; Silvia Fazzo, “Unmoved Mover as Pure Act or Unmoved Mover in Act? The Mystery of a Subscript Iota” in C. Horn (ed.), Metaphysics Lambda: New Essays (Boston/Berlin: De Gruyter, 2016), 181-205, ove si discute anche l’emendamento di Alfred Torstrik in De anima Γ.5. 430a18.