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Questo volume tratteggia un lungo e travagliato periodo storico-sociale e religioso, di profonda trasformazione, della vita delle comunità ebraiche (dalla caduta di Gerusalemme nel 586 a.C. alla conquista macedone nel 332 a.C.). Di fronte alla potenza dominante dell’impero, prima babilonese e poi persiano, ci si interroga sul come gestire la nuova condizione esistenziale, cercando di capire il senso degli accadimenti. A partire dal crollo delle istituzioni statali e cultuali (la monarchia, la città santa, il tempio) e dallo shock culturale per l’inserimento geografico in altri contesti sociali con tradizioni diverse, gli ebrei sono chiamati ad affrontare una crisi d’identità religiosa che coinvolge la natura, la potenza e la bontà di Dio. Pertanto, in seno agli esiliati, si sviluppa un’intensa attività di riflessione teologica che conduce, gradualmente, a un profondo riassetto e a una riformulazione della religione jahvista. Dopo tale periodo (intorno al 538 a.C.), col ritorno in Palestina, che sembrerebbe avvenuto a più riprese, si apre una nuova fase storica, contraddistinta dalla ricostruzione delle mura e del tempio di Gerusalemme, dalla restaurazione del culto ufficiale e dalla elaborazione di una serie di scritti che daranno avvio al processo di formazione del canone biblico.
La ripopolazione del territorio, ormai parte costitutiva della provincia imperiale achemenide, è seguita dal sorgere all’interno del variegato movimento giudaico di una questione vitale per la sua sopravvivenza come “corpo ancestrale”, cioè la continuità con il passato, una questione che coinvolge molteplici correnti di pensiero, ciascuna delle quali afferma di detenere la genuina interpretazione delle antiche tradizioni. Ciò sembra aver creato un clima favorevole al nascere di comunità settarie. Comunque, sotto il dominio persiano, con il ritorno dei běnê haggôlâ, il tempio diventa il fulcro e l’emblema dell’identità di gruppo, in cui emerge l’invocazione di Dio come creatore, similmente, e probabilmente in contrapposizione, ai culti degli déi babilonesi (Marduk) e zoroastriani (Ahura Mazda), dei quali viene ripreso il linguaggio cosmologico e protologico.
Il testo in esame raccoglie quindici saggi dello stesso autore, già pubblicati, tranne tre in parte inediti, che formano un «puzzle» storico in cui si espone la mancanza di certezza su alcuni dati fondamentali, cosicché spesso si prosegue per inferenza alla luce dei riscontri letterari e delle scarse prove archeologiche a disposizione. Alcuni esempi riguardano: a) la religione dei deportati e di quelli che erano rimasti in patria; b) la fonte della ricchezza dei rimpatriati nel periodo persiano; c) la data reale della ricostruzione del Tempio e il suo legame con il santuario di Bethel; d) il ritorno degli esiliati, se avvenuto sotto Ciro o Dario, o entrambi, e se sia stato dunque scaglionato nel tempo; e) la redistribuzione della terra agli esiliati; f) le origini e la formazione di gruppi settari.
Degli articoli di Joseph Blenkinsopp qui pubblicati poniamo in evidenza alcuni elementi significativi. Il primo è correlato a Bethel, sito di quel santuario biblico, legato alla narrativa di Giacobbe (Gen 28 e 35), che divenne tempio reale sotto Geroboamo I, il quale, deliberatamente, lo stabilì come rivale del tempio di Gerusalemme (1Re 12,27-28), con un diverso calendario liturgico e sacerdoti non leviti, definiti kōhănê habbāmôt, «sacerdoti dei luoghi alti» (1Re 12,31-33). Secondo l’autore, il punto importante da porre in evidenza è che esso sia sopravvissuto alla conquista assira del 722 a.C. A tal proposito, egli afferma: «After the deportations and the arrival of foreign immigrants the Assyrians reactivated the Bethel sanctuary so that the new population might know and observe “the law of the god of the land” (2 Kgs 17:24–28). We may therefore accept that it continued in existence without interruption as a central place of worship, serving the remaining indigenous population and the mixed population brought in after the fall of Samaria and on subsequent occasions (Ezra 4:2,10 and Isa 7:8b)» (pp. 49-50).
Un conseguente aspetto che lo studioso affronta è l’identità della divinità venerata a Bethel. Non c’è dubbio che un dio chiamato bêt-’ēl (di cui si ha riscontro nell’area semitica nord-occidentale, nel trattato di Esarhaddon del 675 a.C.) era oggetto di culto nel regno d’Israele, nella diaspora, e forse anche in Giuda (Ger 48,13; 1Sam 10,3; Am 3,14; 5,5). Un fattore decisivo per il periodo di cui ci occupiamo è l’esistenza di un culto del dio Bethel nell’insediamento ebraico sull’isola di Elefantina alla prima cataratta del Nilo, e tra i siriani-aramei di Siene sulla sponda orientale di fronte all’isola. Nel tempio di Elefantina, i giudei giuravano «nel nome del dio Bethel» (AP 7), così come le offerte erano fatte per Anath-Bethel e Eshem-Bethel, diverse ipostasi della stessa divinità (AP 22).
Durante il periodo esilico, il sito di Bethel, parte del territorio beniaminita, venne con molta probabilità riattivato come un importante centro di culto. Infatti, la distruzione del tempio di Gerusalemme e l’eliminazione dei capi dei sacerdoti per scoraggiare ogni ulteriore attività cultuale, compresa la contaminazione dell’altare a causa di quelli uccisi in loco, resero il tempio ritualmente inaccessibile. Quindi, c’era la necessità per i non-deportati di un posto di culto alternativo, paragonabile in qualche modo alla situazione successiva alla caduta della Samaria nel 722. L’autore, dunque, ipotizza ragionevolmente, fornendo altre prove a sostegno, che il vecchio santuario di Bethel abbia ottenuto un nuovo impulso di vita, in virtù dello status privilegiato della regione di Beniamino e della vicinanza di Bethel al centro amministrativo di Mizpah; da qui la giustapposizione di Mizpah e Bethel e l’ostilità tra Giuda e Beniamino (Gdc 20-21). Questo contribuirebbe anche a spiegare l’ostilità endemica della popolazione samaritana al ristabilimento di un centro politico e religioso a Gerusalemme durante il primo periodo achemenide (pp. 54-56).
Se questa ricostruzione della situazione cultuale durante l’interim babilonese è sostenibile, sarebbe interessante sapere chi erano i sacerdoti che avevano servito al santuario di Mizpah-Bethel. Un indizio è l’informazione che Finees, figlio di Eleazaro e nipote di Aronne, prestava servizio all’arca nel tempio di Bethel durante la guerra tribale contro Beniamino (Gdc 20,27-28). Questa nota è coerente con l’associazione di Aronne quale “eponimo” dei běnê’ ahăron di Bethel. Che la connessione possa essere dedotta dai paralleli tra l’episodio del vitello d’oro (Es 32), in cui Aronne svolge il ruolo-guida, e l’istituzione cultuale di Geroboamo I a Bethel (1Re 12) è da tempo riconosciuto e non sembra richiedere un’ulteriore elaborazione. In particolare, è da sottolineare che nel Deuteronomio la denominazione standard “sacerdoti leviti” (hakkōhănîm halěviyyîm) sembra polemica, vista la nota che i sacerdoti nominati a Bethel da Geroboamo erano non leviti (1Re 12,31). Se si accetta che il Deuteronomio e la storia correlata datano nella loro forma definitiva al periodo neo-babilonese (attualmente questa è opinio communis), la centralizzazione molto discussa dell’attività cultuale a Gerusalemme, ripetuta in modo ridondante nella sezione della legge del libro (capp. 12 e 16), sarebbe coerente con la situazione esistente in quel momento. Lo stesso si può dire per il rifiuto senza compromessi dei culti non-jahvisti e per l’opposizione alle relative pratiche tra gli abitanti indigeni (Deut 7,1-6; 9,15-21; 12,1- 4.29-31). In definitiva, l’autore sostiene che le diverse linee d’indagine convergono su una forte probabilità: che durante la maggior parte o tutto il periodo tra la distruzione del tempio di Gerusalemme e la sua ricostruzione, Bethel servì come santuario alternativo, imperialmente sponsorizzato, associato al centro amministrativo di Mizpah; e che la posizione privilegiata di Bethel ha messo i sacerdoti, che sostenevano di discendere da Aronne e che esercitavano in quel luogo le loro funzioni, in seria e indiscutibile contesa per la supremazia cultuale dopo la restaurazione di Gerusalemme nel primo periodo persiano (pp. 58-60 ).
Un’altra importante questione storica inerisce il rapporto tempio-società nella Giudea achemenide. Dopo aver chiarito la non plausibilità della cosiddetta teoria Bürger-Tempel-Gemeinde, proposta da Weinberg,1 Blenkinsopp sostiene che l’autorità sovrana apparteneva al governatore nominato dai persiani e non al sacerdozio del tempio sovvenzionato dalle autorità imperiali. Infatti Neemia era il governatore della provincia, non il leader di una comunità di cittadini che ruotava attorno al tempio; al contrario, egli ha speso molta energia per avere il controllo del tempio, del suo personale e delle sue considerevoli risorse. Il tempio, pur possedendo proprietà terriere, non ha mai rivendicato la proprietà di tutta la terra giudaica, come avrebbe richiesto l’ipotesi di Weinberg. È da sottolineare che i běnê haggôlâ, cioè il gruppo dominante di origine diasporica era un’entità ben organizzata che aveva potere decisionale sul tempio e le sue liturgie (Esd 4,1-5; cf. 8,35), sulle condizioni richieste per appartenere ad essa (Esd 6,19-22) e sulla regolamentazione del matrimonio dei suoi membri (Esd 9-10). Significativamente, ciò è presente solo nel materiale di Esdra ed è assente nella narrazione in prima persona di Neemia che è contemporaneo o vicino agli eventi descritti. Inoltre, l’autore afferma che alcune delle più importanti caratteristiche della società giudaica nel periodo achemenide replicano le caratteristiche di vita nella diaspora, e pertanto è ragionevole concludere che molti coloni giudei condividevano le conseguenze del boom economico. Tra l’altro, le minoranze etniche furono autorizzate a mantenere le loro identità distinte, principalmente per ragioni amministrative e fiscali piuttosto che umanitarie. È possibile che la minoranza etnica giudaica deportata a Babilonia, così come i giudei di Elefantina, avesse un proprio tempio. In realtà sembra sia stato costruito in un luogo chiamato “Casiphià” sotto la reggenza di un certo Iddo (un sacerdote?), dove Esdra era in grado di reclutare personale addetto al culto (Esd 8,15-20). Comunque, deve esserci stata qualche forma organizzata di culto e un quadro istituzionale per preservare le tradizioni della comunità in esilio. Ci sono quindi ragioni per pensare che alcuni aspetti della situazione dei giudei sotto gli achemenidi possa riprodurre accordi sociali già ottenuti dalla minoranza etnica giudaica nel sud della Mesopotamia. I giudeo-babilonesi riuscirono anche a raggiungere due obiettivi essenziali: a) il possesso della terra confiscata e la sua redistribuzione dopo il ritorno in patria; b) il controllo del tempio e delle sue funzioni liturgiche. Secondo l’autore, tale situazione esprime il fondamento su cui è stata costruita l’ideologia dominante descritta in Esdra-Neemia e che, a sua volta, si riflette nel libro delle Cronache (pp. 81-83).
Il volume è di alto livello scientifico. L’esposizione è chiara e condotta con un metodo logico-critico rigoroso. Sarebbe stata utile una conclusione generale che potesse armonizzare e sintetizzare lo sviluppo argomentativo di tutti i saggi, alcuni dei quali sono posteriori all’articolo finale, definito «An Exercise in Virtual History».
Table of Contents
I. The Theological Politics of Deutero-Isaiah (p. 1)
II. Deutero-Isaiah and the Creator God: Yahweh, Ahuramazda, Marduk (p. 15)
III. Judaeans, Jews, Children of Abraham (p. 30)
IV. Bethel in the Neo-Babylonian and early Achaemenid period (p. 48)
V. Temple and Society in Achaemenid Judah (p. 61)
VI. The Intellectual World of Judaism in the Pre-Hellenistic Period (p. 84)
VII. Was the Pentateuch the constitution of the Jewish ethnos in the Persian period? (p. 101)
VIII. Footnotes to the rescript of Artaxerxes in Ezra 7:11–26 (p. 119)
IX. The Nehemiah Autobiographical Memoir (p. 132)
X. Ideology and Utopia in the book of Chronicles (p. 144)
XI. The social context of the “Outsider Woman” in Proverbs 1–9 (p. 159)
XII. Social Roles of Prophets in Early Achaemenid Judah (p. 178)
XIII. The sectarian element in early Judaism (p. 192)
XIV. Jewish Sectarianism from Ezra to the Hasidim (p. 207)
XV. A Case of Benign Imperial Neglect and its Consequences: An Exercise in Virtual History (p. 221)
Notes
1. Per i riferimenti bibliografici su Joel Weinberg, si veda p. 75, nota 35.