A fronte di un banale e angusto trend di vedere in Apuleio solo gli aspetti che mirano al (l)usum lectoris, merita apprezzamento l’interesse rivolto anche alla filosofia di Apuleio (ricordo lo studio stimolante di R. Fletcher, BMCR 2015.06.03 e quello di C. Moreschini, Apuleius and the Metamorphosis of Platonism, Turnhout, Brepols 2015). Segnaliamo, quindi, il libro di J. Stover e ricordiamo che a Giuseppina Magnaldi è stato affidato il difficile e onorevole compito di una nuova edizione dei Philosophica per gli Oxford Classical Texts.
Raymond Klibansky aveva scoperto nel manoscritto Vaticanus Reginensis Latinus 1572 (secolo XIII), siglato R dagli ultimi editori dei Philosophica di Apuleio (utilizzato sporadicamente da Beaujeu, più consistentemente da Moreschini), un testo privo di titolo e di autore, che è un riassunto in latino delle dottrine contenute nei dialoghi di Platone. Klibansky ne aveva dato una prima notizia nel 1949 e successivamente nel 1970, entrambe le volte molto velocemente, mentre si era soffermato un poco più a lungo su quel testo in uno studio successivo ( Die Handschriften der philosophischen Werke des Apuleius. Ein Beitrag zur Überlieferungsgeschichte, Göttingen 1993, pp. 110-111 e p. 158). R è codex unicus per quel testo; un altro manoscritto, il Marcianus lat. VI.31 (3036) (così Stover: VI. 81 secondo Klibansky, che lo ha scoperto e segnalato nello studio sulle Handschriften) è verisimilmente un suo apografo. Stando a quanto riferisce Klibansky, questo testo non ha titolo, per cui egli propone (p. 110) < Summarium librorum Platonis >, mentre Stover (p. 96) introduce l’opera come Apulei Madaurensis De Platonis pluribus libris compendiosa expositio. Si tratta di una sua integrazione? Seguendo Stover, noi parleremo, quindi, di quest’opera, come di Expositio. Essa era stata attribuita ad Apuleio da Klibansky, perché si trova in un manoscritto contenente tutti i Philosophica di Apuleio (compreso l’ Asclepius) ed era sembrato probabile non suggerirne una attribuzione diversa. Ma fin da ora noi pensiamo che la presenza di un testo anonimo tra le opere di Apuleio, e per giunta in un solo manoscritto, non sia prova stringente di autenticità apuleiana. Non pubblicata da Beaujeu e Moreschini, che non la consideravano apuleiana, l’ Expositio ora viene edita da Justin Stover, con traduzione e note di commento. Una prima parte del volume contiene la dimostrazione che l’ Expositio sia affettivamente di Apuleio (pp. 3-88), e la seconda il testo (pp. 89-182). Seguono due appendici.
Poiché un manoscritto di Apuleio (R, appunto) possiede quest’opera e la attribuisce ad Apuleio, Stover riesamina la posizione di R all’interno della tradizione dei Philosophica, e, anche in questo seguendo Klibansky, ritiene che abbia torto Moreschini a considerare il testo di R una recensione dotta delle due famiglie più importanti dei manoscritti, eseguita nel XIII secolo; Stover non ha letto, tuttavia, l’articolo di Moreschini dedicato a questo problema, anche se indicato a p. V della sua edizione (Stutgardiae et Lipsiae 1991) (l’articolo si trova in: Dall’Asclepius al Crater Hermetis. Studi sull’ermetismo latino tardo-antico e rinascimentale, Pisa, 1985, pp. 269-288, la parte dedicata a R a pp. 276-286), ma ripete le conclusioni che Klibansky aveva brevemente enunciato, ma non dimostrato ( Die Handschriften, p. 111), vale a dire, che R risale recta via all’archetipo, scritto probabilmente nel VI secolo. Dallo studio di Stover risulta che Moreschini ha omesso alcune volte di citare, di R, “its omission of Greek”, ma questo è avvenuto perché omissioni di parole greche nei manoscritti latini hanno un siginificato limitato per lo stemma, come Stover certamente sa; Moreschini ha omesso anche “almost all of its incorrect readings”: questo è dovuto al fatto che era abitudine delle edizioni critiche nei decenni passati non citare solitamente le lectiones singulares (soprattutto se manifestamente errate, come quelle di Deo Socr. 7,137 e 10,143 – cfr. Stover p. 16-17) (la lezione di R in Deo Socr. 6,133 non è certo migliore delle altre: homines invece di terricolas !).
Lo stemma dei Philosophica di Apuleio, quindi, sarebbe non bipartito, ma tripartito (p. 15), come piace ad alcuni brillanti studiosi, anche non di Apuleio. Questo è spiegato nel capitolo 4 (storia della tradizione manoscritta della Expositio insieme a quella dei Philosophica di Apuleio, compreso l’ Asclepius (pp. 45-59)).
L’edizione è buona (e, credo, anche la traduzione inglese). Il testo, è in cattive condizioni, e non è facile migliorarlo, anche perché è tramandato da un codex unicus. Stover ha lavorato bene: ha corretto in modo quasi sempre convincente gli errori e ha supplito con intelligenza alle lacune; ha esposto sani criteri editoriali nella introduzione alla sua edizione (pp. 89-93). Ha aggiunto i numeri dei capitoli e, poiché l’ Expositio contiene un sunto abbreviato dei dialoghi platonici, ha avuto la capacità e la pazienza di trovare l’originale greco corrispondente al testo latino. Possiamo dire, quindi, che Stover mette a nostra disposizione un testo nuovo, che vale la pena conoscere, e che si aggiunge alla letteratura platonica latina dell’età imperiale. Si tratta di un breve riassunto delle opere di Platone, lacunoso all’inizio. Esso è diviso (cosa molto interessante) dall’autore stesso (anonimo) in due parti: il capitolo 14 distingue i dialoghi che contengono la filosofia socratica, che è anche quella vera e che si trova soprattutto nei dialoghi precedentemente esaminati. Il primo è la Repubblica, anche se non sappiamo se altri dialoghi venivano prima di esso; la Repubblica manca dell’inizio, perché l’Expositio è lacunosa all’inizio, come si è detto. Dopo il capitolo 14 vengono Eutifrone, Menesseno, Apologia, Critone, Fedone. Nei dialoghi successivi, invece, afferma l’autore anonimo, “even though the doctrines are placed under the names of other speakers who argue in different ways, a consensus is nonetheless understood; they are a mixture of the precepts of Pythagoras and Parmenides. But the thirteen book of the Laws seem to be conducted under the persona of Plato himself”. Segue la esposizione di Leggi, tredicesimo libro delle Leggi (cioè Epinomide), Epistole, Parmenide, Sofista, Politico, Timeo, Atlantico (Crizia).
Le note di Stover all’ Expositio seguono soprattutto tre criteri: trovare i passi paralleli a) con le opere filosofiche di Apuleio (che Klibansky e Stover ritengono essere l’autore di questa Expositio); b) con i testi stoici (che, come si sa, erano frequenti nel medioplatonismo); c) con la filosofia romana (Lucrezio, Cicerone, Seneca) e con la vita romana: l’ Expositio, infatti, romanizza l’originale platonico, così come gli altri filosofi romani avevano fatto nei confronti delle opere greche. Questi loci paralleli che servono a dimostrare la romanizzazione della dottrina platonica, sono senza dubbio molto convincenti; quelli con Apuleio, invece, ci sembrano alquanto generici, perché possono essere condotti ad un comune milieu medioplatonico, e non precisamente ad Apuleio. Troppo limitata, infine, ci sembra la conoscenza del platonismo di Apuleio, per il quale Stover è anche carente nella bibliografia, come purtroppo è (cattiva) abitudine di molti studi recenti: si trovano accenni a Finamore e a Beaujeu, silenzio sugli altri studiosi (Dörrie, Baltes e lo stesso Dillon, quasi tutti gli studiosi francesi; degli italiani, solamente Bonazzi, e nemmeno specifico su Apuleio).
Le note insistono molto sul lessico – e con questo giungiamo a considerare la prima parte del lavoro, che vuole dimostrare l’autenticità apuleiana della Expositio. Queste osservazioni sul lessico, quindi, debbono essere esaminate insieme alle discussioni linguistiche contenute nel capitolo 3 (“By Apuleius?”), che vogliono dimostrare tale autenticità. Il cap. 3 contiene varie sezioni, dedicate a questo assunto: “Word Choice and Usage; Alioquin, enimvero, and nec non” (pp. 34-38), “Cursus” (pp. 42-44); Stover ci scusi se non abbiamo compreso, a causa della nostra età, la “Computational Analysis” (pp. 38-42).
Nel complesso, la attribuzione della Expositio ad Apuleio in base alle somiglianze lessicali non ci ha convinto. Le somiglianze lessicali possono dimostrare l’autenticità apuleiana solo se parole o frasi si trovano soltanto in Apuleio e nell’autore dell’ Expositio. L’esistenza, dimostrata sulla base dei lessici, nell Expositio di parole tipiche del latino dell’età imperiale, usate, ad esempio, da Columella in poi, non dimostra l’autenticità, perché sulla base di tale lessico ‘tardo’ si può collocare l’ Expositio in qualunque momento dei sei secoli della letteratura dell’impero – per assurdo, anche prima di Apuleio, o, eventualmente, anche dopo di lui, tanto più che lo stesso Stover trova che alcune parole sono diffuse nei testi cristiani.
Gli “Intertexts” che sono inseriti nel cap. 3 (pp. 31-34) hanno a che fare soprattutto con le dottrine, non con il lessico (i nn. 1-3 mostrano una certa somiglianza con Apuleio, ma si tratta di dottrine abbastanza diffuse nel platonismo latino; i nn. 4 e 5 non sembrano essere vicini ad Apuleio, il quale discute problemi più complessi – ma una discussione più approfondita non ci è possibile in questa recensione).
Mi pare molto istruttivo, invece, tutto il capitolo 2, che riguarda il genere letterario, il quale è indipendente dalla autenticità apuleiana. Stover ci spiega con molta informazione le caratteristiche delle epitomi di dottrine platoniche (pp. 19-22): “Taxonomy”, “Selection”, “Other Arrangements” (pp. 23-30). Così pure è valido il cap. 5: “Audience and Purpose”. Molto si può imparare anche dal confronto con il compendio di Al-Farabi (pp. 65-66), ripreso in appendice ad opera di Coleman Connelly (pp. 183-197).
La conclusione (p. 62) è sicuramente giusta: “the Expositio is neither a doxography nor an abbreviatio; it is an index”. Ma non capisco il Cap. 5 (pp. 73-74): “Two versions: Expositio and De Platone III ”. L’ Expositio, egli dice (p. 74), contenendo “Apuleius’ working notes from his study of Plato” è anteriore al De Platone, ma poi, in un modo che è, almeno, oscuro, improvvisamente l’ Expositio diventa De Platone III nella ‘transmission’ del De Platone (“As De Platone III, and therefore posterior (corsivo mio) to I and II”), e così è intitolata a p. 96.
Anche su questa base che vorremmo riconsiderare l’autenticità apuleiana dell’opera. Che interesse aveva Apuleio, autore di due libri (il De Platone) sulla fisica e sull’etica di Platone, a scrivere un indice delle opere platoniche? Esso è scarno e spesso difficilmente concorda con le altre opere filosofiche di Apuleio stesso. Inoltre, gran parte delle opere platoniche riassunte dalla Expositio non sono conosciute dalle opere autentiche di Apuleio, il quale conosce il Timeo (il dialogo più importante, come era d’uso per i medioplatonici) per gran parte del primo libro del De Platone; nel secondo libro si serve soprattutto del Gorgia, del Liside e di altre opere indicate negli apparatus fontiun delle edizioni critiche; nel De deo Socratis si basa sul Simposio e sull’Epinomide; nell’Apologia cita il Timeo (ancora) e il dodicesimo libro delle Leggi. Insomma, la conoscenza di Platone da parte di Apuleio è ben definita, ed esclude gran parte delle opere contenute nella Expositio —e questo vale anche per i medioplatonici greci.
Lo studio sulla tradizione filosofica a cui l’ Expositio attinge sottolinea opportunamente, come già abbiamo detto a proposito delle note di commento, l’affinità con la tradizione filosofica latina (pp. 80-85), che servirebbe a confermare l’autenticità apuleiana dell’opera, ma non prende in considerazione il quadro complessivo del medioplatonismo, per il quale si limita a citare qualche titolo, e senza averne una ricostruzione storica globale. Per questo motivo la trattazione su “Plato, Apuleius, and the Stoics” (pp. 85-87) è piuttosto generica, anche se ha ragione Stover a respingere l’ipotesi di Klibansky, che l’ Expositio sia una traduzione dal greco influenzata dallo stoicismo. Altrettanto rapido è l’inquadramento dell’opera nell’ambiente del secondo secolo (pp. 66-69), con il rischio di ripetere alcune cose già studiate e conosciute (pp. 69-73). L’opera è molto erudita; Stover ha una notevole conoscenza dei problemi della trasmissione dei testi, e degli ambienti colti del Medio Evo (pp. 55-59); anche se è un po’ troppo rapido nelle sue affermazioni, e ritiene di poter affermare delle cose che abbisognano, invece, ancora di dimostrazione (es. p. 53).
A nostro parere, l’ Expositio è un’opera che assomiglia—ma con le debite differenze—ad un accessus a Platone, come quello pubblicato da Garfagnini ( Studi Medievali XVII,1,1976, pp. 307-362). Certo essa non è così tarda come quell’accessus, ma può risalire ad un ambiente medioplatonico di occidente, ancora non influenzato dal neoplatonismo (un’ipotesi: prima di Macrobio; altra ipotesi: un’opera tarda, ma antiquata, come quella di Calcidio).
In conclusione, il merito di Justin Stover consiste soprattutto nell’avere edito in modo affidabile un testo rimasto finora sconosciuto (e sappiamo quanto sia difficile lavorare su di un testo nuvo), anche se l’attribuzione ad Apuleio non ci sembra così sicura come sembra a lui. Il lavoro, anche se discutibile per alcuni aspetti e francamente insufficiente nella informazione relativa al medioplatonismo e ai suoi precedenti (quali erano stati studiati da molti studiosi del secolo XX), rimane però interessante e stimolante.