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È un libro che, trattando di filologia moderna (ultimi due secoli e mezzo), parla molto tedesco. Esso, pur affrontando argomenti noti agli iniziati, ha il merito di rielaborare la materia, di selezionare e riproporre brani, analisi e commenti secondo la soggettività (in senso positivo), l’esperienza, la dottrina e lo stile dei singoli studiosi coinvolti, contribuendo a rivivificare il metodo scientifico. Pertanto il volume va accolto con favore, direi soprattutto come strumento didattico, per certa chiarezza espressiva che lo uniforma e per l’ordinata struttura generale. Non mancano nei vari capitoli ragguagli biografici sui protagonisti delle vicende discusse (per esempio notizie su carriere universitarie): il che aiuta ad inquadrare meglio l’epifenomeno culturale soprattutto ad uso del potenziale lettore meno esperto.
Per tornare al germanocentrismo di gran parte del volume, occorre anzitutto dire che se la filologia può essere ancora oggi intesa come una scienza storica (unitaria forse ormai non più), lo si deve a intelletti come Wolf, maestro di Boeckh, con una linea di pensiero che conduce almeno fino al Wilamowitz (come diremo anche più avanti). L’apertura del testo carocciano, dopo una breve introduzione da parte di Lanza—Ugolini, dove non manca un richiamo alle origini della filologia, alla biblioteca di Alessandria (rispetto alla quale è però sempre difficile affermare, in base alle fonti, chi realmente la fondasse), è tuttavia anglosassone ed è dedicata ad un pioniere quale Richard Bentley [1662-1742] (contributo di Francesco Lupi). Bentley fu, com’è noto, uomo soprattutto della ragione: di qui la sua ben nota indole congetturale (connessa con il disvelamento della falsa epistolografia), risparmiata però ai testi sacri. Perché filologia sacra e profana in lui ottimamente coesistettero (quando ancora questi due mondi testuali non erano separati). Egli si occupò tra le altre cose (ne tralascio ovviamente alcune) anche di Callimaco e gli sono stati riconosciuti nel campo sia grande intuito che anche, com’era naturale, disciplina e metodo (rinvio al giudizio di un callimacheo quale Lehnus, citato da Lupi a p. 27). Per la latinità, di Bentley fecero epoca l’Orazio, il Terenzio e il Manilio, su cui pure il contributo di Lupi richiama l’attenzione.
Cap. 5 (Sotera Fornaro). L’argomento del capitolo è il discusso metodo del Lachmann (1793-1851). Che la critica testuale non sia nata ex abrupto con lo studioso di Braunschweig è risaputo. La scienza, qualsiasi scienza è sempre in continuo perfezionamento. Non c’è quindi da meravigliarsi se possiamo risalire fino all’Umanesimo, come fece Sebastiano Timpanaro (1923-2000) nel suo noto libro del 1963. Gli umanisti riportarono in vita i codici degli autori classici e dovettero giocoforza inventarsi anche un metodo filologico, cioè di fatto emendarli, adottando criteri più o meno moderni o spicci, talora individuando presunti codices vetustissimi genitori o progenitori, perduti o meno, di testimoni esistenti. Detto questo, non demolirei oltremisura il contributo teorico ed editoriale di Lachmann. Né definirei così brillante Jacob Bernays (1824-1881), il quale almeno in un caso, a proposito della tradizione manoscritta di Lucrezio, di cui la Fornaro scrive, interpreta certamente in modo maldestro la prosa umanistica di Giovan Battista Pio (edizione lucreziana del 1511) e confonde il numero di testimoni che il dotto bolognese avrebbe adoperato per il suo testo del De rerum natura. Non ho lo spazio per entrare nei particolari, ma Lachmann nel suo commento lucreziano dimostra (ovviamente) molto più acume e dottrina rispetto a Bernays nell’interpretazione del testo del Pio. (Vedi G. Solaro, Un’edizione di Lucrezio nella curia romana, « Technai » 6, 2015, pp. 21-22). I giudizi di Timpanaro e Momigliano appaiono pertanto troppo drastici. Rimane vero in generale che come per tutte le scoperte scientifiche è sempre bene andare il più possibile a ritroso: così anche per la filologia ed il metodo genealogico. Ma questo non significa ridimensionare a dismisura il singolo progresso della conoscenza: altrimenti per assurdo dovremmo arrivare a sostenere che anche la Textkritik di Maas (1927) era in nuce già in Poliziano!
Cap. 6. Forse oggigiorno tra accademici, all’interno della stessa nazione, non ci si accuserebbe più senza mezzi termini di ignorare i fondamenti, le basi di una disciplina. Penso a Hermann (1772-1848), il quale trovava gravi difetti di greco nell’epigrafia boeckhiana. Fu lotta tra titani. Fu lotta di scuole e di concezioni filologiche. Io non penso naturalmente che il formalismo hermanniano sia morto: tutt’altro. Quello di Boeckh (1785-1867) era fondamentalmente un sogno e lo sapeva lui stesso quando menzionava l’universale e filologo Eratostene, detto dagli stessi antichi il Beta, perché, per sapere tutto, non sapeva forse abbastanza. Ugolini ripercorre alle pp. 157segg. le tappe di questa celeberrima contesa. Hermann era un metricologo (ma anche su questo terreno i due vennero a lite) ed un noto editore di testi (tragici, Aristofane, Pindaro, inni omerici, ecc.) e la sua prospettiva, forse anche per questo, era ben diversa da quella dell’avversario. Ma era anche uno studioso dotato di un certo senso della misura: l’universalismo boeckhiano non poteva andargli a genio, il gusto enciclopedico, paradossalmente eratostenico, dell’allievo di Wolf. Boeckh metteva insieme filologia, filosofia e storia, teorizzava in un modo troppo complesso (a lezione e in altre occasioni) l’unità assoluta della ricerca riguardante i popoli antichi: concetti troppo eterei ed estesi per il testuale e terreno Hermann. La filologia non solo come critica testuale ma come cognitio historica et philosopha [sic!] di tutto il mondo antico! Hermann per formazione di tipo linguistico proprio non poteva concordare.
Ugolini dà spazio nel medesimo capitolo anche alla celebre polemica sulle Eumenidi eschilee (Hermann contro Karl Otfried Müller, 1797-1840, allievo di Boeckh). L’edizione delle Eumenidi curata da Müller è del 1833. Ivi l’allievo di Boeckh attaccava allusivamente Hermann, editore nel 1799 dello stesso testo, e la sua erudizione, la tendenza a commentare cioè analiticamente un testo. Nella sua edizione Müller si occupava innovativamente (boeckhianamente) di diritto e di religione, ma Hermann senza entrare nel merito replicò scrivendo che in quella edizione c’erano cose inventate. Ancora una volta erano in contrapposizione il metodo della storia nella sua complessità fenomenologica e quello delle parole e della mera letteratura.
Tralascio il filologo-filosofo forse per antonomasia della cultura tedesca dell’Ottocento (Friedrich Nietzsche, allievo di Ritschl, professore di filologia classica a Basilea, morto a Weimar nel 1900: il capitolo 7 tratta della notissima polemica col Wilamowitz per la geniale quanto opinabile La nascita della tragedia) e addivengo al successivo capitolo 8, dedicato al princeps philologorum e al suo concetto di filologia classica come totalità. Il Wilamowitz non può tuttavia essere considerato, occorre chiarirlo, il primus inventor di tale concetto. Ugolini nelle prime battute evoca il famoso esordio della Geschichte der Philologie (1921), dove questa visione d’insieme è poeticamente, quasi romanticamente sancita. Ugolini pare ad un certo punto spezzare il legame tra la concezione del Wilamowitz e la totius antiquitatis cognitio, espressione di boeckhiana memoria. Penso che il principe si sentisse in realtà a suo modo erede di quella tradizione, magari con meno afflato enciclopedico-erudito. Se il Boeckh usa in alcuni interventi (1822) il latino cultus, riferito proprio all’unità della vita degli antichi, Wilamowitz scrive specularmente Leben. Questo rapporto totalizzante, inerente agli studi classici, scienza/vita era pertanto già in Boeckh (e per la verità nello stesso Wolf della Darstellung). La linea Wolf-Boeckh-Wilamowitz non può essere quindi in alcun modo infranta. La pagina esordiale della Geschichte del Wilamowitz non nasce a caso, sia pur nella differenza dello stile e dei toni. Ma lo stesso Ugolini a p. 226 menziona quali antecedenti appunto Wolf e Boeckh. Certamente, come ha ben osservato Benedetto Bravo (1986: contributo su Boeckh citato a p. 186 del libro qui recensito), il Wilamowitz sarebbe da considerare come l’ultimo degli unitaristi nel campo del metodo e della concezione della filologia. Ricorderemo tuttavia che anche Giorgio Pasquali, morto nel 1952 (Wilamowitz nel 1931), si fece apud nos portavoce di tale visione unitaristico- storicistica.
Anche dunque secondo Pasquali (ma è cosa nota lippis et tonsoribus) filologia = storia. E questa era per lui, ovviamente, lezione, magistero tedesco (egli aveva studiato in Germania col Wilamowitz, a Berlino, e a Gottinga con Wackernagel e Schwartz nonché Friedrich Leo). Da utilizzare per esempio nella celebre polemica con il Romagnoli, il Romagnoli di Minerva e lo scimmione (1917). Ma la polemica risaliva, come fu ben descritto a suo tempo da Teresa Lodi, alle critiche mosse dal Fraccaroli al Festa e al Vitelli, maestro italiano del Pasquali. Da una parte c’erano dunque gli scientifici, positivistici e intedescati vitelliani, dall’altra gli estetizzanti ed artistici cultori dell’antichità come appunto il Romagnoli, traduttore di testi peraltro non disprezzato dal sempre elegante e garbato polemista Pasquali. Interessante, in questo capitolo bossiniano (10), il riferimento ad Arte allusiva (1942), un acuto breve lavoro pasqualiano che anticipa molti studi successivi e riflessioni sul vasto e sempre attuale tema dell’imitazione letteraria, che ha notoriamente anche rilevanti risvolti in certe tradizioni dal punto di vista della constitutio textus.
Massimo Pinto nel suo capitolo (11) si occupa di materia nobile quanto talora infida: i papiri. Egli appare prudente sul vessato caso Artemidoro (p. 332). Non sarà del resto questo caso ad abbattere il rilievo storico di una disciplina. Il contributo documentario e letterario della papirologia rimane infatti enorme. E le scoperte sono notoriamente anche recenti (una rassegna degli ultimi anni, a partire da Empedocle, alle pp. 330-331).
Conclude il volume un intervento di Lanza su figure della seconda metà del ventesimo secolo. La prima menzione è di un libro ispirato e fortunato: la Entdeckung des Geistes di Bruno Snell (1946), tradotto in italiano, con titolo fantasioso, presso Einaudi nel 1951. Anche Snell era uno storicista e non ricercava nei Greci la perfezione (Lanza ne mette in luce la distanza da Jaeger e dal Terzo Umanesimo), il modello ideale. Egli era studioso di grande finezza intellettuale, estraneo al positivismo. Per lui era sovrana la dimensione dello spirito, di uno spirito di ascendenza hegeliana.
Segue nel capitolo I Greci e l’irrazionale (Dodds, 1951, basato su lezioni tenute a Berkeley), ancora un grande libro forse dimenticato. L’introduzione di Dodds, sulla razionalità dell’arte greca, sulla freddezza dei marmi del Partenone in un aneddoto che Lanza ama riportare, mi fa pensare alla intensa premessa di Giuseppe Billanovich a Copisti e filologi (1969). Anche lì si registra la preferenza accordata ad altri tipi di arte, rispetto a quella classica: icone russe e terracotte azteche… Dodds è ricordato da Lanza anche per le sue lezioni irlandesi confluite in Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia (1965). Dall’irrazionalità all’angoscia il passo, del resto, è breve. Lanza ricorda quindi Jean-Pierre Vernant, morto nel 2007, allievo di Louis Gernet. Vernant medesimo non si considerava però (e non era litteraliter) un antichista. Conosceva il greco e, come lui stesso ebbe modo di osservare, si inventò la sua Grecia. Tante volte in effetti anche gli specialisti più puri inventano le loro tesi, perché magari non adducono prove adeguate o ricamano troppo. Quindi non proporremo qui di espungere un autore come Vernant dalla storia della filologia o, quantomeno, della cultura classica.
Dopo questa voce francofona, è la volta dell’italiano Bruno Gentili (1915-2014), di cui Lanza rammenta Poesia e pubblico nella Grecia antica, opera della maturità, debitrice verso Eric A. Havelock (1903-1988), studioso della poesia d’improvvisazione. E Gentili diede il suo distintivo contributo al tema dell’oralità. Nello stesso libro di Gentili troviamo però in appendice il saggio L’arte della filologia, che si apre con in epigrafe una celebre citazione nieztchiana sulla lentezza della filologia: ma una lentezza meritevole, secondo il pensatore tedesco, in una società frettolosa e sudaticcia, che consuma tutto troppo rapidamente. I filologi invece, secondo Nietzsche, usano leggere e rileggere, con dita e occhi delicati, e non buttano via le parole. Sono cose, idee, sintesi e descrizioni icastiche che Gentili apprezzava.
Segue, in questo ultimo capitolo, una trattazione dedicata a Nicole Loraux e al suo raffinato studio di Atene e del mondo greco, di aspetti importanti come l’elogio funebre e la stasis. Anche lei, come Nietzsche, metteva in guardia dal sentirci troppo simili agli antichi.
Table of contents
Introduzione di Diego Lanza e Gherardo Ugolini p. 13
Riferimenti bibliografici p. 18
Parte prima
Verso una scienza dell’antichità
1. Richard Bentley e la filologia come arte della congettura di Francesco Lupi p. 21
2. Christian Gottlob Heyne: le nuove vie dello studio degli antichi di Sotera Fornaro p. 49
3. Friedrich August Wolf e la nascita dell’Altertumswissenschaft di Gherardo Ugolini p. 71
4. Humboldt, il Ginnasio umanistico e l’università di Berlino di Gherardo Ugolini p. 109
Parte seconda
L’illusione dell’archetipo.
Gli studi classici nella Germania dell’Ottocento
5. Karl Lachmann: il metodo e la scienza di Sotera Fornaro p. 139
6. Hermann contra Boeckh: filologia formale e filologia storica di Gherardo Ugolini p. 157
7. Nietzsche e la polemica sul tragico di Gherardo Ugolini p. 191
8. Wilamowitz: la filologia come totalità di Gherardo Ugolini p. 221
Parte terza
La filologia classica del Novecento
9. Werner Jaeger e il Terzo umanesimo di Gherardo Ugolini p. 249
10. Giorgio Pasquali e la filologia come scienza storica di Luciano Bossina p. 277
11. Nuove antichità: i papiri di Pasquale Massimo Pinto p. 315
12. Rinarrare l’antico: parole e immagini di Andrea Rodighiero p. 337
13. La filologia dopo la guerra: nuove prospettive di Diego Lanza p. 357
Opere della filologia classica: un percorso bibliografico p. 393
Indice dei nomi p. 397