Il volume è costituito da due parti (“The Origin of the Cosmos” e “The Origins of Human Agency”), che in fondo si corrispondono tra di loro: l’origine del cosmo è la trasposizione in una sfera metafisica (dell’opera del dio) della ‘agency’ dell’uomo: come l’uomo ‘agisce’ sul mondo e su se stesso, così ‘il dio’ (che sia il demiurgo o l’uno) agisce ‘creando’ il mondo (uso, qui e in seguito, il termine ‘creare’ per comodità, naturalmente escludendo il significato di creatio ex nihilo). Ma alla base dell’ ‘agency’ esiste una volontà che la determini? Il dio vuole creare il mondo, e l’uomo in che modo giunge alla decisione di agire?
Plotino ha gran parte in queste tematiche: quattro studi su tredici sono specificamente dedicati a lui: Plotino, infatti, innova non solo rispetto al platonismo a lui precedente, ma anche rispetto a Platone e alla sua dottrina del demiurgo, non solo per quello che riguarda l’origine del mondo, ma anche per quello che riguarda l’attività della psiche umana.
Fondamentale nella cosmologia plotiniana il fatto che Plotino non crea il mondo per un atto di volontà. Questo problema è bene interpretato da Ch. I. Noble e N. M. Powers, che scrivono congiuntamente il capitolo “Creation and divine providence in Plotinus”. Plotino sostiene che la ragione divina ( nous) non può fare piani di nessun genere riguardanti il mondo fisico, e nemmeno avere pensieri relativamente alle realtà fisiche (p. 51). Di conseguenza ogni riferimento alla progettualità che si legge nel Timeo deve essere intesa metaforicamente: “Providence without planning” (p. 61), anche se può sembrare un paradosso. Tale dottrina è caratterizzata da ‘austerity’, un termine con il quale gli autori intendono definire un’attività del dio che prescinda da ogni coinvolgimento del dio stesso (per bontà, per provvidenza o altro) nelle cose umane: sarebbe, infatti, più consolante per l’uomo confidare in una provvidenza divina. In realtà tutto quello che esiste nel nostro mondo è il risultato della emanazione delle Forme, non di una provvidenza. Questo saggio su Plotino si distingue per la chiarezza e la ampia informazione.
Anche K. Corrigan (“Divine and human freedom: Plotinus’ new understanding of creative agency”) affronta questo problema, aggiungendo il termine ‘new’ per sottolineare la differenza tra la concezione di Plotino rispetto a quella del precedente medioplatonismo, che sosteneva che la creazione del mondo fosse dovuta ad un atto provvidenziale del dio. In questo problema Plotino era stato anticipato da Numenio, il quale aveva posto il problema, ma non lo aveva risolto in modo coerente (p. 133). Secondo Numenio, infatti, il dio è, insieme, demiurgo e contemplatore delle idee (e quindi, secondo il significato tradizionale della contemplazione, esclude ogni attività, ogni ‘agency’). “Contemplation or insight, therefore, is the primary creative force in both the spiritual and physical world” (p. 134), un fatto, questo, che ha dei precedenti in Aristotele. La contemplazione, in un certo senso, è produttiva (“formal – efficient causality”) (p. 135). Il problema può avere attinenza anche con concezioni cristiane, a proposito non della creazione del mondo, ma della generazione del Figlio di Dio (pp. 147-9).
Anche R. Chiaradonna (“Plotinus’ account of demiurgic causation and its philosophical background”) affronta il problema della volontà del creatore e dei suoi antecedenti nel medioplatonismo (e dintorni), in polemica con l’aristotelismo. Plotino vuole ‘neutralizzare’ l’interpretazione che i medioplatonici davano del Timeo, che la causalità del dio sia la conseguenza della sua provvidenza nei confronti del mondo e delle sue vicende. Su questo punto Plotino contesta non tanto gli gnostici, come aveva pensato Narbonne, ma alcuni medioplatonici. Ad esempio, Attico aveva accusato Aristotele di epicureismo proprio perché aveva (a suo dire) escluso la provvidenza dal mondo: questo era stato sostenuto da Diogene di Enoanda, che sostanzialmente è contemporaneo di Attico. Sia Attico sia Alcinoo sia Galeno sottolineano che l’ordine naturale è una conseguenza della provvidenza del demiurgo. Mi sembra però che Attico risulti troppo importante perché Plotino lo abbia contestato: la sua accusa ad Aristotele di epicureismo è poco più che un topos—l’attenzione di Attico è rivolta soprattutto all’etica aristotelica.
R. Sorabji (“Waiting for Philoponus”) cerca di individuare un legame tra i retori della Scuola di Gaza e Giovanni Filopono, il quale visse pochi decenni dopo di loro. Sorabji individua un gran numero di problemi cosmologici, posti soprattutto dalla presenza del Cristianesimo, che sarebbero stati comuni a Zaccaria e a Procopio (da una parte) e a Filopono dall’altra, il quale li avrebbe riconsiderati una generazione dopo partendo da un differente punto di vista: il grande numero di quei problemi costringe Sorabji ad un esame un po’ sommario e veloce. Certo è che la trattazione che la Scuola di Gaza offre della cosmologia rimane piuttosto superficiale.
J. Wilberding (“Neoplatonists on the causes of vegetative life”) affronta il concetto di causalità su di un piano nuovo. Plotino, comunque, entra anche in questa ricerca (pp. 175-6). I processi richiesti dalla generazione delle piante sono analoghi a quelli della generazione dell’embrione. La dipendenza delle singole (‘individual’) piante dalla terra, per quanto riguarda la loro generazione e la loro conservazione, si estende oltre la pura e semplice necessità della nutrizione, per raggiungere l’ambito della loro attività vitale. Wilberding prende in considerazione le soluzioni proposte da Porfirio, nel suo trattato Ad Gaurum (pp. 176- 8); da Proclo ( Commento al Timeo) (pp. 178-80), da Simplicio e Damascio.
È principalmente di carattere storico anche il contributo di H. Baltussen (“Simplicius on elements and causes in Greek philosophy: critical appraisal or philosophical synthesis?”). il quale esamina il metodo di lavoro di Simplicio. Baltussen esamina il metodo di Simplicio non in generale, ma a proposito del cosmo e della materia. Il lavoro contiene un’interessante trattazione sul modo in cui Simplicio faceva ‘storia delle filosofia’ e sulla sua interpretazione dei predecessori.
Il problema dell’agency umana è studiato da D. M. Hutchinson (“Consciousness and agency in Plotinus”). Sottolinea la novità del concetto di ‘interiorità’ e di introspezione in Plotino. L’introspezione significa l’ascesa dell’anima, necessaria per ottenere una piena ‘agency’, condizione indispensabile per unificare i nostri corpi sia con l’anima individuale sia con l’anima cosmica, la quale è presente nell’individuo (ma solo per Plotino).
Ugualmente A. P. Johnson (“Astrology and the will in Porphyry of Tyre”) esamina il trattato di Porfirio ‘Sul libero arbitrio’ (che si poteva scrivere anche in greco, e non solamente in traduzione inglese) (p. 189). Le forze della necessità influiscono sull’individuo, nonostante il libero arbitrio. La condizione umana in cui si trova l’individuo è il risultato di una scelta precedente la discesa dell’anima (p. 191; anche p. 199: in seguito alla scelta precedente, “necessity is a force not external or contrary to one’s faculty of choice, but that which holds the soul to its prior choice”). Il problema del libero arbitrio, e l’ipotesi di una scelta (e quindi di una esistenza) antecedente alla scelta e all’esistenza terrena richiama anche l’esempio di Origene (p. 193: per Origene, come per Porfirio, il libero arbitrio è una specie di ‘assenting’) e dei medioplatonici (pp. 195-6: pseudo-Plutarco e Alcinoo) e peripatetici (Alessandro di Afrodisia). Si poteva, tuttavia, ricordare lo studio di M. Zambon ( Porphyre et le moyen-platonisme, Paris 2002), che è dedicato proprio ai rapporti tra Porfirio e i medioplatonici.
M. Griffin (“Proclus, on the ethics of self-constitution”) è dedicato, invece, all’etica di Proclo, seguendo un filosofo moderno, Christine Korsgaard: “Self- constitution, and indeed human being is a process or activity rather than a state” (p. 205). Quanto vale, questo, per i neoplatonici? (p. 206). Si esaminano Plotino (pp. 206-8), Proclo, che istituisce una scala delle virtù, necessarie per l’ascesa dell’anima, se l’anima è totalmente scesa nel corpo, come asseriva Giamblico in opposizione a Plotino (pp. 208-12). Griffin fa riferimento al Commento di Proclo all’Alcibiade I. Forse sarebbe stato opportuno prendere in considerazione anche l’edizione, con ampia introduzione e commento, di A. Ph. Segonds. La conclusione è (pp. 215 ss.): “Self-unification as a moral goal” (p. 217): è l’esigenza di non disperdersi nella materialità, nella ‘regio dissimilitudinis’, come dice Agostino.
Tra i precedenti del neoplatonismo si colloca il contributo di Ricardo Salles (“Two early Stoic theories of cosmogony”). Salles esamina la cosmologia di Zenone, ripresa da Crisippo, e quella di Cleante, considerando la funzione e la trasformazione del fuoco durante e dopo la conflagrazione universale, in funzione della creazione di un nuovo sistema cosmico. Cleante attribuisce maggiore importanza alla permanenza del fuoco all’interno del complesso della materia disintegratasi (questo particolare concorda con quanto già si sapeva sulla cosmologia di Cleante, fortemente interessata alla funzione del fuoco nell’universo).
A proposito del cristianesimo, e non del pensiero neoplatonico, proprio la curatrice del volume, Anna Marmodoro, studia la cosmogonia di Gregorio di Nissa (“Gregory of Nyssa on the creation of the world”) come Clark e Edwards. Il fatto è che Marmodoro considera tout court ‘filosofo’ (p. 5) Gregorio, che pure era stato vescovo di Nissa. Da un lato, quindi, la studiosa prende in considerazione il Dio dei Cristiani, in quanto è immateriale—come l’uno dei neoplatonici—e quindi, a suo parere, la dottrina della creazione secondo il Nisseno, se intesa come creazione della materialità ad opera di un entità immateriale, si scontrerebbe con il postulato LCL (‘like causes like’). Partendo da un volume innovativo di Sorabji ( Time, creation and the continuum, London 1983), l’autrice discute con grande acume il problema (in particolare quello delle qualità della materia), tenendo presente sia le interpretazioni di Sorabji sia la filosofia di Berkeley, ma a nostro parere la sua discussione prescinde troppo dal fatto che Gregorio, appunto in quanto cristiano, parte dal presupposto di una creatio ex nihilo, la quale, di conseguenza, viola intrinsecamente il principio causale a cui sopra abbiamo accennato. Si tratta, comunque, di una interpretazione nuova, che merita attenzione e, forse, susciterà anche discussioni.
Nell’ambito del cristianesimo, Gillian Clark (“Deficient causes: Augustine on creation and angels”) riesamina il problema della creazione degli angeli, come è proposta da Agostino nel De civitate Dei. Questa creazione è una ‘deficient cause’, nonostante che essa derivi da Dio, perché permette l’origine del male. Gli angeli possono essere malvagi (il primo esempio del male, se la loro caduta è stata antecedente alla creazione dell’uomo), perché sono creati dal nulla: anche qui, dunque, la dottrina della creatio ex nihilo, che, a nostro parere, era in parte presente anche in Gregorio di Nissa, riemerge.
Ed infine Mark Edwards (“Willed causes and causal willing in Augustine”) è incentrato soprattutto sul De civitate Dei di Agostino ed esamina anche i precedenti pagani e cristiani quali ‘Sources of guilt’ (pp. 241-7) e ‘Ancestral vices’ (pp. 247-52). Gli spunti pessimistici di Agostino a proposito del concetto di ‘creazione’ risalgono sia alla sua formazione cristiana (l’Antico Testamento; Tertulliano e la sua dottrina del traducianesimo) sia alla sua formazione pagana e alla sua conoscenza della storia di Roma. Per Agostino, quindi, i vizi non sono la radice dei peccati, ma “the perennial flowerings of an endemic sinfullness” (p. 244) del mondo. Questa ‘sinfullness’ genera, sia per i Cristiani sia per i pagani, un acuto senso di frustrazione tra la sensazione della propria impotenza e quella della onnipotente forza di Dio.
I due curatori hanno il merito di avere contattato degli ottimi studiosi, i quali hanno presentato una serie di validi contributi, basati su un’ampia e attenta informazione; la stampa della Cambridge University Press è, come sempre, perfetta. Sarebbe stato desiderabile, a mio parere, che gli autori avessero tenuto in maggior conto gli studi anteriori agli ultimi 20-25 anni. Concordo con G. Reydams-Schils, la quale, recensendo su Bryn Mawr Classical Review (BMCR 2015.10.43) I. Hadot, Senéque (Paris, Vrin 2014), osserva che “there is a more general and, in this reviewer’s opinion at least, legitimate concern underlying the polemic [sc. tra Ilsetraut Hadot e la critica più recente]. The author pleads for a rehabilitation not only of her own work but also of that of other scholars outside of the Anglo-American tradition whose publications have suffered relative neglect . . . There is indeed a marked trend in Anglo-American scholarship (to which there are also some happy exceptions) to take over certain areas of research in ancient philosophy and then to push out, as much as possible, the older literature and alternative perspectives.”