Il volume costituisce la pubblicazione degli atti di un convegno tenutosi presso il Saxo Institute dell’Università di Copenhagen nel 2012, organizzato da Mette Moltesen, Birte Poulsen e Annette Rathje sotto gli auspici del Collegium Hyperboreum e in collaborazione col progetto Avadin diretto da Kristina Winther-Jacobsen. Ai contributi del convegno, quasi tutti pubblicati, se ne sono aggiunti altri due; si è arrivati così a un totale di 18 articoli.
I contributi abbracciano non solo un arco temporale molto vasto, che va dall’epoca preistorica alla tarda antichità, ma anche aree geografiche tra loro lontane, spaziando dall’Asia Minore e Cipro a Palmira e alle frontiere settentrionali dell’Impero Romano. Il filo conduttore che li lega è tematico: ruotano infatti attorno alla tradizione e a come essa, intesa in quanto trasmissione di cultura, si sia tramandata nel tempo. L’ordine degli articoli nel volume è alfabetico, secondo autore; per permetterne una presentazione più coerente, invece, qui saranno presi in rassegna per gruppi.
Un numero consistente di contributi tratta diversi aspetti della tradizione nell’Impero Romano, fino alla Tarda Antichità. Niels Bargfeldt si occupa della reinvenzione della tradizione alle frontiere settentrionali dell’Impero Romano, nel periodo che arriva alla metà del III sec. d.C. Prendendo in esame siti nei pressi delle guarnigioni di legionari, l’Autore esamina le modalità secondo cui gli individui si servono della tradizione e la manipolano, più o meno consciamente, per definire il proprio ruolo all’interno di comunità fortemente influenzate da continui flussi di nuovi arrivati. Così, il punto di osservazione privilegiato è quello della micro-scala, il livello dell’individuo, con l’interessante conclusione di una forte messa in dubbio della validità delle categorie per spiegare fenomeni e della necessità di focalizzare lo sguardo proprio su ciò che esula dalla norma; “otherwise we end up simply confirming anthropological and sociological conceptions or our own newly invented tradition of the invented traditions of antiquity” (p. 37).
L’articolo di Jane Fejfer cerca di comprendere l’introduzione del cd. tipo della Cerere, verso la fine del I sec. d.C., per ritrarre figure femminili nella parte occidentale dell’Impero Romano. L’introduzione di tale tipo indica non solo un forte interesse da parte del mondo romano nei confronti della tradizione iconografica greca, ma anche una mirata allusione al ruolo della donna nella società romana, presente in pubblico solo come sacerdotessa.
Atene, Corinto e Roma durante la Tarda Antichità sono le protagoniste del contributo di Arja Karivieri, che esamina rituali magici per comprendere lo sviluppo della teurgia in un periodo in cui le attività rituali si spostano dai templi alla sfera privata e non solo, in grotte, pozzi e cisterne. In questo caso, la tradizione è intesa come prosecuzione di consuetudini religiose e di pratiche cultuali, ma anche come risposta e adattamento alla sempre maggiore popolarità di culti orientali in una società multiculturale come quella del Tardo Antico; a svolgere un ruolo decisivo in tale processo è il sempre maggiore peso della filosofia neoplatonica, che nel IV e V secolo pone l’accento sull’importanza della divinazione.
Christina Videbech tratta le collezioni di sculture, nell’ambito di abitazioni private, durante la Tarda Antichità. Dal loro esame, l’autrice conclude che le collezioni di sculture fungevano da agenti attivi in un periodo di cambiamento e svolgevano un ruolo decisivo per l’auto-rappresentazione, l’identità e il prestigio del proprietario. Tramite le sculture si trasmettevano di epoca in epoca tradizioni, ricordi e valori.
L’articolo di Eva Mortensen analizza il fenomeno dello ktistes prendendo in esame città microasiatiche di età imperiale: Efeso, Magnesia e Metropoli. Ognuno di questi centri illustra in maniera diversa un aspetto di questo fenomeno, che agli eroi fondatori nel senso tradizionale aggiunge nuovi eroi designati come fondatori: una tradizione che si occupa di creare ma anche di preservare uno status nell’ambito della gerarchia tra le città.
Infine, Rubina Raja presenta la ritrattistica funeraria palmirena. Questa categoria di documenti costituisce un gruppo specifico con proprie caratteristiche e un proprio percorso e non va, invece, semplicemente etichettata come ‘ritratti provinciali’. Sebbene siano nati nell’ambito delle nuove condizioni create dall’inclusione di Palmira nell’Impero, una piena comprensione dei ritratti funerari palmireni si può ottenere solo inserendoli nel contesto culturale locale e individuandone l’equilibrio tra tradizione autoctona e tendenze in voga a Roma.
Due articoli portano il lettore a Cipro. Lone Wriedt Sørensen studia le creature fantastiche e ibride raffigurate sulla ceramica cipriota di epoca arcaica, dando risalto sia ai confronti col materiale archeologico locale, sia al significato degli animali nella società cipriota dell’Età del Bronzo e del Ferro. Sfingi, centauri e altri esseri ibridi trovano così un posto nei più recenti filoni di studio su mostri, animismo e ambiente naturale. Kristina Winther-Jacobsen, invece, si occupa di usi funerari riscontrabili in tombe ellenistiche di siti dell’area occidentale di Cipro – soprattutto Pafo e Arsinoe. Distinguendo il rituale funerario, inteso come una serie di atti predefiniti, dagli usi funerari, e cioè atti o eventi fissati nella prassi, e definendo la tradizione in quest’ultimo senso, l’Autrice propone osservazioni circa la pratica di deporre doppi vasi in sepolture cipriote di età ellenistica.
Una coppia di contributi si occupa del mondo etrusco. Marjatta Nielsen segue il proseguire della tradizione durante le ultime fasi della cultura etrusca, segnatamente a Volterra. Dall’esame delle urne cinerarie volterrane che risalgono alla fine dell’età repubblicana e alla prima epoca augustea emerge con evidenza che la tradizione antiquaria romana percepiva alcuni elementi come prestiti dagli Etruschi. Qui, la tradizione locale sopravvisse anche oltre l’età augustea, ben oltre un secolo dopo il momento in cui le ultime città etrusche persero la propria autonomia. Nora Petersen si occupa invece del flabello, un utensile solitamente associato ai personaggi femminili dell’ élite etrusca e interpretato come segno del potere per i principi delle popolazioni centro-italiche. L’uso tradizionale di questo strumento conduce l’Autrice a sottolinearne l’uso pratico, come strumento per raffreddare l’aria o purificare allontanando gli insetti.
Il mondo greco classico ed ellenistico è protagonista di tre articoli. Cecile Brøns studia gli inventari in cui si registravano le proprietà sacre di un tempio o di un santuario. Prendendo in esame liste di 6 siti diversi (Brauron, Tanagra, Tebe, Delo, Samo e Mileto), che si datano dall’epoca classica alla tarda età ellenistica, l’Autrice rintraccia la presenza tra gli ex voto di tessuti, quali chitoni e diversi tipi di abiti, esaminando il tipo di divinità a cui tali offerte erano destinate, nonché le offerte stesse e le informazioni che se ne ottengono attraverso gli inventari sacri. L’articolo di Signe Isager discute una celebre lista di sacerdoti di Posidone da Alicarnasso; lo studio di due nuovi documenti permette di proporre che nella tarda età ellenistica si decise di trasferire su una nuova stele tutti i nomi presenti su una stele precedente, in un momento in cui era imperativo sottolineare il forte legame tra Alicarnasso e la madrepatria. La lista è quindi il veicolo di una tradizione, essendo una sorta di albero genealogico della città, poiché questo specifico culto sarebbe stato stabilito da coloni trezeni e, stando a questa lista, il primo sacerdote sarebbe stato addirittura figlio di Posidone. Jens Kraslinikoff, infine, studia l’Acropoli di Atene in età post-persiana impiegando come chiave di lettura il valore del luogo ( place) anziché quello dello spazio ( space), prendendo a prestito concetti dalla geografia culturale e umana. Storia, religione e tradizione si esprimono così attraverso lo sviluppo dell’Acropoli in quanto luogo in età classica; ne emerge la complessità religiosa di questo sito sacro in quanto shared place.
Alla trozzella, un vaso indigeno diffuso nella penisola salentina e comunemente ritenuto un marcatore etnico, sono dedicati due articoli. Sine Grove Saxkjær e Jan Kindberg Jacobsen studiano una trozzella conservata alla Ny Carlsberg Glyptotek: un caso particolare, poiché la forma autoctona è decorata da scene tratte dal mito greco. Gli Autori ne deducono che si tratta pur sempre di un marcatore d’identità etnica, allo stesso tempo da interpretare come esempio di trasmissione di cultura e simbolo dell’emergere di un’identità culturale collettiva condivisa, tra etnicità greca e indigena. Stine Schierup analizza invece l’introduzione della nestoris nel repertorio lucano a figure rosse: un vaso ritenuto una variante della trozzella per la presenza delle lunghe anse verticali coronate dai caratteristici dischi fittili. La presenza di tematiche decorative peculiari (figure di guerrieri italici) e lo studio della distribuzione di tale forma conducono l’Autrice a supporre che si tratti di un vaso prodotto a Metaponto per il mercato lucano e che possa essere un dono di tipo diplomatico, destinato a centri indigeni che controllavano vie di comunicazione di cruciale importanza. La nestoris dimostrerebbe quindi il modo in cui i Greci impiegavano e trasformavano elementi della cultura italica locale per gestire relazioni col potere autoctono.
La ceramica locale è protagonista anche dell’articolo di Christian Mühlenbock, che analizza le comunità della Sicilia occidentale attraverso lo studio della ceramica del VI secolo a.C. dell’insediamento indigeno di Monte Polizzo. La tradizione è qui intesa come una negoziazione, operata dagli artigiani locali, tra il tentativo di proseguire sistemi sperimentati di produrre ceramica e la necessità di competere con nuove forme, importate dall’esterno e sempre più richieste e apprezzate dalla committenza locale.
L’interessante contributo di Solvejg Hansen si cimenta con la tradizione in epoca preistorica. Dopo aver indagato la tradizione di studi che ha proposto l’interpretazione del personaggio femminile della Xeste 3 di Akrotiri come una divinità, Hansen ne suggerisce invece una lettura in chiave profana, basandosi sullo studio dell’iconografia, dei simboli che le sono attribuiti e soprattutto dei tessuti – un campo d’indagine, quest’ultimo, emerso in anni recenti. Liberata dunque dai vincoli della tradizione di studi, la ‘dea’ della Xeste 3 riemerge come una donna dell’ élite locale raffigurata in diversi stadi della propria vita.
Infine, Iefke van Kampen studia una coppia di statue di età imperiale conservate nel Museo dell’Agro Veientano a Formello: l’una raffigura Priapo, mentre l’altra è una statua maschile di epoca giulio-claudia, forse un membro della famiglia imperiale. L’Autrice propone che quest’ultima provenga da scavi nel centro di Veio e possa essere connessa a un tempio per il culto imperiale.
Il concetto della tradizione, percepito negli ultimi decenni come qualcosa di per sé statico e reazionario, incapace di mutare e ideologicamente opposto a ciò che è moderno, è stato a torto ritenuto un punto di partenza, anziché un processo.1 Quindi, trascurata o citata en passant con ironia, l’obsoleta tradizione è stata rimpiazzata, specialmente riguardo a processi di trasmissione di cultura, da nuovi concetti quali la memoria e il discorso. Anche il concetto di ‘invenzione della tradizione’, coniato da Eric Hobsbawm e Terence Ranger, fa leva su un uso della tradizione in particolari contingenze storiche, finalizzato a segnare un’interruzione rispetto al passato.2 Il volume edito da Jane Fejfer, Mette Moltesen e Annette Rathje vuole colmare questa lacuna, offrendo diverse chiavi di lettura della tradizione nel senso latino di tradere e cioè di trasmettere, al fine di comprendere il cambiamento culturale. L’idea centrale è quella di offrire approcci differenti all’interpretazione e alla decodificazione delle evidenze materiali del passato, per ricostruire pratiche sociali o culturali persistenti nel tempo. Eppure, sebbene tutti gli articoli di questo volume dimostrino un assoluto rigore metodologico, o forse proprio per questo motivo, è un peccato che gli autori non si siano cimentati su un tema definito fin dal principio in maniera più rigorosa. La libertà lasciata dagli editori all’interpretazione di ciascun autore, infatti, fa sì che emergano diversi concetti di tradizione: come negoziazione, come trasmissione di elementi aviti, come reinvenzione, come adattamento, come risposta a nuove esigenze, perfino come tradizione di studi. Allo stesso tempo, tuttavia, si ritrovano contributi in cui la tradizione non trova assolutamente spazio o che sono connessi solo in maniera alquanto vaga al tema centrale, come ad es. quelli di Iefke van Kampen o di Cecile Brøns – un articolo, quest’ultimo, che seppure molto interessante non fa neppure cenno al termine ‘tradizione’. Detto ciò, va riconosciuta la buona qualità di un tentativo importante di aggiungere un tassello allo studio della tradizione, realizzato in un volume prodotto con estrema accuratezza, impreziosito da numerose illustrazioni di buona qualità e spesso a colori. Per concludere con le parole degli editori (p. 16) “It is exactly this issue of how the historical process of human day-to-day interaction with the past has its impact on the present that we consider important to raise in relation to the material past”.
Notes
1. Come rilevato nell’introduzione a M. Salber Phillips and G. Schochet (eds.), Questions of Tradition, Toronto; Buffalo; London 2004.
2. E. Hobsbawm, T. Ranger (eds.), The Invention of Tradition, Cambridge 1983.