Questo libro, si può dire, ha due facce, ugualmente importanti. Da un lato presenta una specie di commentario continuo, assai dettagliato e ricco di proposte esplicative, al secondo e terzo libro del de anima (le uniche parti trattate molto sommariamente sono le analisi specifiche dei cinque sensi in II 7-11); dall’altro si caratterizza come un lavoro “a tesi”, nel senso che propone un modo specifico, e anche in buona parte originale, di interpretare non solo il de anima e la psicologia di Aristotele, ma in certo senso l’intera visione del mondo proposta dallo Stagirita.
Iniziamo da questo secondo punto. A parere dell’autore il de anima rivela la centralità in Aristotele di una ontologia che possiamo chiamare teocentrica, e questo secondo due prospettive tra loro strettamente collegate. Da un lato la domanda iniziale e fondamentale di tutto il trattato, rivolta a scoprire la natura e l’essenza dell’anima, trova la sua risposta nello specifico genere di vita caratteristico dell’intelletto separato e divino; dall’altro si può costatare, in tutta la natura fino agli esseri inanimati (ma più propriamente nella scala delle funzioni vitali) una tendenza unanime a realizzare il tipo più elevato di esistenza rappresentato dall’intelletto divino; sino al punto di poter dire che ogni ente naturale è una realizzazione parziale e imperfetta di questa tendenza. In altri termini, poiché le caratteristiche essenziali della vita sono l’eternità, l’immutabilità, l’autoconservazione e l’autoreferenzialità, nei livelli di vita inferiori a quella intellettiva si costata la prefigurazione approssimativa, in gradi diversi, di queste caratteristiche. Ad esempio, l’impassibilità assoluta propria della sola vita intellettiva si realizza in modo parziale ma minimo negli enti che dispongono della sola vita vegetativa, nella misura in cui essi tentano di conservarsi intatti tramite l’assimilazione e la distruzione del loro ambiente circostante (mediante la nutrizione); e in modo sempre parziale ma relativamente più ampio negli animali, grazie al fatto che riescono a farsi determinare nella loro natura dalla realtà circostante, per mezzo della sensazione, senza per questo essere distrutti durante il processo (p. 119-20, 217). A parere dell’autore questo significa, molto realisticamente, che l’assimilazione a dio (uso volutamente un’espressione platonica spesso ripresa in quella tradizione) è l’obiettivo che tutti gli enti naturali, non solo gli esseri umani, vorrebbero conseguire.
Mentre leggevo l’esposizione preliminare di questa tesi presentata dall’Autore nell’Introduzione, ho subito pensato che si trattasse di una “neoplatonizzazione” del pensiero di Aristotele (è tesi tipica di Plotino, ad esempio, che ogni azione sia il risultato di una contemplazione mancata). E in effetti l’A. accetta esplicitamente questo accostamento, anche in relazione ai commentatori neoplatonici di Aristotele (p. 22 e sgg.). Si tratta indubbiamente di una proposta esegeticamente assai impegnativa, con conseguenze di larga portata su alcuni nodi centrali della storia della filosofia occidentale. Quindi deve essere suffragata da riscontri testuali precisi ed eloquenti. Il pezzo forte di questi riscontri è costituito dall’analisi di de anima II 1-3 (cap. 1), ossia di quei capitoli tormentati, e apparentemente non consequenziali, in cui Aristotele sembra voler proporre una definizione di anima comprensiva di tutte le sue tipologie. Per sostenere la sua tesi Diamond deve mostrare che la celebre frase in cui l’anima è detta “atto ( entelecheia) primo di un corpo che ha la vita in potenza” non indica né l’essenza né la definizione, ma è solo una caratterizzazione preliminare necessaria per poter procedere nella ricerca. E la ricerca alla fine mostrerà che essenza e definizione dell’anima non sono colte dalla prima entelechia, che indica i requisiti minimi perché si possa parlare di vita, bensì dalla seconda entelecheia, che consiste nella piena attualizzazione delle potenzialità della vita medesima, coincidente appunto con il pensiero (p. 57).
C’è un aspetto di questa analisi in cui l’Autore, a mio avviso, ha indubbiamente ragione. Mentre per Platone il tratto qualificante in modo ideale tutti i particolari pertinenti a un determinato gruppo si ottiene mediante una generalizzazione verso il basso, alla ricerca di un minimo denominatore comune (p. 72), per Aristotele ciò che è essenziale non è necessariamente l’elemento comune, ma spesso è ciò che si rende manifesto negli enti che occupano il grado più elevato nel gruppo. Questo vale, in particolare, quando sono di scena quegli insiemi, non omonimi né sinonimi, per cui vige la relazione pros hen; e tra questi insiemi, oltre all’essere, al bene e all’uno, si deve annoverare anche la vita (dunque i tipi di anima). In questo caso, spiega l’autore, l’aspetto qualificante in modo ideale tutti gli elementi dell’insieme non è una caratteristica generale (o generica), bensì quel particolare che nell’insieme in questione occupa il posto eminente. Un esempio pertinente, suggerito dallo stesso Diamond, è ricavabile dalla Politica. Posto che famiglia, tribù, villaggio e polis sono tutte definibili come “comunità”, chi voglia capire che cos’è veramente una comunità non può limitarsi a cogliere le caratteristiche comuni partendo dal basso (e dunque escludendo ciò che è specifico, in sequenza, di tribù, villaggio e polis), ma deve piuttosto prendere come punto di riferimento l’ente in cui la nozione di “comunità” ha sviluppato in pieno tutte le proprie potenzialità, ossia la polis.
Fin qui, come detto, niente da obiettare. I problemi nascono, invece, quando l’analogia pros hen viene utilizzata, negli insiemi seriali non sinonimi, per determinare l’essenza e la finalità (che ovviamente ne dipende) degli elementi che occupano gradini diversi da quello più alto. Qui, secondo me, occorre fare delle distinzioni abbastanza precise. Se è vero che la famiglia è una comunità, il procedimento platonico dovrebbe permettere di indagare che cos’è la comunità nella sua essenza anche senza prendere in considerazione le altre forme in cui tale concetto si manifesta. Per Aristotele, al contrario, se uno vuole capire pienamente il significato del termine comunità, che trova usato in modo pertinente a proposito della famiglia, deve salire lungo la scala fino alla polis, dove la comunità (per usare un’espressione hegeliana) ha finalmente raggiunto un’esistenza adeguata al suo concetto. Ma ciò significa che questo procedimento è necessario anche per cogliere definizione, essenza e finalità della famiglia in quanto famiglia? È lecito dubitarne. Altro infatti è capire che cos’è una comunità, altro è capire che cos’è una famiglia. E il fatto che la famiglia sia strutturata in modo da potersi evolvere nella polis non significa che il riferimento alla polis sia indispensabile per definire la famiglia, la sua essenza e le sue finalità.
A mio parere questo problema è occultato, nel libro di Diamond, dal fatto che egli sembra non fare alcuna distinzione tra gli elementi bassi dell’insieme che sono passibili di esistenza indipendente e quelli invece che sono sempre e solo parti di un ente più complesso, di cui costituiscono lo stadio iniziale di sviluppo. Sono la stessa cosa, possiamo chiederci, la funzione nutritiva e riproduttiva delle piante, che coincide interamente con la loro anima, e la funzione nutritiva e riproduttiva degli animali, che costituisce invece solo lo stadio iniziale di sviluppo di una realtà più elevata? Io direi di no. Per definire un animale non razionale le facoltà nutritiva e riproduttiva certo non bastano, perché sono materia e potenzialità in rapporto alla facoltà sensitiva (che è forma); ma bastano, invece, per definire un vegetale, perché in quel caso non sono materia e potenzialità di alcunché, ma sono proprio la sua forma. È chiaro che in questo modo bisogna rinunciare a trovare una vera e propria definizione della vita: si potrà dire che cos’è la vita in senso parziale o in senso eminente, ma non si potrà dire che cos’è la vita in generale. Ma se la vita appartiene al novero degli enti che si dicono in molti modi, questo esito è tutt’altro che sorprendente. Infatti la definizione si trasmette da un ente all’altro, stando alle Categorie, laddove vige il rapporto genere-specie; e il fatto che una cosa si dica in molti modi equivale precisamente a dire che non è un genere.
Sotto un profilo più generale l’ontologia (o, forse, la tassonomia) di Aristotele si presenta, secondo Diamond, come un disegno in cui tutti gli enti tranne uno, ossia l’intelletto divino, sono imperfetti e incompiuti (compreso l’uomo, visto che l’ A. nega che l’intelletto individuale sia separabile, p. 201), in quanto tentativi malriusciti di realizzare quell’intelletto medesimo riproducendone tutte le sue caratteristiche. Ma questo, a mio avviso, è altamente implausibile (come è implausibile ogni tentativo di rileggere Aristotele in chiave neoplatonica). Indubbiamente un animale che non riuscisse a superare, nel corso del suo sviluppo, lo stadio della vita vegetativa, sarebbe un essere difettoso e incompleto, nella misura in cui non ha potuto tradurre in atto tutte le potenzialità inerenti alla sua natura. Ma questo non può valere per una pianta, la cui vita vegetativa è atto e non è potenza di niente. In altre parole, nell’universo di Aristotele convivono l’idea secondo cui esistono enti più perfetti e più sviluppati di altri e l’idea secondo cui la massima espressione di un ente (e dunque la sua tendenza) non travalica il genere cui esso appartiene: se è vero che piante e animali sono esseri meno perfetti dell’atto divino di pensiero, non è vero tuttavia che “plants and animals are […] striving […] towards the divine thinking activity” (pp. 216-217). Lo stesso, celebre passo di EN X in cui Aristotele propone all’uomo l’obiettivo di rendersi immortale ( athanatizein) nei limiti del possibile, che Diamond cita a suffragio della sua tesi (p. 217-8), è un invito a realizzare quella perfezione che è alla portata dell’uomo, tramite la valorizzazione del divino che è in lui; non certo la prescrizione di un obiettivo che l’uomo, non essendo dio, non potrà mai raggiungere.
Ora esporrò sommariamente il contenuto del libro (v. indice in Project Muse), sottolineando gli spunti che ritengo più interessanti. Del capitolo 1, dedicato a de an. II 1- 3, ho già detto. Il secondo capitolo è un’analisi dettagliata e originale di II 4. L’idea generale è che la vita vegetativa prefiguri, in modo embrionale e imperfetto, gli stadi successivi di sviluppo (es. p. 85, dove si parla di “proto-awareness”, o p. 107, “locomotion”). Il terzo capitolo è dedicato alla sensazione, con particolare riferimento a de an. II 5-6, 12, III, 1-3. Quivi l’autore analizza a fondo le caratteristiche specifiche della conoscenza sensibile, chiarendo anzitutto il ruolo della materia, e poi concentrandosi in particolare sulla sensazione comune e sul ruolo della phantasia. Nei termini dell’evoluzione analogica delle differenti funzioni, che è parte saliente della tesi generale del libro, l’A. sottolinea qui in particolare la presenza in tutti e tre i livelli di un momento passivo e di uno attivo: nel caso della vita vegetativa si tratta della differenza tra crescita e nutrimento, che tradotti nell’ambito della conoscenza diventano per il senso la differenza tra la ricettività dei cinque sensi e il principio attivo della “common awareness” (p. 142 sgg.) e per l’intelletto la differenza tra intellezione passiva e attiva trattate rispettivamente in III 4 e 5 (p. 153). Nel quarto capitolo, che insieme al primo è decisivo per la tesi generale del libro, l’A. esamina de an. III 4-8, con lo scopo di mostrare che “God’s eternal thinking” è la causa finale verso cui tendono “all mortal living beings” (p. 165). È impossibile, qui come altrove, rendere conto della ricchezza e dell’interesse dell’analisi che stiamo presentando. Mi limito perciò a evidenziare due cose. Giustamente l’autore ritiene che per capire in qualche modo un capitolo criptico come III 5 è necessario individuare le domande a cui esso vuole rispondere, e in particolare la seguente: perché l’intelletto non pensa sempre? Opportunamente rimarcata, inoltre, è la somiglianza tra quanto scrive Aristotele in III 5 e la metafora del sole/luce nella Repubblica di Platone. Il quinto e ultimo capitolo ha per oggetto de an. 9-11, dove Diamond vede nello studio del ruolo causale nella locomozione animale un ausilio per chiarire la nozione aristotelica di praxis.
In sintesi, anche se la tesi generale non mi trova d’accordo, si tratta di un libro profondo, intelligente e molto utile quanti vogliano capire che cosa realmente accade in un testo difficile come il de anima.