La monografia di Kathryn A. Morgan, Pindar and the Construction of Syracusan Monarchy in the Fifth Century B.C., è il risultato di uno studio approfondito sul contributo di Pindaro all’affermazione e alla diffusione del profilo panellenico di Ierone, tiranno di Siracusa tra il 478 e il 467 a.C. Come è noto, al poeta tebano fu commissionata da parte di Ierone la composizione di quattro epinici in suo onore (le Pitiche 1, 2 e 3 e l’ Olimpica 1), in cui la figura del dinasta siceliota non è celebrata solo per la vittoria agonale, ma anche e soprattutto per le virtù regali e le conquiste militari. Scopo dell’a. è mostrare che Pindaro contribuì ad un più ampio programma propagandistico del tiranno finalizzato a presentare un modello di regalità antitetico a quello incarnato dal Gran Re persiano.
Il volume è suddiviso in nove capitoli: i primi quattro intendono definire il contesto storico nel quale si situa la produzione pindarica in onore di Ierone, non solo in Sicilia, nel quadro dell’attività culturale alla corte dinomenide, ma più in generale sullo sfondo della celebrazione panellenica, civica o individuale, delle vittorie sui Persiani, in una climax di esaltazione dei meriti (Morgan impiega a più riprese il termine di aretalogy, particolarmente calzante) che coinvolse anche i tiranni siracusani.
Il primo capitolo offre un’ampia introduzione in cui l’a. espone in modo esaustivo l’obiettivo del suo studio, posizionandolo nell’ambito del ricco dibattito storiografico sulla produzione pindarica in onore di Ierone.. Morgan invita innanzitutto ad esaminare gli epinici commissionati dal tiranno siceliota senza prescindere dal loro contesto di produzione: Ierone regnò infatti all’indomani delle guerre persiane, quando i Greci ripensarono il concetto di regalità, di autorità e di libertà, e cominciarono a sviluppare una visione negativa della monarchia, influenzata dall’avversione nei confronti della figura del Gran Re persiano. La sfida che si presentava al tiranno siceliota, desideroso di affermare la propria fama e i propri meriti su un piano panellenico, era dunque quella di presentarsi come un’incarnazione nobile del potere regale. Seguendo l’esempio del fratello Gelone, Ierone si servì delle strategie pubblicitarie tradizionalmente adottate dalle aristocrazie greche, attraverso la partecipazione ai concorsi panellenici e la conseguente esaltazione delle vittorie ottenute tramite la poesia e l’arte. La voce autorevole del poeta lirico assunse quindi, in questo quadro, un rilievo particolare, come viene spiegato dall’a. (p. 7: Pindaro fu un “constructive agent in the creation of Hieron’s image”). Più precisamente, Pindaro modellò un ritratto positivo di Ierone attraverso un abile accostamento tra l’occasione della lode e alcuni topoi mitologici. Un meccanismo cui fece costantemente ricorso fu l’evocazione di “grandi peccatori” che, abusando della posizione privilegiata loro accordata dagli dèi, si macchiarono di hybris, contrariamente a Ierone, esaltato quale re saggio e cosciente dei limiti imposti dal sostegno e dalla benevolenza divini di cui godette, e quindi ben lontano dal modello persiano della regalità.
Il secondo capitolo ( The Deinomenids and Syracuse) sintetizza il quadro storico in cui si impose e consolidò la dinastia dinomenide e ne descrive la politica di autocelebrazione. Il programma di Ierone si inserì infatti nella scia delle conquiste del fratello maggiore Gelone, tiranno dal 491 al 478, fautore di una linea di espansione territoriale in Sicilia e nel Tirreno, e soprattutto vincitore della battaglia di Imera nel 480. La mitologizzazione di questo successo militare, esplicita sia nelle odi pindariche sia in Erodoto, permise ai Dinomenidi (che una parte della contraddittoria tradizione sulle guerre persiane accusò di aver medizzato) di rivendicare un ruolo capitale nella lotta tra Greci e Barbari. Tale messaggio venne diffuso in particolare a Delfi e a Olimpia: in entrambi i santuari panellenici, i confini sfumati tra le vittorie atletiche e quelle militari (espressione entrambe del favore divino) incitarono i Dinomenidi, nel clima di emulazione che caratterizzava le aristocrazie e le poleis elleniche, alla dedica sia di offerte ricavate dal bottino di guerra, sia di monumenti celebranti vittorie agonistiche. La politica egemonica di Gelone e Ierone si manifestò inoltre sul suolo siciliano, attraverso emissioni monetarie destinate a ricordarne i successi agonali, militari e politici, progetti architettonici innovativi ed ambiziosi a Siracusa (costruzione del tempio di Atena, del teatro e, più in generale, espansione del territorio urbano), oltre che attraverso il controllo e la conquista di nuovi territori (rifondazione di Camarina nel 492 e trasformazione di Catane in Etna nel 476, con trasferimento degli abitanti originari a Leontini e ripopolamento dorico).
Il terzo capitolo ( Poets and Patrons in Hieron’s Syracuse) è invece incentrato sui rapporti tra Ierone e i poeti che frequentarono la sua corte. La poesia assunse infatti un ruolo capitale nella propaganda dinomenide e nella costruzione di una retorica favorevole a Ierone. La tradizione, che l’a. prende attentamente in esame, sottolinea del resto la sensibilità di Ierone per la poesia e dà testimonianza della permanenza a Siracusa, oltre che di Pindaro e di Bacchilide, anche di Eschilo (e forse Frinico), Epicarmo, Senofane e Simonide. In questo capitolo viene affrontata anche la questione della ricompensa e dell’indipendenza di questi poeti. Nel caso di Pindaro, l’a. ipotizza che, lungi dall’essere un poeta “mercenario”, Pindaro fu un artista fiero della sua indipendenza e consapevole delle sue competenze, in particolare della sua capacità di assicurare una memoria poetica a un potente al quale era legato esclusivamente da vincoli di ospitalità, non da una relazione di sudditanza o di dipendenza economica. È tuttavia innegabile che la produzione pindarica fosse di tipo encomiastico, quindi necessariamente parziale, e che la supremazia politica del committente fosse di per sé sufficiente a generare ansia sul discorso da tenere. Tale difficoltà era peraltro acuita dal momento storico: all’indomani delle guerre persiane, il potere monarchico (regale e, a maggior ragione, tirannico) cominciò ad essere considerato come incompatibile con la libertà. Tale modello, proprio perché incarnato dal nemico persiano, venne fermamente stigmatizzato. Ne nacque lo stereotipo del tiranno preda di appetiti smisurati e di perversioni atroci. Tale clima culturale rendeva quindi necessaria una presentazione della monarchia-tirannide siracusana sotto una luce favorevole. Proprio su questo punto è imperniato il modello interpretativo dell’a., che considera che l’abilità di Pindaro consistette proprio nell’appoggiarsi sulla contrapposizione tra due poli, quello negativo incarnato da figure trasgressive quali Tantalo, Issione o Falaride, e quello positivo personificato da Ierone e dalle sue doti, leitmotiv che si presenta sistematicamente negli epinici per lui composti dal poeta tebano.
Il quarto capitolo ( Placing Hieron) completa la riflessione del capitolo precedente descrivendo in particolare la traiettoria discendente di Temistocle e Pausania i quali, nell’intento di essere celebrati quali leader carismatici e salvatori della Grecia, caddero in disgrazia e furono accusati di aver adottato proprio i difetti rimproverati al nemico persiano. La rivendicazione di gloria e onori personali, la circolazione di versioni contraddittorie sul contributo garantito dalle diverse poleis nelle principali battaglie (per esempio la diatriba sul ruolo di Corinto nella battaglia di Salamina) oppose del resto i Greci a suon di monumenti celebrativi ed epigrammi soprattutto negli anni ’70 del V secolo. È in questo contesto che va inserito anche l’incarico di Pindaro, i cui epinici contribuirono a reclamare per Ierone un posto nel firmamento panellenico, inserendolo nel clima di competizione che caratterizzò gli anni immediatamente successivi alle guerre persiane.
I capitoli successivi intendono quindi analizzare in modo più dettagliato i quattro epinici pindarici dedicati a Ierone, presentati in ordine cronologico di composizione. Il capitolo 5 (Pythian 2: a Royal Poetics) prende in esame la Pitica 2, composta tra 477/6-475/4 a.C.: la saggezza di Ierone viene qui contrapposta alla stoltezza di Issione, che, incurante della frontiera tra gli dèi e gli uomini, desiderò unirsi ad Era. L’analisi di Morgan sottolinea come lo stesso schema oppositivo venga applicato da Pindaro nell’ Olimpica 1, composta per la vittoria di Ierone nel 476 (capitolo 6: Olympian 1: Feast at the King’s Hearth): in questo componimento la trasgressione riguarda la sfera alimentare ed è incarnata da Tantalo. Il tantalide Pelope, invece, viene evocato come contraltare positivo di suo padre e corrispettivo di Ierone, come lui vincitore ad Olimpia ed eroe fondatore. La Pitica 3 (capitolo 7: Pythian 3: Victory over Vicissitude), composta dopo la fondazione di Etna (476) e prima della battaglia di Cuma (474), si discosta invece dalle altre composizioni in quanto più simile ad un poema di consolazione: non è infatti una vittoria atletica ad essere qui celebrata. Prevale al contrario il rammarico del poeta per la malattia del tiranno e per la sua mancata vittoria agonale. Resta tuttavia immutato lo schema compositivo che presenta qui, quali figure di peccatori ubristici, Asclepio e sua madre Coronide. I complessi rimandi e le allusioni (mortalità fisica e gloria immortale, contrapposizione tra i limiti della medicina e il potere della poesia, ineluttabilità della sorte dei mortali) sono anche in questo caso esaminati con grande cura dall’a. Lo stesso modello analitico viene applicato alla Pitica 1, (capitolo 8, Pythian 1: A Civic Symphony) nella quale, ancora una volta, la vittoria delfica del 470 è solo un pretesto per tessere le lodi del tiranno siciliano in quella che è sicuramente la più trionfale delle odi in suo onore. L’accento è posto qui sulle sue virtù “cosmiche”, generatrici di armonia, sui suoi meriti di vincitore dei Cartaginesi e degli Etruschi, ecista di Etna, figura paterna e quindi assimilabile a Zeus e antitesi del ribelle Titano e dell’agrigentino Falaride.
L’ultimo capitolo ( Henchmen) riguarda gli epinici composti da Pindaro in onore di Cromio, cognato di Ierone e reggente di Etna ( Nemee 1 e 9) e di Agesia, l’indovino di Ierone ( Olimpica 6). Come mette in evidenza l’a., in queste composizioni i due collaboratori di Ierone sono celebrati al pari di altri aristocratici destinatari di epinici pindarici. Pindaro non omette però di far intendere il rapporto di subordinazione di Cromio e di Agesia nei confronti di Ierone e di proporre echi tematici delle odi in onore del tiranno siceliota, mostrando in ciò piena consapevolezza della gerarchia che regolava le relazioni tra quest’ultimo e i suoi collaboratori.
La conclusione sintetizza le riflessioni sviluppate nei capitoli precedenti e ribadisce la tesi avanzata nel primo capitolo e quindi argomentata man mano tramite l’analisi dei vari epinici ieroniani: Pindaro fu il poeta giusto al momento giusto, capace di trasformare l’occasione della vittoria agonale in una celebrazione del potere monarchico in “a world where kings were becoming unfashionable” (p. 22). Il contributo di questo corposo volume non può essere ridotto ai suoi aspetti meramente filologico-letterari: l’a. non si limita ad analizzare le composizioni pindariche alla luce della produzione poetica precedente (Esiodo e Omero in particolare) o contemporanea a Pindaro (Bacchilide), ma si preoccupa di inserire gli epinici pindarici nel contesto storico e culturale, locale e panellenico, che caratterizzò il decennio della tirannide di Ierone. Si tratta insomma di una pubblicazione importante, che nel proporre una sintesi critica degli studi precedenti (la bibliografia è vasta e tiene conto di studi, anche molto recenti, in lingua inglese, italiana, francese, tedesca) propone nel contempo interpretazioni stimolanti e convincenti del rapporto tra Pindaro e Ierone. Si tratta certamente di una lettura indispensabile per gli specialisti. La chiarezza dell’articolazione e dell’esposizione (anche a costo di qualche ripetizione), la rendono altresì accessibile anche ai non ellenisti. Ci sembra infine che da tale studio possa trarre vantaggio anche chi si accosta in modo più generale, a prescindere dalle epoche storiche, alla questione del rapporto tra l’artista e la sua committenza, proprio per i meccanismi universali che questa relazione mette sistematicamente in gioco.