[The author would like to apologize for the lateness of this review]
Come ricordano nella loro breve premessa Nicolas Meylan e Daniel Barbu (p. 7-13), i contributi raccolti nel volume sono l’esito di un’attività seminariale sviluppatasi tra il 2010 e il 2012, presso l’Università di Ginevra, nel quadro di un più ampio programma di ricerca dedicato a La Fabrique des savoirs e sostenuto dal Fonds National de Suisse: un progetto destinato a studiare le pratiche intellettuali e sociali attraverso cui un sapere si struttura e assume un ruolo guida nei diversi universi culturali. Mostrare le diverse declinazioni attraverso cui il “sapere delle religioni” si costruisce oppure entra, in momenti particolari, in crisi o partecipa a più ampi processi di ristrutturazione dell’orizzonte di senso è dunque lo scopo principale di quest’opera, che si articola in tre sezioni, ciascuna delle quali si concentra su un differente grado di riflessività dei saperi “religiosi”.
La prima sezione ( Ateliers antiques) raccoglie sette casi studio che mirano a descrivere il profilo identitario di una comunità attraverso il complesso delle norme rituali che essa ha istituito e con le quali si stabilisce un processo di incessante ridefinizione. In questa sezione si vuol gettare luce sui meccanismi del gioco identitario. Quanto l’apprendimento stesso costruisca un sapere “religioso” insostituibile e legittimante è evidenziato da Anne-Caroline Rendu Loisel ( La chasse aux méchants démons, p. 17-39) attraverso la figura dell’ asipu, sacerdote che incarna in modo efficace l’interrelazione tra prassi e teoria (intesa come apprendimento/apprendistato destinato a rafforzare la figura dello specialista): la trasmissione scritta di questo sapere lungo un plurimillenario arco di tempo induce giustamente a interrogarsi sulla permanenza degli obiettivi attribuiti ai rituali nel corso delle generazioni. François D. Voegeli ( Mémoires indiennes, p. 41-68) si concentra su alcuni aspetti della funzione mnestica nell’India vedica, prendendo in esame le difficoltà generate dal tentativo di comprendere la trasmissione orale dei saperi in un quadro culturale dominato dalla logica della scrittura. L’inevitabile tensione è esemplificata dall’analisi dei termini vedici che rinviano ai concetti di “ascolto” e di “memoria”, così come sono stati trattati negli studi moderni: nello sforzo di resistere al rischio dell’oblio la tensione tra oralità e scrittura produce una disciplina della memoria legate alle tecniche recitative per la fissazione mnestica del testo. In Conservation, évolution, transcription et mémoire en correspondance et obstruction mutuelle : le cas du bouddhisme indien (p. 69-106), Elsa Legittimo esamina le conseguenze dell’uso delle lingue locali sulla costruzione del sapere, in particolare nel buddismo indiano: anche qui il filo rosso è segnalato dal rapporto oralità/memoria/scrittura e dalla varietà di tecniche mnemoniche elaborate e adattate ai diversi contesti d’uso. Perciò l’espansione del buddismo dovette confrontarsi con i problemi specifici generati dalle realtà locali, da un lato, e dall’altro la costruzione di un canone capace di offrire una cornice condivisa, grazie all’insostituibile funzione svolta da scrittura, memoria e traduzione, secondo i principi dell’inclusività e del plurilinguismo. Sul rapporto tra religione e filosofia e sulla genealogia della nozione di filosofia si sofferma James M. Redfield ( Les héritiers de Pythagore : la philosophie comme connaissance religieuse, p. 107-124). Sotto questo aspetto la figura di Pitagora e la tradizione che da subito lo circonda costituiscono un’occasione esemplare di riflessione. Partendo da Ferecide di Siro, considerato dalla tradizione maestro di Pitagora, Redfield si sofferma su un elemento di novità nei quadri mentali della polis, cioè il problema del destino dell’anima dopo la morte del corpo, una questione che individua un elemento critico mai perfettamente integrato nella religione della polis. In tale quadro la filosofia si presenta come una sorta di “contre-culture” rispetto al razionalismo riformatore di VI secolo, considerato che il termine “filosofia” sembra emergere nei testi greci alla fine del V secolo come conseguenza dell’arrivo in Grecia di esuli pitagorici dall’Occidente. Gli insoliti e apparentemente stravaganti interdetti pitagorici sembrano perciò segnalare un’esigenza di distinzione e separatezza, e al contempo di appartenenza, come emerge dalle osservazioni di Redfield su Platone, i cui dialoghi non avrebbero tanto un obiettivo di teorizzazione sistematica, quanto piuttosto la promozione di un’idea di filosofia come attività che alimenta i legami di una forte amicizia, come tale capace di modificare la realtà. Se i saperi sono l’esito di rapporti di forza interni alla società che li produce, David Bouvier ( Platon dans la fabrique du poète, p. 125-147) si interessa alle cornici epistemologiche che li legittimano determinando una gerarchizzazione mutevole, legata ai contesti e alle prospettive, come nel caso della poesia: il termine e il lessico che le ruota intorno ( poiesis, poiema, poietes) compaiono e si affermano ben più tardi della prima fase di produzione letteraria, rendendo così problematiche le nozioni di “fabrication” e “production” come nozioni portanti della rappresentazione dell’attività poetica. Non si tratta però di una scelta operata all’interno del genere, ma di una prospettiva esterna, che trova particolare espressione tra i sofisti. Ciò implica l’attribuzione ai poeti di una funzione “antropopoietica”: il poeta modella il suo pubblico, e per tale via gli vengono attribuiti poteri e responsabilità, come (sintomaticamente) rivela la reazione di Platone. Prendendo spunto dall’opera di Strabone e sviluppando la sua tesi attraverso il caso esemplare dell’Iberia, particolarmente calzante per la sua collocazione ai “confini” del mondo, Mélanie Lozat ( Strabon et l’Ibérie : réflexions sur l’identité barbare dans la Géographie, p. 149-167) esamina la tensione tra aspirazione universalistica dei saperi e completezza dettagliata dell’informazione. Destinata, nelle intenzioni di Strabone, a fornire uno strumento conoscitivo utile al governo dell’impero, la geografia deve includere la dimensione etnografica per realizzare una retorica dell’alterità finalizzata al controllo e al dominio. Eduard Iricinschi ( “Souvenez-vous aussi de moi dans vos prières”. Scribes et codex dans l’Égypte du IV e siècle, p. 169-203) si concentra sulle peculiarità che il sapere religioso presenta quando si fonda sui libri e sulla loro trasmissione, in particolare attraverso il caso dei monasteri dell’Egitto tardo-antico, volgendo l’attenzione al problema dalla circolazione, così come alle pratiche sociali di scrittura e lettura: obiettivo è individuare lo spazio di una “ koinonia scribale” all’interno di una più ampia comunità di lettori.
La seconda sezione ( Polémiques chrétiennes) raccoglie 8 contributi che focalizzano l’attenzione sul Cristianesimo e i processi di ridefinizione dei saperi religiosi. Philippe Borgeaud ( Des dieux poliades aux dieux des nations, p. 207-223) prende avvio dall’evoluzione semantica del termine “paganus” ed esamina l’invenzione cristiana del paganesimo come operazione di legittimazione ed espressione di alterità rispetto alla costituzione dell’universo culturale cristiano. Carole Fry ( Jérôme et Augustin en réseau pensant. De l’heuristique à la psychopathologie, p. 225-262) affronta il rapporto tra l’ortodossia e l’edificio teologico cristiano nel suo insieme: un obiettivo che passa attraverso il confronto con le scuole filosofiche e la tensione emozione vs ragione, come emerge dalle posizioni antinomiche di Girolamo e Agostino. Per Francesco Massa ( L’accusation de dionysisme : un paradigme de la condamnation et de l’exclusion religieuse à l’époque impériale, p. 263-290) i procedimenti di esclusione nel mondo greco-romano si servono preferibilmente dell’accusa di “impurità” (nelle sue molteplici varianti): l’Autore studia il ruolo destabilizzante attribuito a Dioniso e al dionisismo in età imperiale nella letteratura patristica, sia nella polemica pagani/cristiani sia in quella cristiani/eretici. Marion Casaux ( Enjeux identitaires et imitatio diabolica chez Tertullien : le Lavacrum et les cultes « orientaux ». Pour une relecture du De Baptismo, V, p. 291-318) esamina il contributo delle fonti cristiane alla recente decostruzione epistemologica dei cosiddetti “culti orientali”, con particolare attenzione a Tertulliano, attraverso lo scavo linguistico dei suoi testi. Bruno Dumézil ( Migrations et choix religieux dans l’Europe barbare, p. 319-339), concentrandosi sugli spostamenti di genti nell’Europa barbarica, indaga le scelte religiose (interne ed esterne al Cristianesimo) compiute dai gruppi che si spostano da una sede all’altra e sulle motivazioni sottese: conversione o rifiuto sono elementi chiave che marcano in profondità i rapporti interculturali anche nell’aspetto intergenerazionale. Partendo dalle ricerche di J. Assmann sulla memoria, Carmine Pisano ( Cosmas Indicopleustès et l’appropriation chrétienne du mythe de l’Atlantide, p. 341-371) si sofferma sull’interesse mostrato dalla memoria culturale cristiana nei confronti del racconto platonico di Atlantide, sulla base di elementi evocatori della narrativa biblica (il diluvio) e delle polemiche anticristiane sul declino dell’impero romano, con particolare attenzione all’opera di Cosma Indicopleuste. Valentina Calzolari ( Écriture et mémoire religieuse dans l’Arménie ancienne (V e siècle ap. J.-C.), p. 373-392) si occupa di un passaggio di grande rilevanza nella storia dell’Armenia tra IV e V secolo: la creazione di un sistema di scrittura, consentendo l’autonomia dal greco e dal siriaco, inserì la religione cristiana in una cornice identitaria nazionale, facendo degli Armeni un nuovo “popolo eletto”. Nel contributo di Nicolas Meylan ( Le contraire du Christianisme : une stratégie d’acculturation religieuse dans l’Islande médiévale, p. 393-406) la cristianizzazione dell’Islanda medievale è posta a confronto con il carattere eterogeneo del sapere religioso dei colonizzatori scandinavi, tra vocabolario religioso e lessico indigeno, prescrizioni bibliche e interdizione di pratiche magiche, e soprattutto attraverso la dialettica memoriale tra paganesimo e cristianesimo.
La terza e ultima sezione del volume ( La fabrique d’une histoire des religions) pone in prospettiva l’attrezzatura storiografica con cui la ricerca moderna affronta i problemi metodologici e i connessi limiti epistemologici. Richiamandosi alla nozione di anamorfosi, Daniel Barbu ( Variations sur le Veau d’or : Apis, Sarapis et un taureau volant, p. 409-441) rivolge l’attenzione alle trasformazioni e distorsioni del racconto biblico del vitello d’oro, nelle sue diverse espressioni narrative e iconografiche, in un continuo processo di bricolage nel quale la memoria religiosa si ricostituisce reagendo a differenti strategie di senso. Guillaume Ducœur ( Brahma dans la théorie des Moïses de Pierre-Daniel Huet (1630-1721), p. 443-470) prende spunto dalla straordinaria figura di erudito di Huet ed esamina il suo metodo comparativo, destinato a salvaguardare l’antichità e l’autenticità dell’Antico Testamento, che in quei decenni erano messe in discussione da pensatori come Hobbes e Spinoza. Youri Volokhine ( À propos de la construction d’un débat sur les mythes égyptiens, p. 471-498) si addentra nel dibattito sui miti egiziani, reso accidentato da pregiudizi o reticenze, così come si è sviluppato fino a tutta la metà del Novecento e, per certi aspetti, anche oltre: il nodo da sciogliere sembra collocarsi soprattutto nella divergenza concettuale generata da una visione ellenocentrica del mito legata alla supremazia della dimensione enunciativa che ostacola la comprensione del dossier egizio. All’incrocio tra sfide teoriche e operazioni ideologiche è anche il contributo che chiude il volume: Dan Dana ( L’élaboration d’une mémoire religieuse : les Thraces entre anciens et modernes, p. 499-538) indaga sulla memoria religiosa dei popoli traci e sulle opacità retoriche che ne hanno caratterizzato il dossier antico e gli studi moderni, già a partire dall’Iliade, poi attraverso il racconto erodoteo e via via fino a Strabone e Plutarco. Sul versante moderno, il mondo dei Traci si è trovato al centro tanto della diatriba accademica sulla religiosità non olimpica greca, così come dell’elaborazione identitaria e nazionale in aree come la Bulgaria e la Romania.
Il volume si segnala all’attenzione degli studiosi per l’ampia varietà di tematiche incrociate, non meno che per la pluralità di approcci e il comune orizzonte comparatista. Il filo che connette i diversi contributi è l’individuazione e l’esame dei fattori che concorrono alla costituzione di un sapere “religioso” o di un sapere sul “religioso”: in effetti non appare possibile separare l’una cosa dall’altra, anzi i due aspetti convergono, nei diversi contributi, con dosaggi e sensibilità di volta in volta differenti e irriducibili. Ciò comporta l’impraticabilità di una reductio ad unum delle diverse opzioni epistemologiche degli autori, così come la premessa aveva segnalato: al contrario, la dimensione contrastiva è la vera pietra d’angolo del volume nel suo insieme. Sotto questo aspetto l’intreccio di temi storici e storiografici si rivela essenziale per valutare ruolo e rischi che lo studioso moderno affronta in quanto elemento pienamente partecipe al campo di osservazione (non illusoria presenza esterna e autonoma): la prospettiva comparativa è perciò giustamente e costantemente richiamata per la sua efficacia e per la sua capacità di essere al tempo stesso strumento e oggetto di riflessione.